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Sito Letterario & Laboratorio di Scrittura Creativa di Monia Di Biagio.

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Giuseppe Parini: Vita&Opere.
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Monia Di Biagio

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MessaggioInviato: Mar Ott 10, 2006 9:25 pm    Oggetto:  Giuseppe Parini: Vita&Opere.
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Giuseppe Parini: Vita.

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«Ma che? Tu inorridisci e mostri in capo
Qual istrice pungente irti i capelli
Al suon di mie parole? Ah il tuo mattino
Signor questo non è ...»


(Il mattino, Giuseppe Parini)


***********************

Giuseppe Parini (Bosisio, 23 maggio 1729 – Milano, 15 agosto 1799) è stato un poeta italiano.

Indice [in questa pagina]:

1 Biografia
1.1 L'infanzia e gli studi
1.2 La prima raccolta di poesie
1.3 Membro dell'Accademia dei Trasformati e precettore di casa Serbelloni
1.4 Precettore a casa Imbonati
1.5 La protezione di Carlo Giuseppe Firmian
1.6 Le traduzioni dal francese
1.7 La partecipazione alla riforma scolastica
1.8 Membro della società patriottica
1.9 La composizione delle Odi
1.10 Gli ultimi anni di vita
1.11 La morte
2 Opere

*************

Biografia

-L'infanzia e gli studi-

Giuseppe Parino, che cambierà in seguito il suo cognome in Parini, nacque in Brianza, a Bosisio (in provincia di Lecco), presso il lago di Pusiano da Francesco Maria Parino, modesto commerciante di seta, e da Angela Maria Carpani.

Quella del poeta era una famiglia di estrazione popolare e numerosa e, non potendo permettersi di mantenere il figlio agli studi lo affidarono, a dieci anni, alle cure di una prozia che abitava a Milano dove Giuseppe venne iscritto alle classi inferiori delle scuole di Sant'Alessandro, o scuole Arcimbolde, gestite dai padri barnabiti.

Nel 1741 la prozia lasciò in eredità al nipote dodicenne una modesta rendita annua sui beni immobiliari, a condizione che divenisse sacerdote. Il giovane, che era debole di salute e desiderava continuare gli studi, si avviò così al sacerdozio ( prenderà i voti nel 1754 ) e proseguì gli studi senza grande profitto, come risulta dai registri della scuola che nell'anno 1749-1750 così riporta: "Parinus Joseph: ut plurimum abfuit, subdole per aliquot dies interfuit; litteris testimonialibus habitis, abfuit perpetuo".

Si possono spiegare gli scarsi risultati agli studi con il fatto che a causa delle difficoltà economiche e per aiutare i genitori, che nel frattempo erano venuti ad abitare a Milano, il giovane fu costretto a dare lezioni private e a copiare carte per vari studi legali, ma soprattutto per una spiccata insofferenza verso i metodi rigidi e antiquati dell'insegnamento.

Degli anni trascorsi in quella scuola conservatrice anche se prestigiosa, della quale furono allievi anche Pietro Verri e Cesare Beccaria, gli rimasero più che altro le letture personali dei classici greco-latini, come Anacreonte, Virgilio,Quinto e quella degli scrittori italiani, Dante, Ariosto oltre ai poeti del settecento.

-La prima raccolta di poesie-

Terminate le scuole nel 1752, grazie ad una maggiore, anche se modesta, sicurezza economica dovuta alla rendita della prozia (che aveva ottenuto nel 1751 in seguito ad una causa con l'esecutore testamentario, Antonio Rigola), il giovane pubblicò una prima raccolta di rime, dal titolo Alcune poesie di Ripano Eupilino (Ripano è l'anagramma di Parino, Eupili è il nome latino del lago di Pusiano: Parino da Eupili) sottoforma di novantaquattro componimenti di carattere sacro, profano, amoroso, pastorale e satirico, che risentono della sua prima formazione culturale e soprattutto dello spirito bernesco.

Da questi versi semplici e non encomiastici, si riscontra l'immagine di un giovane ancora socialmente e intellettualmente isolato che non conosce i dibattiti dell'ambiente lombardo ma che è ancora rivolto all'ambito dell'Arcadia e del classicismo cinquecentesco.

-Membro dell'Accademia dei Trasformati e precettore di casa Serbelloni-

Grazie però ad una certa fama acquisita con questa raccolta, il Parini venne accolto nel 1753 nell'Accademia dei Trasformati che si radunava in casa del conte Giuseppe Maria Imbonati ed era formata dal meglio dei rappresentanti della cultura milanese, dove troverà amici e protettori.

Dopo aver ottenuto a Lodi i voti sacerdotali, il 14 giugno del 1754, fu ordinato sacerdote ma le risorse economiche piuttosto scarse per farlo vivere in modo dignitoso, lo costrinsero ad accettare l'aiuto dell'abate Soresi che lo sosterrà nell'entrare al servizio del duca Gabrio Serbelloni come precettore dei suoi quattro figli.

Il servizio a casa Serbelloni durò dal 1754 fino al 1762 e, pur non dandogli la sicurezza economica, lo mise a contatto con persone di elevata condizione sociale e di idee aperte, a partire dalla contessa Vittoria che leggeva il Rousseau e il Buffon, al padre Soresi che sosteneva con ardore le riforme in campo scolastico, al medico di casa, Giuseppe Cicognini (in seguito direttore della facoltà di medicina di Milano) che sosteneva il dovere morale ad allargare le cure anche a coloro che per pregiudizio avevano mali considerati degni di colpa.

Intanto in casa Serbelloni il Parini osservò la vita della nobiltà in tutti i suoi aspetti ed ebbe modo di assorbire e rielaborare alcune nuove idee che arrivavano dalla Francia di Voltaire, Montesquieu, Rousseau, Condillac e dell' Encyclopédie, che influenzarono gli scritti di questo periodo al quale risale, tra gli altri, il Dialogo contro la nobiltà (1757), le odi La vita rustica (che sarà pubblicata solamente nel 1790 nelle Rime degli arcadi con lo pseudonimo di Darisbo Elidonio), La salubrità dell'aria (1759), che affronta come la precedente l'opposizione città-campagna ma con uno stile completamente nuovo, e La impostura (1761).

Sempre in questo periodo scrisse, per i Trasformati, una polemica letteraria contro i Pregiudizi delle umane lettere (1756) del padre Alessandro Bandiera con il titolo Due lettere intorno al libro intitolato "I pregiudizi delle umane lettere" e nel 1760 una nuova polemica letteraria contro i "Dialoghi della lingua toscana" del padre barnabita Onofrio Branda.

Nell'ottobre del 1762, per aver difeso la figlia del maestro di musica Sammartini che era stata schiaffeggiata dalla duchessa in uno scatto d'ira, fu licenziato e, abbandonata casa Serbelloni, venne presto accolto dagli Imbonati come precettore del giovane Carlo al quale il poeta dedicherà, nel 1764, l'ode La educazione.

-Precettore a casa Imbonati-

Nel marzo del 1763, incoraggiato dagli amici del gruppo dell'accademia e da conte Firmian pubblicò, anonima, presso lo stampatore milanese Agnelli, il Mattino che otterrà accoglienza favorevole dalla critica e soprattutto dal Baretti che, nel primo numero della rivista La frusta letteraria, uscito il 1° ottobre del 1763, dedicava un critica positiva all'opera.

Nel 1765 uscirà, ancora anonimo, il secondo poemetto il Mezzogiorno che, tranne il giudizio negativo di Pietro Verri sul "Caffè", otteneva da altre testate accoglienza positiva.

-La protezione di Carlo Giuseppe Firmian-

I due poemetti, con la satira della nobiltà decaduta e corrotta richiamarono l'attenzione sul Parini e nel 1766 il ministro Du Tillot lo chiamò per ricoprire la cattedra di eloquenza presso l'università di Parma, cattedra che egli rifiutò nella speranza di poter ottenere una cattedra a Milano. Nel 1768 La fama acquisita gli procurò la protezione del governo di Maria Teresa che era rappresentato in Lombardia dal conte Carlo Giuseppe de Firmian che, intuendo le sue potenzialità poetiche, lo nominò, nel 1768 poeta ufficiale del Regio Ducale Teatro e venne incaricato di adattare per la scena lirica la tragedia Alceste di Ranieri de' Calzabigi.

Nello stesso anno il conte gli affidò la direzione della "Gazzetta di Milano", organo ufficiale del governo austriaco, e nel 1769 la cattedra di eloquenza e belle arti presso le Scuole Palatine, cattedra che conservò fino al 1773, con il titolo di "principi generali di belle lettere applicati alle belle arti", anche quando quelle scuole si trasformarono nel Regio Ginnasio di Brera.

Tra il 1770 e il 1771 Parini scrisse il testo delle opere teatrali l'Amorosa incostanza e l'Iside salvata, in occasione di due cerimonie di corte, e l'opera pastorale Ascanio in Alba per le nozze dell'arciduca Ferdinando d'Austria con Maria Beatrice d'Este, che verrà successivamente musicata da Mozart, catalogata come opera K 111 e rappresentata per la prima volta al Ducale di Milano il 17 ottobre 1771.

-Le traduzioni dal francese-

Tradusse dal francese la tragedia "Mitridate re del Ponto" (Mithridate nell'originale) di Racine, che Mozart aveva musicato precedentemente - sulla base del libretto ricavato da Vittorio Amadeo Cigna-Santi - ricavandone l'opera omonima K87 rappresentata per la prima (e forse unica) volta sempre a Milano il 26 dicembre 1770.
Nel 1771 tradusse, in collaborazione di alcuni "Accademici trasformati" tra cui il Verri una parte del poemetto "La Colombiade" pubblicato da Anne Marie Du Boccage.

-La partecipazione alla riforma scolastica-

Nel 1774 fece parte di una commissione istituita per proporre un piano di riforma delle scuole inferiori e dei libri di testo e intanto si dedica alla composizione de Il Giorno e delle Odi.

-Membro della società patriottica-

Nel 1776 gli venne attribuita una pensione annua dal papa Pio VI e fu nominato ordinario della Società patriottica istituita da Maria Teresa per l'incremento dell'agricoltura.

-Gli ultimi anni di vita-

Tra il 1793 e il 1796 ospite del suo amico marchese Febo D'Adda scrisse altre odi (Il messaggio, A Silvia, Alla Musa, la Musica, L'evirazione) e quando i francesi di Bonaparte occuparono Milano entrò a far parte della Municipalità per tre mesi, rappresentando, insieme al Verri, la tendenza più moderata. Presto egli smise di partecipare alle assemblee della Municipalità e poco dopo venne destituito dalla carica.
Come appare nel frammento dell'ode A Delia, scritta tra il 1798 e il 1799, il poeta è avverso alla guerra e alla violenza e rifiuta la richiesta di una "ragguardevole donna" che voleva da lui un'esaltazione poetica delle vittorie francesi perché non poteva cantare "i tristi eroi" e "la terra lorda/ di gransangue plebeo".

-La morte-

Il poeta si spense nella sua abitazione di Brera il 15 agosto 1799, a pochi mesi di distanza dal ritorno degli Austriaci a Milano, dopo aver dettato il famoso sonetto Predàro i filistei l'arca di Dio.

Predàro i Filistei l'arca di Dio;
tacquero i canti e l'arpe de' leviti,
e il sacerdote innanzi a Dagon rio
fu costretto a celar gli antiqui riti.
Al fin di terebinto in sul pendio
Davidde vinse; e stimolò gli arditi
e il popol sorse; e gli empi al suol natio
de' dell'orgoglio loro andar pentiti.
Or Dio lodiamo. Il tabernacol santo
e l'arca è salva; e si dispone il tempio
che di Gerusalem fia gloria e vanto.
Ma splendan la giustizia e il retto esempio;
tal che Israel non torni a novo pianto,
a novella rapina, a novo scempio.


Venne sepolto a Milano nel cimitero di Porta Comasina con funerali molto semplici come egli stesso aveva voluto nel suo testamento:

"Voglio, ordino e comando che le spese funebri mi siano fatte nel più semplice e mero necessario, ed all'uso che si costuma per il più infimo dei cittadini".

******************

( Biografia tratta da Wikipedia, l'enciclopedia libera:
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Ultima modifica di Monia Di Biagio il Ven Set 14, 2007 4:01 pm, modificato 1 volta in totale
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MessaggioInviato: Mar Ott 10, 2006 9:25 pm    Oggetto: Adv






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MessaggioInviato: Mar Ott 10, 2006 9:30 pm    Oggetto:  Giuseppe Parini: Opere.
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Giuseppe Parini: Opere.

Opere

-Alcune poesie di Ripano Eupilino
-Il Giorno
-Odi

La composizione delle Odi

Con il nome di Darisbo Elidonio entrò nel 1777 a far parte dell'Arcadia di Roma proseguendo intanto nella composizione delle odi: La laurea (1777), Le nozze (1777), Brindisi (1778), La caduta, In morte del maestro Sacchini, Al consigliere barone De Marini (1783-1784), Il pericolo (1787), La magistratura (1788), Il dono (1789).

Nel 1791 il Parini venne nominato Soprintendente delle Scuole pubbliche di Brera e scrisse l'ode La gratitudine. Nello stesso anno vennero pubblicate ventidue delle sue odi con il titolo Odi dell'abate Parini già divolgate. Le ultime due parti del "Giorno", il Vespro e la Notte, pur risultando promesse in una lettera al Boldoni, saranno invece pubblicate postume.

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MessaggioInviato: Ven Set 14, 2007 4:18 pm    Oggetto:  Giuseppe Parini - Dialogo sopra la nobiltà - 1757
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Giuseppe Parini - Dialogo sopra la nobiltà - 1757

Ben puoi tu forse per favor de’ regi,
e de le drude loro, andar coperto
di titoli, di croci e di cordoni.
Ben può il tuo già da mille anni vantato
sangue scendere a te d’una in un’altra
Lucrezia; ma, se il tuo merto fondi
sopra il merto de’ padri, a me non conta
se non quelli che fûr grandi e dabbene.
Che se il tuo prisco sì, ma ignobil sangue
scorse per vili petti, anco che scenda
fin dal diluvio, vattene e racconta
ch’è plebea la tua stirpe, e non mi scopri
che sì gran tempi senza merti fûro
I padri tuoi.

(ALESS. POPE, Saggio sopra l’Uomo)

Benché l’umana superbia sia discesa fino ne’ sepolcri, d’oro e di velluto coperta, unta di preziosi aromi e di balsami, seco recando la distinzione de’ luoghi perfino tra’ cadaveri, pure un tratto, non so per quale accidente, s’abbatterono nella medesima sepoltura un Nobile ed un Poeta, e tennero questo ragionamento:

Nobile
Fatt’in là mascalzone!

Poeta
Ell’ha il torto, Eccellenza. Teme Ella forse che i suoi vermi non l’abbandonino per venire a me? Oh! le so dir io ch’e’ vorrebbon fare il lauto banchetto sulle ossa spolpate d’un Poeta.

Nobile
Miserabile! non sai tu chi io mi sono? Ora perché ardisci tu di starmi così fitto alle costole come tu fai?

Poeta
Signore, s’io stovvi così accosto, incolpatene una mia depravazione d’olfatto, per la quale mi sono avezzo a’ cattivi odori. Voi puzzate che è una maraviglia. Voi non olezzate già più muschio ed ambra, voi ora. Quanto son io obbligato a cotesti bachi che ora vi si raggirano per le intestina! essi destano effluvii così fattamente soavi che il mio naso ne disgrada a quello di Copronimo, che voi sapete quanto fosse squisito in fatto di porcherie.

Nobile
Poltrone! Tu motteggi, eh? Se io ora do che rodere a’ vermi, egli è perché in vita ero avezzo a dar mangiare a un centinaio di persone; dove tu, meschinaccio, non avevi con che far cantare un cieco: e perciò anche ora, se uno sciagurato di verme ti si accostasse, si morrebbe di fame.

Poeta
Oh, oh, sibbene, Eccellenza! Io ricordomi ancora di quella turba di gnatoni e di parassiti, che vi s’affollavan dintorno. Oh, quante ballerine, quante spie, quanti barattieri, quanti buffoni, quanti ruffiani! Diavolo! perché m’è egli toccato di scender quaggiù vosco; ch’altrimenti io gli avrei annoverati tutti quanti nel vostro epitaffio?

Nobile
Olà, chiudi cotesta succida bocca; o io chiamo il mio lacché, e ti fo bastonar di santa ragione.

Poeta
Di grazia, Vostra Eccellenza non s’incomodi. Il vostro lacché sta ora qua sopra con gli altri servi e co’ creditori facendo un panegirico de’ vostri meriti, ch’è tutt’altra cosa che l’orazion funebre di quel frate pagato da’ vostri figliuoli. Egli non vi darebbe orecchio, vedete, Eccellenza.

Nobile
Linguaccia, tu se’ tanto incallita nel dir male, che né manco i vermi ti possono rosicare.

Poeta
Che Dio vi dia ogni bene: ora voi parlate propriamente da vostro pari. Voi dite ch’io dico male, perché anco quaggiù seguo pure a darvi dell’Eccellenza, eh? Quanto ho caro che voi siate morto! Ben si vede che questo era il punto in cui voi avevate a far giudizio. Or bene, io darovvi, con vostra buona pace, del Tu. Noi parremo due Consoli Romani che si parlino la loro lingua. Povero Tu! Tu se’ stato seppellito insieme colla gloria del Campidoglio: bisogna pur venire quaggiù nelle sepolture chi ha caro di rivederti; oh! tu se’ pure la snella e disinvolta parola!

Nobile
Cospetto! se io non temessi di troppo avvilirmi teco, io non so chi mi tenesse dal batterti attraverso del ceffo questa trippa ch’ora m’esce del bellico che infradicia. Io dicoti, che tu se’ una linguaccia, io.

Poeta
Di grazia, Signore, fatelo, se il potete; ché voi non vi avvilirete punto. Questo è un luogo ove tutti riescono pari; e coloro, che davansi a credere tanto giganti sopra di noi colassù, una buona fiata che sien giunti qua, trovansi perfettamente appaiati a noi altra canaglia: non ècci altra differenza, se non che, chi più grasso ci giugne, così anco più vermi se ‘l mangiano. Voi avete in oltre a sapere che quaggiù solo stassi ricoverata la verità. Quest’aria malinconica, che qui si respira fino a tanto che reggono i polmoni, non è altro che verità, e le parole, ch’escono di bocca, il sono pure.

Nobile
Or bene, io t’ho còlto adunque, balordo: io dico adunque il vero, chiamandoti una linguaccia, un maldicente, dappoiché qui non si respira né si dice altro che verità.

Poeta
Piano, Signore. Vi ricorda egli quanti giorni sieno che voi veniste quaggiù?

Nobile
Sibbene, tre dì; e qualche ore dappoi ci giugnesti tu ancora.

Poeta
Gli è vero. Fu per lo appunto il giorno che quegli sciocchi di là sopra, dopo avermi lasciato morir di fame, si credettero di beatificarmi, qua collocandomi in compagnia di Vostra Eccellenza.

Nobile
Egli avevano ben ragione; se non che tu non meritavi cotesta beatitudine.

Poeta
Or dite, nel momento che voi spiraste non vi fu tosto serrata la bocca?

Nobile
Sì.

Poeta
Non vi si radunò poi d’intorno uno esercito di mosche che ve la turarono vie più?

Nobile
Che vuoi tu dire perciò?

Poeta
Non veniste voi chiuso fra quattro assi?

Nobile
Sì, e coperte di velluto, e guernite d’oro finissimo, e portato da quattro becchini e da assai gentiluomini con ricchissime vesti nere, colle mie arme dintorno, con mille torchi, che m’accompagnavano...

Poeta
Via, codesto non importa. Non foste voi, così imprigionato, gittato quaggiù?

Nobile
Sì, e, per ventura, cadendo si scommessero le assi, sì ch’io ne sdrucciolai fuora, e rimasimi quale or mi vedi.

Poeta
Non vedete voi adunque che voi avete tuttavia in corpo l’aria di là sopra, ch’e’ non ci fu verso ch’essa ne potesse uscire, tanto voi eravate ben chiuso da ogni banda?

Nobile
E cotesto che ci fa egli?

Poeta
Egli ci fa assai: conciossiaché l’aria, piena di verità, di quaggiù, non vi può entrare, e per conseguente non ne può uscire colle parole; laddove in me è seguito tutto il contrario. Io fui abbandonato alla discrezione del caso quand’io mi morii, e que’ ladri de’ becchini non m’ebbero punto di rispetto, concioffosseché io non fossi un cadavere Eccellenza: anzi, levatimi alcuni cenci ond’io era involto, quaggiù mi gittarono così gnudo com’io era nato. Voi vedete ora, che l’aria di colassù ben tosto si fu dileguata da’ miei polmoni; e che in quel cambio ci scese quest’aria veritiera di questo luogo ov’ora insieme abitiamo; e staracci finché qualche topo non m’abbia tanto bucato i polmoni ch’essa non ci possa più capire.

Nobile
Bestia! tu vuoi dunque conchiuder con ciò che tu solo dici il vero quaggiù, e ch’io dico la bugia?

Poeta
Io non dico già questo, io. Voi ben sapete che, quando altri è ben persuaso che ciò ch’ei dice sia vero, non si può già dire ch’egli faccia bugia, sebbene egli dica il falso, non avendo egli animo d’ingannare altrui, comeché egli per un cattivo raziocinio inganni sé medesimo.

Nobile
Mariuolo! tu fai bene a cercare di sgabellartene: ben sai che cosa importi il dare una mentita in sul viso ad un mio pari. Or via, poiché qui non ci resta altro che fare infino a tanto che questi vermi abbiano finito di rosicarci, io voglio pur darti retta: di’ pure; in che cosa m’inganno io? Egli sarà però la prima volta che un tuo pari abbia ardito di dirmi ch’io m’ingannassi.

Poeta
Signore, fatemi la cortesia di rispondere voi prima a me. Per qual ragione non volevate voi, dianzi, ch’io vi stessi vicino, a voi.

Nobile
Non te ‘l dissi io già? perché ciò non si conviene ad un pari tuo.

Poeta
E che? vi pungevo io forse, v’assordavo io, vi mandavo io qualche tristo odore alle narici, vi dava io infine qualche disagio alla persona?

Nobile
Benché cotesto fosse potuto essere per avventura, non è però per questo ch’io sommene doluto: ma solamente perché ciò non si conveniva.

Poeta
Or perché non si conveniva egli ciò? Forse che non può l’uomo star vicino all’altr’uomo quando egli no ‘l punga, non l’assordi, non gli mandi tristo odore alle narici, e finalmente non gli rechi verun disagio alla persona?

Nobile
Sì certo ch’egli il può; ma quando l’altro sia suo pari.

Poeta
E quand’egli no ‘l sia?

Nobile
Colui ch’è inferiore è tenuto a rispettar l’altro, che gli è superiore; e il non osare accostarsi è segno di rispetto; laddove il contrario è indizio di troppa famigliarità, come dianzi ti accennai.

Poeta
Voi non potete pensar di meglio: ma ditemi, se il cielo vi faccia salvo, chi, di noi due, giudicate voi che sia tenuto a rispettar l’altro?

Nobile
No ‘l vedi tu da te medesimo, balordo? Tu dèi rispettar me.

Poeta
Voi volete dire adunque che voi siete mio superiore. Non è egli ‘l vero?

Nobile
Sì certo.

Poeta
E per qual ragione il siete voi? Sareste voi per avventura il Re?

Nobile
Perché io son nobile, dove tu se’ plebeo.

Poeta
E che diacine d’animale è egli mai cotesto nobile? o perché dobbiam noi essere obbligati a rispettarlo? è egli uno elefante o una balena, che altri debba cedergli così grande spazio da occupare? O vuol egli forse dire un uomo pieno di virtù, e così benefico al genere umano, sicché l’altr’uomo sia forzato a portargli riverenza?

Nobile
Oh! tu se’ pure il grande scioccone. Uomo nobile non vuol dire niente di ciò; né per questo è ch’ei merita d’essere rispettato.

Poeta
E perché adunque?

Nobile
Perché egli ha avuto una nascita diversa dalla tua.

Poeta
Oh poffare! voi mi fareste strabiliare. Affé, che voi mi pigliaste ora per un bambolo da contargli le fole della fata e dell’orco. Non son io forse stato generato e partorito alla stessa stessissima foggia che il foste voi? E che! vi moltiplicate voi forse per mezzo delle stampe, voi altri nobili?

Nobile
Noi nasciamo come se’ nato tu medesimo, se io ho a dirti ‘l vero: ma il sangue che in noi è provenuto dai nostri maggiori è tutt’altra cosa che il tuo.

Poeta
Dàlle! e voi seguite pure a infilzarmi maraviglie. Forseché il vostro sangue non è come il nostro fluido e vermiglio? È egli fatto alla foggia di quello degli Dei d’Omero?

Nobile
Egli è anzi così, come il vostro, fluidissimo e vermiglissimo: ma tu ben sai che possa il nostro sangue sopra gli animi nostri.

Poeta
Io non so nulla, io. Di grazia, che credete però voi che il vostro sangue possa sopra gli animi vostri?

Nobile
Esso ci può più che non credi: esso rende i nostri spiriti svegliati, gentili e virtuosi; laddove il vostro li rende ottusi, zotici e viziosi.

Poeta
E perché ciò?

Nobile
Perché esso è disceso purissimo per insino a noi per li purissimi canali de’ nostri antenati.

Poeta
Se la cosa è come a voi pare, voi sarete adunque, voi altri Nobili, tutti quanti forniti d’animo svegliato, gentile e virtuoso.

Nobile
Sì certamente.

Poeta
Onde vien egli però che, quando io era colassù tra’ viventi, a me pareva che una così gran parte di voi altri fosse ignorante, stupida, prepotente, avara, bugiarda, accidiosa, ingrata, vendicativa e simili altre gentilezze? Forse che talora per qualche impensato avvenimento si è introdotta qualche parte del nostro sangue eterogeneo per entro a que’ purissimi canali de’ vostri antenati? Ed onde viene ancora, che tra noi altra plebe io ho veduto tante persone letterate, valorose, intraprendenti, liberali, gentili, magnanime e dabbene? Forse che qualche parte del vostro purissimo sangue vien talora, per qualche impensato avvenimento, ad introddursi negli oscuri canali di noi altra canaglia?

Nobile
Io non ti saprei ben dire onde ciò procedesse; ma egli è pur certo che bisogna sempre dir bene de’ nobili, perché bisogna rispettarli, se non per altro, almeno per l’antichità della nostra prosapia.

Poeta
Deh, Signore, ditemi per vita vostra, quanti secoli prima della creazione cominciò egli mai la vostra prosapia?

Nobile
Ah ah, tu mi fai ridere: pretenderesti tu forse, minchione, che ci avesse delle famiglie prima che nulla ci fosse?

Poeta
Or bene; di che tempo credete voi che avesse cominciamento la vostra famiglia?

Nobile
Dal tempo di Carlo Magno, cicala.

Poeta
Olà, tu fammi dunque il cappello tu, scòstati da me tu.

Nobile
Insolente! che linguaggio tieni tu ora con me? Tu mi faresti po’ poi scappare la pazienza.

Poeta
Olà! scòstati, ti dico io.

Nobile
E perché?

Poeta
Perché la mia famiglia è di gran lunga più antica della tua.

Nobile
Taci là, buffone; e da chi presumeresti però tu d’esser disceso?

Poeta
Da Adamo, vi dico io.

Nobile
Oh, io l’ho detto che tu ci avverresti bene a fare il buffone. Io comincio quasi ad avere piacere d’essermi qui teco incontrato. Suvvia, fammi adunque il catalogo de’ tuoi antenati.

Poeta
Eh, pensate! La vorrebb’esser la favola dell’uccellino se io avessi ora a contarvi ogni cosa. Questi rospi che ora ci rodono non hanno mica tanta pazienza, sapete! Così fosse stato addentato il vostro primo ascendente dov’ora uno d’essi m’addenta; che voi non vi vantereste ora di così antica famiglia.

Nobile
Ispàcciati; comincia prima da tuo padre, e va’ via salendo. Come chiamavas’egli?

Poeta
Il signor Giambattista, per servirvi.

Nobile
E il tuo nonno?

Poeta
Il mio nonno...

Nobile
Or di’.

Poeta
Zitto, aspettate ch’io lo rinvenga: il mio nonno...

Nobile
Sbrigati, ti dico, in tua malora!

Poeta
Il mio nonno chiamavasi messer Guasparri.

Nobile
E il tuo bisavolo?

Poeta
Oh questo, affé ch’io non me ‘l ricordo, e gli altri assai meno: ricorderestivi voi i vostri?

Nobile
Se io me li ricordo? Or senti: Rolando il primo, da Rolando il primo Adolfo, da Adolfo Bertrando, da Bertrando Gualtieri, da Gualtieri Rolando secondo, da Rolando secondo Agilulfo, da Agilulfo...

Poeta
Deh, lasciate lasciate, ch’io son ben persuaso che voi vi ricordate ogni cosa. Cappita! voi siete fornito d’una sperticata memoria, voi. Egli si par bene che voi non abbiate studiato mai altro che la vostra genealogia.

Nobile
Ora ti dài tu per vinto? mi concedi tu oggimai che io e gli altri nobili miei meritiamo d’esiggere rispetto e venerazione da voi altri plebei?

Poeta
Io vi concedo che voi aveste di molta memoria voi e i vostri ascendenti; ma, se cotesto vi fa degni di riverenza, io non so perché io non debba dare dello Illustrissimo anco a colui che mostra le anticaglie, dappoiché egli si ricorda di tanti nomi quanti voi fate, e d’assai più ancora.

Nobile
È egli però possibile, animale, che tu non ti avveda quanto celebri, quanto illustri, e quanto grandi uomini sieno stati questi miei avoli?

Poeta
Io giurovi ch’io non ne ho udito mai favellare. Ma che hann’eglino però fatto cotesti sì celebri avoli vostri? Hanno eglino forse trovato la maniera del coltivare i campi; hanno eglino ridotti gli uomini selvaggi a vivere in compagnia? Hanno eglino forse trovato la religione, le leggi e le arti che sono necessarie alla vita umana? S’egli hanno fatto niente di questo, io confessovi sinceramente che cotesti vostri avoli meritavano d’essere rispettati da’ loro contemporanei, e che noi ancora non possiamo a meno di non portar riverenza alla memoria loro. Or dite, che hanno eglino fatto?

Nobile
Tu dèi sapere che que’ primi de’ nostri avoli prestarono de’ grandi servigi a gli antichi nostri principi, aiutandoli nelle guerre ch’eglino intrapresero; e perciò furono da quelli beneficati insignemente e renduti ricchi sfondolati. Dopo questi, altri divenuti fieri per la loro potenza, riuscirono celebri fuorusciti, e segnalarono la loro vita faccendo stare al segno il loro Principe e la loro patria; altri si diedero per assoldati a condurre delle armate in servigio ora di questo or di quell’altro signore, e fecero un memorabile macello di gente d’ogni paese. Tu ben vedi che in simili circostanze, sia per timore d’essere perseguitati, sia che per le varie vicende s’erano scemate le loro facoltà, si ritirarono a vivere ne’ loro feudi; ricoverati in certe loro ròcche sì ben fortificate, che gli orsi non vi si sarebbono potuti arrampicare; dove non ti potrei ben dire quanto fosse grande la loro potenza. Bastiti il dire che nelle colline ov’essi rifugiavano, non risonava mai altro che un continovo eco delle loro archibusate, e ch’egli erano dispotici padroni della vita e delle mogli de’ loro vassalli. Ora intendi quanto grandi e quanto rispettabili uomaccioni fosser costoro, de’ quali tenghiamo tuttavia i ritratti appesi nelle nostre sale.

Poeta
Or via, voi avete detto abbastanza dello splendore e del merito de’ vostri avi. Non andate, vi priego, più oltre, perché noi entreremmo forse in qualche ginepraio. Per altro voi fate il bell’onore alla vostra prosapia, attribuendo a’ vostri ascendenti il merito che finora avete attribuito loro. Voi fate tutto il possibile per rivelare la loro vergogna e per isvergognare anche voi stesso, se fosse vero, come voi dite, che a voi dovesse discendere il merito de’ vostri maggiori e che questi fossero stati i meriti loro. Io credo bene che tra’ vostri antenati, così come tra’ nobili che io ho conosciuti, vi saranno stati di quelli che meriterebbono d’essere imitati per l’eccellenza delle loro sociali virtù; ma siccome queste virtù non si curano di andare in volta a processione, così si saranno dimenticate insieme col nome di que’ felici vostri antenati, che le hanno possedute.

Nobile
Or ti rechi molto in sul serio tu, ora.

Poeta
Finché voi non mi faceste vedere altro che vanità, io mi risi della leggerezza del vostro cervello; ma, dappoiché mi cominciate a scambiare i vizii per virtù, egli è pur forza che mi si ecciti la bile. Volete voi ora che noi torniamo a’ nostri scherzi?

Nobile
Sì, torniamoci pure, che il tuo discorso mi comincia oggimai a piacere; e quasi m’hai persuaso che questa Nobiltà non sia po’ poi così gran cosa, come questi miei pari la fanno.

Poeta
Rallegromene assai. Ben si vede che l’aria veritiera di questo nostro sepolcro comincia ora ad insinuarvisi ne’ polmoni, cacciandone quella che voi ci avevate recato di colassù.

Nobile
Sì, ma tu mi dèi concedere, nondimeno, che io merito onore da te in grazia della celebrità de’ miei avi.

Poeta
Or bene, io farovvi adunque quell’onore che fassi agli usurpatori, agli sgherri, a’ masnadieri, a’ violatori, a’ sicarii, dappoiché cotesti vostri maggiori di cui m’avete parlato furono per lo appunto tali, se io ho a stare a detta di voi; sebbene io mi creda che voi ne abbiate avuti de’ savii, de’ giusti, degli umani, de’ forti e de’ magnanimi, de’ quali non sono registrate le gesta nelle vostre genealogie perché appunto tali si furono e perché le sociali virtù non amano di andare in volta a processione. Non vi sembra egli giusto che, se voi avete ereditato i loro meriti, così ancora dobbiate ereditare i loro demeriti, a quella guisa appunto che chi adisce un’eredità assume con essa il carico de’ debiti che sono annessi a quella? e che per ciò, se quelli furono onorati, siate onorato ancora voi, e, se quelli furono infami, siate infamato voi pure?

Nobile
No certo, ché cotesto non mi parrebbe né convenevole né giusto.

Poeta
E perché ciò?

Nobile
Perché io non sono per verun modo tenuto a rispondere delle azioni altrui.

Poeta
Per qual ragione?

Nobile
Perché, non avendole io commesse, non ne debbo perciò portare la pena.

Poeta
Volpone! voi vorreste adunque godervi l’eredità, lasciando altrui i pesi, che le appartengono, eh! Voi vorreste adunque lasciare a’ vostri avoli la viltà del loro primo essere, la malvagità delle azioni di molti di loro e la vergogna che ne dee nascere, serbando per voi lo splendore della loro fortuna, il merito delle loro virtù, e l’onore ch’eglino si sono acquistati con esse.

Nobile
Tu m’hai così confuso, ch’io non so dove io m’abbia il capo. Io son rimasto oggimai come la cornacchia d’Esopo, senza pure una piuma dintorno. Se per questo, per cui io mi credeva di meritar tanto, io sono ora convinto di non meritar nulla, ond’è adunque che quelle bestie che vivevan con noi, facevanmi tante scappellate, così profondi inchini, davanmi tanti titoli e idolatravanmi sì fattamente ch’io mi credeva una divinità? e voi altri autori, e voi altri poeti, ne’ vostri versi e nelle vostre dediche, mi contavate tante magnificenze dell’altezza della mia condizione, della grandezza de’ miei natali, e il diavolo che vi porti, gramo e dolente ch’io mi sono rimasto!

Poeta
Coraggio, Signore; ché voi siete giunto finalmente a mirare in viso la bella verità. Pochissimi sono coloro che veder la possono colassù tra’ viventi; e qui solo tra queste tenebre ci aspetta a lasciarsi vedere tutta nuda com’ella è. Coraggio, Eccellenza.

Nobile
Dammi del tu in tua malora, dammi del tu; ch’io trovomi alla fine perfettamente tuo eguale, se non anzi al disotto di te medesimo, dappoiché io non trovomi aver più nulla per cui mi paia di poter esiggere segni di rispetto e di riverenza di sorta alcuna.

Poeta
Come! Credete voi forse che i titoli che vi si davano e gl’inchini che vi si facevano là sopra, fossero segnali d’ossequio e di venerazione, che altri avesse per voi? Oh, voi la sbagliate di molto, se ciò vi credete!

Nobile
Che eran egli adunque? Starommi a vedere che io mi viveva ingannato anche in ciò.

Poeta
Statemi bene ad udire. Saprestemi voi spiegare che cosa voglia dire Rispetto?

Nobile
Egli significa, se io però so bene quello ch’io mi dica, certi cenni e certe parole che altri usa verso ad alcuno, da’ quali questi comprende d’esser onorato e venerato da colui che li fa.

Poeta
Voi v’ingannate. Il Rispetto non è altro che un certo sentimento dell’animo posto fra l’affetto e la meraviglia, che l’uomo pruova naturalmente al cospetto di colui ch’ei vede fornito d’eccellenti virtù morali o d’eccellenti doti dell’ingegno o del corpo. Questo sentimento per lo più stassi rinserrato nel cuore di chi lo prova; e talvolta ancora per una certa ridondanza prorompe di fuora ne’ cenni o nelle parole.

Nobile
E quegli inchini, che mi si facevano, e que’ titoli che mi si davano, non provenivan egli forse da cotesto sentimento che tu di’?

Poeta
Eh, zucche! Egli è passato in costume tra gli uomini che coloro che sono arrivati a un certo grado di fortuna, volendo pure per eccesso della loro ambizione slontanarsi dalla comune degli altri mortali, si sono assunti certi titoli vuoti di senso, ed hanno richiesto da coloro che avean bisogno di essi, certi determinati atteggiamenti da farsi alla loro presenza. I capi de’ popoli sonosi prevaluti della vanità de’ loro soggetti, ed hanno di questi segnali instituito un commerzio; per mezzo del quale i ricchi ambiziosi, cambiando i loro tesori, si comperano fumo, e vanno imbottando nebbia. Gli sciocchi poi i quali non pensano più là dànnosi a credere che coloro siensi comperati insieme co’ titoli e colle distinzioni anche il merito, il quale non si compera altrimenti, ma si guadagna colle sole proprie virtuose azioni. I savii non cascano però a questa ragna; e sebbene per non andare a ritroso della moltitudine e comparir cinici o quacqueri impazzano co’ pazzi, e non sono avari di certe parole e di certi gesti che voi altri richiedete e che la moltitudine vi concede; nondimeno in cuor loro pesano il rispetto e la stima sulla bilancia dell’orafo, e non la concedono se non a chi se la merita. Eglino fanno come il forestiere, il quale s’inchina agl’idoli della nazione ov’egli soggiorna, per pura urbanità; ma se ne ride poi e li beffeggia dentro di se medesimo. M’intendeste voi ora? Pensate voi ora che i vostri creditori, allora quando, chini come voti davanti un’immagine, pregavanvi della loro mercede, trammischiando ad ogni parola il titolo di Eccellenza, avessero punto di venerazione per voi? Egli vi davano anzi mille volte in cuor loro il titolo di prepotente e di frodatore. E i vostri famigliari, che udivano e vedevano le vostre sciocchezze e le vostre bizzarrie taciti e venerabundi, oh quanto si ridevano in cuor loro della vostra melensaggine e della vostra stravaganza: e i filosofi e gli altri uomini di lettere, che v’udivan decidere così francamente d’ogni cosa...

Nobile
Deh! taci, te ne scongiuro; che mi par propio di morire la seconda volta, udendo quello che tu mi di’, e pensando ch’io ho aspettato nella sepoltura a sgannarmi della mia pecoraggine e della mia bestiale vanità. Non ti par egli ch’io meriti compassione?

Poeta
No, io; anzi da questo momento io comincio a provare per voi quel sentimento di rispetto e di stima ch’io vi diceva, considerandovi io per un uomo che conosce perfettamente la verità, che si ride della vanità e leggerezza di coloro che credonsi di meritar venerazione per lo sangue degli altri nelle lor vene disceso, che s’innalzano sopra gli altri uomini soltanto perché ricordansi i nomi di più numero de’ loro antenati che gli altri non fanno; che vantano per merito loro le azioni malvage de’ loro maggiori esiggendone rispetto; che usurpansi la mercede delle belle azioni non fatte né imitate da loro per veruna maniera, e che finalmente figuransi d’essersi comperati i meriti insieme co’ titoli, ed assomigliansi a colui che credevasi di poter comperar per danari lo spirito divino.

Nobile
Deh, amico, perché non ti conobbi io meglio, quand’io era colassù tra’ vivi; ché io non avrei aspettato a riconoscermi così tardi.

Poeta
Io ho tentato non poche volte di farvene accorgere, io, e con certe tronche parole, e con certi sorrisi, e con certe massime generali, gittate come alla ventura, e in mille altre fogge: ma voi, briaco di vanagloria, badavate a coloro che v’adulavano per mangiar pane, e non credevate che un plebeo potesse saper giudicare di nobiltà e di cavalleria assai meglio che voi non facevate.

Nobile
Che volevi tu ch’io facessi, se tutto cospirava a far che s’abbarbicasse ognora più in me questa mia sciocca e ridicola prosunzione? Fa’ tuo conto che, al mio primo uscir delle fasce, io non mi sentii sonare mai altro all’orecchio, se non che io era troppo differente dagli altri uomini, che io era cavaliere, che il cavaliere dee parlare, stare, moversi, chinarsi, non già secondo che l’affetto o la natura gl’ispira, ma come richiede l’etichetta e lo splendore della sua nascita. Così mi parlavano i genitori, egualmente vani che me: così i pedanti, che amavano di regnare in casa mia o di trattenermi ad onorar, com’egli dicevano, i loro collegi. Ma, prima che siemi impedito di parlar più teco, cavami, ti priego, anche di quest’altro dubbio. Egli mi pare che questa nobiltà, ch’io ho pur trovato essere un bel nulla, abbia contribuito sopra la terra a rendermi più contento della mia vita: saresti tu di parere ch’ella pur giovi alcuna cosa a render più felici gli uomini colassù?

Poeta
Io non vi negherò già questo, quando la nobiltà sia colle ricchezze congiunta o colla virtù o col talento; perciocché anco i pregiudizii e le false opinioni degli uomini, qualora sieno a tuo favore, possono esserti di qualche uso e comodità. Le ricchezze, unite a quelle circostanze che voi chiamate nobiltà, fanno sì che voi vi potete servire di que’ privilegi che co’ titoli vi furono conferiti, e così pascervi colla vana ambizione di poter essere in luogo donde gli altri sieno esclusi, e simili altre bagattelle. Che se la nobiltà è congiunta colla virtù, avviene di questa come delle antiche medaglie, che, quantunque la loro patina non renda intrinsecamente più prezioso il metallo onde sono composte né migliore il disegno onde sono improntate, nondimeno, per una opinione di chi se ne diletta, riescono più care e pregiate. Ed io ho pur veduti alcuni dabbene cavalieri godersi del volgare pregiudizio in loro favore, per così aver campo di far parere più bella la loro modestia e di far riuscire più cari i loro meriti sotto a questa vernice dell’umana opinione; e, scambiando così i titoli e le riverenze co’ beneficii e colle cortesie, mostrare la vera nobiltà dell’animo, e dar qualche corpo alla falsa, di cui finora teco parlai.

Nobile
Io non posso oggimai più dir motto, conciossiaché i miei polmoni cominciano a sdrucirsi, e la lingua a corrompersi. Rispondimi a questo ancora. Credi tu che la nobiltà possa giovar qualche cosa, spogliata della virtù, della ricchezza e de’ talenti?

Poeta
Voi non vedeste mai il più meschino uomo, né il più miserabile, d’un uomo spogliato in sola nobiltà. Egli può dire, come dicea quel prete alla fante, che scandolezzavasi per la cherca: - Spogliami nudo, e vedrai ch’io paio appunto un uomo.- Conculcato da’ ricchi, che in mezzo agli agi possono comperarsi i titoli quando vogliono, e si ridono della sterile nobiltà di lui; disdegnato da’ sapienti, che compiangono in lui l’ignoranza, accompagnata colla miseria e colla superbia; sfuggito dagli artigiani, alla cui bottega egli non s’arrischia d’impiegare le mani; odiato dalle persone dabbene, che abbominano il suo ozio e la sua inettitudine. Finalmente congedato da coloro ch’erano una volta suoi pari, i quali non soffrono d’ammetterlo nelle loro assemblee così gretto e meschino, senz’oro, senza cocchi, senza servi, e cose altre simili che sono il sostegno e l’unico splendore della nobiltà, vien ridotto ad abitar tutto il giorno un caffè di scioperati, che il mostrano a dito e fannolo scopo de’ loro motteggi e delle loro derisioni. Così il vano fasto della sua nobiltà è cangiato per lui in infamia; e per colmo della sua miseria e del suo ridicolo, gli restano tuttavia in mente e sulle labbra i nomi de’ suoi antenati. A questa condizione si accosta qualunque nobile famiglia che decade dalla sua prima ricchezza e insieme dalla sua prima virtù; se la modestia o la filosofia non la sostiene.

Nobile
Oimè! che in cotesta condizione io ho lasciato i miei figliuoli colassù; e tutto ciò per colpa...

Poeta
Egli non può più parlare; la lingua gli si è infracidita. Riposatevi, Eccellenza, sul vostro letame. La lingua de’ Poeti è sempre l’ultima a guastarsi. Beato voi, se colassù aveste trovato uno sì coraggioso che avesse ardito di trattarvi una sola volta da sciocco! Se io avessi a risuscitare, io per me, prima d’ogni altra cosa, desidererei d’esser uomo dabbene, in secondo luogo d’esser uomo sano, dipoi d’esser uomo d’ingegno, quindi d’esser uomo ricco, e finalmente, quando non mi restasse più nulla a desiderare, e mi fosse pur forza di desiderare alcuna cosa, potrebbe darsi che per istanchezza io mi gettassi a desiderar d’esser uomo nobile, in quel senso che questa voce è accettata presso la moltitudine.

****************

( Brano tratto da:
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Monia Di Biagio

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MessaggioInviato: Ven Set 14, 2007 4:24 pm    Oggetto:  Giuseppe Parini - Il Giorno
Descrizione:
Rispondi citando

Giuseppe Parini - Il Giorno

-Il Giorno
-Il Mattino (1763)
-Il Mezzogiorno (1765)
-Il Vespro (1801)
-La Notte (1801)

*************

-Il Mattino-

-Alla Moda-

Lungi da queste carte i cisposi occhi già da un secolo rintuzzati, lungi i fluidi nasi de' malinconici vegliardi. Qui non si tratta di gravi ministerii nella patria esercitati, non di severe leggi, non di annoiante domestica economia, misero appannaggio della canuta età. A te, vezzosissima Dea, che con sí dolci redine oggi temperi e governi la nostra brillante gioventú, a te sola questo piccolo Libretto si dedica e si consagra. Chi è che te qual sommo Nume oggimai non riverisca ed onori, poiché in sí breve tempo se' giunta a debellar la ghiacciata Ragione, il pedante Buon Senso e l'Ordine seccaginoso, tuoi capitali nemici, ed hai sciolto dagli antichissimi lacci questo tuo secolo avventurato? Piacciati dunque di accogliere sotto alla tua protezione, ché forse non n'è indegno, questo piccolo Poemetto. Tu il reca su i pacifici altari, ove le gentil Dame e gli amabili Garzoni sagrificano a sé medesimi le mattutine ore. Di questo solo egli è vago, e di questo solo andrà superbo e contento. Per esserti piú caro egli ha scosso il giogo della servile rima, e se ne va libero in versi sciolti, sapendo che tu di questi specialmente ora godi e ti compiaci. Esso non aspira all'immortalità, come altri libri, troppo lusingati da' loro Autori, che tu, repentinamente sopravvenendo, hai seppelliti nell'oblio. Siccome egli è per te nato, e consagrato a te sola, cosí fie pago di vivere quel solo momento, che tu ti mostri sotto un medesimo aspetto, e pensi a cangiarti e risorgere in più graziose forme. Se a te piacerà di riguardare con placid'occhio questo Mattino, forse gli succederanno il Mezzogiorno e la Sera; e il loro Autore si studierà di comporli ed ornarli in modo, che non meno di questo abbiano ad esserti cari.

-Il Mattino-

Giovin Signore, o a te scenda per lungo
Di magnanimi lombi ordine il sangue
Purissimo celeste, o in te del sangue
Emendino il difetto i compri onori 5
E le adunate in terra o in mar ricchezze
Dal genitor frugale in pochi lustri,
Me Precettor d'amabil rito ascolta.
Come ingannar questi noiosi e lenti
Giorni di vita, cui sí lungo tedio 10
E fastidio insoffribile accompagna,
Or io t'insegnerò. Quali al Mattino,
Quai dopo il Mezzodí, quali la Sera
Esser debban tue cure apprenderai,
Se in mezzo a gli ozi tuo ozio ti resta 15
Pur di tender gli orecchi a' versi miei.
Già l'are a Vener sacre e al giocatore
Mercurio ne le Gallie e in Albïone
Devotamente hai visitate, e porti
Pur anco i segni del tuo zelo impressi: 20
Ora è tempo di posa. In vano Marte
A sé t'invita; ché ben folle è quegli
Che a rischio de la vita onor si merca,
E tu naturalmente il sangue aborri.
Né i mesti de la dea Pallade studi 25
Ti son meno odïosi: avverso ad essi
Ti feron troppo i queruli ricinti
Ove l'arti migliori e le scïenze,
Cangiate in mostri e in vane orride larve,
Fan le capaci volte eccheggiar sempre 30
Di giovanili strida. Or primamente
Odi quali il Mattino a te soavi
Cure debba guidar con facil mano.
Sorge il Mattino in compagnia dell'Alba
Innanzi al Sol che di poi grande appare 35
Su l'estremo orizzonte a render lieti
Gli animali e le piante e i campi e l'onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
Letto cui la fedel moglie e i minori
Suoi figlioletti intiepidîr la notte; 40
Poi sul collo recando i sacri arnesi
Che prima ritrovâr Cerere e Pale,
Va col bue lento innanzi al campo, e scuote
Lungo il picciol sentier da' curvi rami
Il rudagioso umor che, quasi gemma, 45
I nascenti del Sol raggi rifrange.
Allora sorge il fabbro, e la sonante
Officina riapre, e all'opre torna
L'altro dí non perfette, o se di chiave
Ardua e ferrati ingegni all'inquïeto 50
Ricco l'arche assecura, o se d'argento
E d'oro incider vuol gioielli e vasi
Per ornamento a nova sposa o a mense.
Ma che? Tu inorridisci, e mostri in capo,
Qual istrice pungente, irti i capegli 55
Al suon di mie parole? Ah non è questo,
Signore, il tuo mattin. Tu col cadente
Sol non sedesti a parca mensa, e al lume
Dell'incerto crepuscolo non gisti
Ieri a corcarti in male agiate piume, 60
Come dannato è a far l'umile vulgo.
A voi, celeste prole, a voi, concilio
Di Semidei terreni, altro concesse
Giove benigno: e con altr'arti e leggi
Per novo calle a me convien guidarvi. 65
Tu tra le veglie e le canore scene
E il patetico gioco oltre piú assai
Producesti la notte; e stanco alfine
In aureo cocchio, col fragor di calde
Precipitose rote e il calpestio 70
Di volanti corsier, lunge agitasti
Il queto aere notturno; e le tenébre
Con fiaccole superbe intorno apristi,
Siccome allor che il Siculo terreno
Da l'uno a l'altro mar rimbombar fèo 75
Pluto col carro, a cui splendeano innanzi
Le tede de le Furie anguicrinite.
Così tornasti a la magion; ma quivi
A novi studi ti attendea la mensa
Cui ricopríen pruriginosi cibi 80
E licor lieti di Francesi colli
O d'Ispani, o di Toschi, o l'Ongarese
Bottiglia a cui di verde edera Bacco
Concedette corona, e disse: Siedi
De le mense reina. Alfine il Sonno 85
Ti sprimacciò le morbide coltríci
Di propria mano, ove, te accolto, il fido
Servo calò le seriche cortine:
E a te soavemente i lumi chiuse
Il gallo che li suole aprire altrui. 90
Dritto è perciò, che a te gli stanchi sensi
Non sciolga da' papaveri tenaci
Morfeo, prima che già grande il giorno
Tenti di penetrar fra gli spiragli
De le dorate imposte, e la parete 95
Pingano a stento in alcun lato i raggi
Del sol ch'eccelso a te pende sul capo.
Or qui principio le leggiadre cure
Denno aver del tuo giorno; e quinci io debbo
Sciorre il mio legno; e co' precetti miei 100
Te ad alte imprese ammaestrar cantando.
Già i valetti gentili udîr lo squillo
Del vicino metal, cui da lontano
Scosse tua man col propagato moto;
E accorser pronti a spalancar gli opposti 105
Schermi a la luce; e rigidi osservâro
Che con tua pena non osasse Febo
Entrar diretto a saettarti i lumi.
Ergiti or tu alcun poco, e sí ti appoggia
Alli origlieri i quai, lenti gradando 110
All'omero ti fan molle sostegno.
Poi coll'indice destro, lieve lieve
Sopra gli occhi scorrendo, indi dilegua
Quel che riman de la Cimmeria nebbia;
E de' labbri formando un picciol arco, 115
Dolce a vedersi, tacito sbadiglia.
Oh se te in sí gentile atto mirasse
Il duro Capitan qualor tra l'armi,
Sgangherando le labbra, innalza un grido
Lacerator di ben costrutti orecchi, 120
Onde a le squadre vari moti impone;
Se te mirasse allor, certo vergogna
Avría di sé piú che Minerva il giorno
Che, di flauto sonando, al fonte scorse
Il turpe aspetto de le guance enfiate. 125
Ma già il ben pettinato entrar di nuovo
Tuo damigello i' veggo; egli a te chiede
Quale oggi piú delle bevande usate
Sorbir ti piaccia in preziosa tazza:
Indiche merci son tazze e bevande; 130
Scegli qual più desii. S'oggi ti giova
Porger dolci allo stomaco fomenti,
Sí che con legge il natural calore
V'arda temprato, e al digerir ti vaglia,
Scegli il brun cioccolatte, onde tributo 135
Ti dà il Guatimalese e il Caribbèo
C'ha di barbare penne avvolto il crine:
Ma se noiosa ipocondria t'opprime,
O troppo intorno a le vezzose membra
Adipe cresce, de' tuoi labbri onora 140
La nettarea bevanda, ove abbronzato
Fuma et arde il legume a te d'Aleppo
Giunto, e da Moca, che di mille navi
Popolata mai sempre insuperbisce.
Certo fu d'uopo che dal prisco seggio 145
Uscisse un regno, e con ardite vele
Fra straniere procelle e novi mostri
E teme e rischi ed inumane fami
Superasse i confin, per lunga etade
Invïolati ancora; e ben fu dritto 150
Se Cortes e Pizzarro umano sangue
Non istimâr quel ch'oltre l'Oceàno
Scorrea le umane membra, onde tonando
E fulminando, alfin spietatamente
Balzaron giú da' loro aviti troni 155
Re Messicani e generosi Incassi;
Poiché nuove cosí venner delizie,
O gemma degli eroi, al tuo palato!
Cessi 'l Cielo però, che in quel momento
Che la scelta bevanda a sorbir prendi, 160
Servo indiscreto a te improvviso annunzi
Il villano sartor che, non ben pago
D'aver teco diviso i ricchi drappi,
Oso sia ancor con pòlizza infinita
A te chieder mercede. Ahimè, che fatto 165
Quel salutar licore agro e indigesto
Tra le viscere tue, te allor farebbe
E in casa e fuori e nel teatro e al corso
Ruttar plebeiamente il giorno intero!
Ma non attenda già ch'altri lo annunzi, 170
Gradito ognor, benché improvviso, il dolce
Mastro che i piedi tuoi, come a lui pare,
Guida e corregge. Egli all'entrar si fermi
Ritto sul limitare: indi elevando
Ambe le spalle, qual testudo il collo 175
Contragga alquanto; e ad un medesmo tempo
Inchini 'l mento, e con l'estrema falda
Del piumato cappello il labbro tocchi.
Non meno di costui, facile al letto
Del mio Signor t'accosta, o tu che addestri 180
A modular con la flessibil voce
Teneri canti, e tu che mostri altrui
Come vibrar con maestrevol arco
Sul cavo legno armonïose fila.
Né la squisita a terminar corona 185
Dintorno al letto tuo, manchi, o Signore,
Il Precettor del tenero idioma
Che da la Senna, de le Grazie madre,
Or ora a sparger di celeste ambrosia
Venne all'Italia nauseata i labbri. 190
All'apparir di lui l'itale voci
Tronche cedano il campo al lor tiranno;
E a la nova ineffabile armonia
De' sovrumani accenti, odio ti nasca
Piú grande in sen contro a le impure labbra 195
Ch'osan macchiarsi ancor di quel sermone
Onde in Valchiusa fu lodata e pianta
Già la bella Francese, et onde i campi
All'orecchio dei Re cantati fûro
«Lungo il fonte gentil de le bell'acque.» 200
Misere labbra che temprar non sanno
Con le Galliche grazie il sermon nostro,
Sí che men aspro a' dilicati spirti,
E men barbaro suon fieda gli orecchi!
Or te questa, o Signor, leggiadra schiera 205
Trattenga al novo giorno; e di tue voglie
Irresolute ancora or l'uno or l'altro
Con piacevoli detti il vano occúpi,
Mentre tu chiedi lor tra i lenti sorsi
Dell'ardente bevanda a qual cantore 210
Nel vicin verno si darà la palma
Sopra le scene; e s'egli è il ver, che rieda
L'astuta Frine che ben cento folli
Milordi rimandò nudi al Tamigi;
O se il brillante danzator Narcisso 215
Tornerà pure ad agghiacciare i petti
De' palpitanti Italici mariti.
Poiché cosí gran pezzo a' primi albori
Del tuo mattin teco scherzato fia,
Non senz'aver licenzïato prima 220
L'ipocrita pudore, e quella schifa
Cui le accigliate gelide matrone
Chiaman modestia, alfine o a lor talento,
O da te congedati escan costoro.
Doman si potrà poscia, o forse l'altro 225
Giorno a' precetti lor porgere orecchio,
Se meno ch'oggi a te cure dintorno
Porranno assedio. A voi, divina schiatta,
Vie piú che a noi mortali il ciel concesse
Domabile midollo entro al cerébro, 230
Sí che breve lavor basta a stamparvi
Novelle idee. In oltre a voi fu dato
Tal de' sensi e de' nervi e degli spirti
Moto e struttura, che ad un tempo mille
Penetrar puote, e concepir vostr'alma 235
Cose diverse, e non però turbarle
O confonder giammai, ma scevre e chiare
Ne' loro alberghi ricovrarle in mente.
Il vulgo intanto, a cui non dessi il velo
Aprir de' venerabili misteri, 240
Fie pago assai, poi che vedrà sovente
Ire e tornar dal tuo palagio i primi
D'arte maestri, e con aperte fauci
Stupefatto berrà le tue sentenze.
Ma già vegg'io che le ozïose lane 245
Soffrir non puoi piú lungamente, e in vano
Te l'ignavo tepor lusinga e molce,
Però che or te piú glorïosi affanni
Aspettan l'ore a trapassar del giorno.
Su dunque, o voi, del primo ordine servi 250
Che degli alti Signor ministri al fianco
Siete incontaminati, or dunque voi
Al mio divino Achille, al mio Rinaldo
L'armi apprestate. Ed ecco in un baleno
I tuoi valetti a' cenni tuoi star pronti. 255
Già ferve il gran lavoro. Altri ti veste
La serica zimarra ove disegno
Diramasi Chinese; altri, se il chiede
Piú la stagione, a te le membra copre
Di stese infino al piè tiepide pelli. 260
Questi al fianco ti adatta il bianco lino
Che sciorinato poi cada, e difenda
I calzonetti; e quei, d'alto curvando
Il cristallino rostro, in su le mani
Ti versa acque odorate, e da le mani 265
In limpido bacin sotto le accoglie.
Quale il sapon del redivivo muschio
Olezzante all'intorno, e qual ti porge
Il macinato di quell'arbor frutto,
Che a Ròdope fu già vaga donzella, 270
E chiama in van sotto mutate spoglie
Demofoonte ancor Demofoonte.
L'un di soavi essenze intrisa spugna
Onde tergere i denti, e l'altro appresta
Ad imbianchir le guance util licore. 275
Assai pensasti a te medesmo; or volgi
Le tue cure per poco ad altro obbietto
Non indegno di te. Sai che compagna
Con cui divider possa il lungo peso
Di quest'inerte vita il ciel destina 280
Al giovane Signore. Impallidisci?
No, non parlo di nozze: antiquo e vieto
Dottor sarei se cosí folle io dessi
A te consiglio. Di tant'alte doti
Tu non orni cosí lo spirto, e i membri, 285
Perché in mezzo a la tua nobil carriera
Sospender debbi 'l corso, e fuora uscendo
Di cotesto a ragion detto Bel Mondo,
In tra i severi di famiglia padri
Relegato ti giacci, a un nodo avvinto 290
Di giorno in giorno piú penoso, e fatto
Stallone ignobil de la razza umana.
D'altra parte il Marito ahi quanto spiace,
E lo stomaco move ai dilicati
Del vostr'Orbe leggiadro abitatori 295
Qualor de' semplicetti avoli nostri
Portar osa in ridicolo trïonfo
La rimbambita Fe', la Pudicizia,
Severi nomi! E qual non suole a forza
In que' melati seni eccitar bile, 300
Quando i calcoli vili del castaldo
Le vendemmie, i ricolti, i pedagoghi
Di que' sí dolci suoi bambini altrui,
Gongolando ricorda; e non vergogna
Di mischiar cotai fole a peregrini 305
Subbietti, a nuove del dir forme, a sciolti
Da volgar fren concetti onde s'avviva
Da' begli spirti il vostro amabil Globo.
Pèra dunque chi a te nozze consiglia,
Ma non però senza compagna andrai, 310
Che fia giovane dama, e d'altrui sposa;
Poiché sí vuole invïolabil rito
Del Bel Mondo onde tu se' cittadino.
Tempo già fu, che il pargoletto Amore
Dato era in guardia al suo fratello Imene; 315
Poiché la madre lor temea che il cieco
Incauto Nume perigliando gisse
Misero e solo per oblique vie,
E che, bersaglio agl'indiscreti colpi
Di senza guida e senza freno arciero, 320
Troppo immaturo alfin corresse il seme
Uman ch'è nato a dominar la terra.
Perciò la prole mal secura all'altra
In cura dato avea, sí lor dicendo:
«Ite, o figli, del par; tu piú possente 325
Il dardo scocca, e tu piú cauto il guida
A certa meta». Cosí ognor compagna
Iva la dolce coppia, e in un sol regno
E d'un nodo comun l'alme stringea.
Allora fu che il Sol mai sempre uniti 330
Vedea un pastore ed una pastorella
Starsi al prato, a la selva, al colle, al fonte;
E la Suora di lui vedeali poi
Uniti ancor nel talamo beato
Ch'ambo gli amici Numi a piene mani 335
Gareggiando spargean di gigli e rose.
Ma che non puote anco in divino petto,
Se mai s'accende ambizïon di regno?
Crebber l'ali ad Amore a poco a poco,
E la forza con esse; ed è la forza 340
Unica e sola del regnar maestra.
Perciò a poc'aere prima, indi piú ardito
A vie maggior fidossi, e fiero alfine
Entrò nell'alto, e il grande arco crollando,
E il capo, risonar fece a quel moto 345
Il duro acciar che la faretra a tergo
Gli empie, e gridò: Solo regnar vogl'io!
Disse, e volto a la madre: «Amore adunque,
Il piú possente infra gli Dei, il primo
Di Citerèa figliuol, ricever leggi, 350
E dal minor german ricever leggi,
Vile alunno, anzi servo? Or dunque Amore
Non oserà fuor ch'una unica volta
Ferire un'alma, come questo schifo
Da me vorrebbe? E non potrò giammai, 355
Dappoi ch'io strinsi un laccio, anco slegarlo
A mio talento, e, qualor parmi, un altro
Stringerne ancora? E lascerò pur ch'egli
Di suoi unguenti impeci a me i miei dardi
Perché men velenosi e men crudeli 360
Scendano ai petti? Or via, perché non togli
A me dalle mie man quest'arco, e queste
Armi da le mie spalle, e ignudo lasci
Quasi rifiuto de gli Dei Cupido?
Oh il bel viver che fia qualor tu solo 365
Regni in mio loco! Oh il bel vederti, lasso!
Studiarti a tôrre da le languid'alme
La stanchezza e 'l fastidio, e spander gelo
Di foco in vece! Or, genitrice, intendi:
Vaglio, e vo' regnar solo. A tuo piacere 370
Tra noi pàrti l'impero, ond'io con teco
Abbia omai pace, e in compagnia d'Imene
Me non trovin mai piú le umane genti».
Qui tacque Amore, e, minaccioso in atto,
Parve all'Idalia Dea chieder risposta. 375
Ella tenta placarlo, e pianti e preghi
Sparge ma in vano; onde a' due figli volta
Con questo dir pose al contender fine:
«Poiché nulla tra voi pace esser puote,
Si dividano i regni. E perché l'uno 380
Sia dall'altro germano ognor disgiunto,
Sieno tra voi diversi e 'l tempo e l'opra.
Tu che di strali altero a fren non cedi,
L'alme ferisci, e tutto il giorno impera:
E tu che di fior placidi hai corona 385
Le salme accoppia e coll'ardente face
Regna la notte». Ora di qui, Signore,
Venne il rito gentil che a' freddi sposi
Le tenebre concede, e de le spose
Le caste membra; e a voi beata gente 390
Di piú nobile mondo il cor di queste,
E il dominio del dí, largo destina.
Fors'anco un dí piú liberal confine
Vostri diritti avran, se Amor piú forte
Qualche provincia al suo germano usurpa: 395
Cosí giova sperar. Tu volgi intanto
A' miei versi l'orecchio, et odi or quale
Cura al mattin tu debbi aver di lei
Che, spontanea o pregata, a te donossi
Per tua Dama quel dí lieto che a fida 400
Carta, non senza testimoni, fûro
A vicenda commessi i patti santi,
E le condizïon del caro nodo.
Già la Dama gentil, de' cui bei lacci
Godi avvinto sembrar, le chiare luci 405
Col novo giorno aperse; e suo primiero
Pensier fu dove teco abbia piuttosto
A vegliar questa sera, e consultonne
Contegnosa lo sposo il qual pur dianzi
Fu la mano a baciarle in stanza ammesso. 410
Or dunque è tempo che il piú fido servo
E il piú accorto tra i tuoi mandi al palagio
Di lei, chiedendo se tranquilli sonni
Dormío la notte, e se d'imagin liete
Le fu Morfeo cortese. È ver che ieri 415
Sera tu l'ammirasti in viso tinta
Di freschissime rose; e piú che mai
Vivace e lieta uscío teco del cocchio,
E la vigile tua mano per vezzo
Ricusò sorridendo allor che l'ampie 420
Scale salí del maritale albergo:
Ma ciò non basti ad acquetarti, e mai
Non oblïar sí giusti ufici. Ahi quanti
Geni malvagi tra 'l notturno orrore
Godono uscire, ed empier di perigli 425
La placida quïete de' mortali!
Potría, tolgalo il cielo, il picciol cane
Con latrati improvvisi i cari sogni
Troncare a la tua Dama; ond'ella, scossa
Da subito capriccio, a rannicchiarsi 430
Astretta fosse, di sudor gelato
E la fronte bagnando e il guancial molle.
Anco potría colui che sí de' tristi
Come de' lieti sogni è genitore,
Crearle in mente di diverse idee 435
In un congiunte orribile chimera;
Onde agitata in ansïoso affanno
Gridar tentasse, e non però potesse
Aprire ai gridi tra le fauci il varco.
Sovente ancor ne la trascorsa sera 440
La perduta tra 'l gioco aurea moneta,
Non men che al Cavalier, suole a la Dama
Lunga vigilia cagionar: talora
Nobile invidia de la bella amica
Vagheggiata da molti, e talor breve 445
Gelosia n'è cagione. A questo aggiugni
Gl'importuni mariti, i quali in mente
Ravvolgendosi ancor le viete usanze,
Poi che cessero ad altri il giorno, quasi
Abbian fatto gran cosa, aman d'Imene 450
Con superstizïon serbare i dritti,
E dell'ombre notturne esser tiranni,
Non senza affanno de le caste spose
Ch'indi preveggon tra pochi anni il fiore
De la fresca beltade a sé rapirsi. 455
Or dunque ammaestrato a quali e quanti
Miseri casi espor soglia il notturno
Orror le Dame, tu non esser lento,
Signore, a chieder de la tua novelle.
Mentre che il fido messaggier si attende, 460
Magnanimo Signor, tu non starai
Ozïoso però. Nel dolce campo
Pur in questo momento il buon cultore
Suda, e incallisce al vomere la mano,
Lieto che i suoi sudor ti fruttin poi 465
Dorati cocchi, e peregrine mense.
Ora per te l'industre artier sta fiso
Allo scalpello, all'asce, al subbio, all'ago;
Ed ora a tuo favor contende o veglia
Il ministro di Temi. Ecco te pure, 470
Te la toilette attende: ivi i bei pregi
De la natura accrescerai con l'arte,
Ond'oggi uscendo, del beante aspetto
Beneficar potrai le genti, e grato
Ricompensar di sue fatiche il mondo. 475
Ma già tre volte e quattro il mio Signore
Velocemente il gabinetto scórse
Col crin disciolto e su gli omeri sparso,
Quale a Cuma solea l'orribil maga
Quando agitata dal possente Nume 480
Vaticinar s'udía. Cosí dal capo
Evaporar lasciò de gli oli sparsi
Il nocivo fermento, e de le polvi
Che roder gli potríen la molle cute,
O d'atroce emicrania a lui le tempie 485
Trafigger anco. Or egli avvolto in lino
Candido siede. Avanti a lui lo specchio
Altero sembra di raccôr nel seno
L'imagin diva: e stassi agli occhi suoi
Severo esplorator de la tua mano 490
O di bel crin volubile Architetto.
Mille d'intorno a lui volano odori
Che a le varie manteche ama rapire
L'auretta dolce, intorno ai vasi ugnendo
Le leggerissim'ale di farfalla. 495
Tu chiedi in prima a lui qual piú gli aggrada
Sparger sul crin, se il gelsomino, o il biondo
Fior d'arancio piuttosto, o la giunchiglia,
O l'ambra prezïosa agli avi nostri.
Ma se la Sposa altrui, cara al Signore, 500
Del talamo nuzial si duole, e scosse
Pur or da lungo peso il molle lombo,
Ah fuggi allor tutti gli odori, ah fuggi!
Ché micidial potresti a un sol momento
Tre vite insidïar: semplici sieno 505
I tuoi balsami allor, né oprarli ardisci
Pria che su lor deciso abbian le nari
Del mio Signore, e tuo. Pon mano poscia
Al pettin liscio, e coll'ottuso dente
Lieve solca i capegli; indi li turba 510
Col pettine e scompiglia: ordin leggiadro
Abbiano alfin da la tua mente industre.
Io breve a te parlai; ma non pertanto
Lunga fia l'opra tua; né al termin giunta
Prima sarà, che da piú strani eventi 515
Turbisi e tronchi a la tua impresa il filo.
Fisa i lumi allo speglio, e vedrai quivi
Non di rado il Signor morder le labbra
Impazïente, ed arrossir nel viso.
Sovente ancor, se artificiosa meno 520
Fia la tua destra, del convulso piede
Udrai lo scalpitar breve e frequente,
Non senza un tronco articolar di voce
Che condanni e minacci. Anco t'aspetta
Veder talvolta il mio Signor gentile 525
Furïando agitarsi, e destra e manca
Porsi nel crine; e scompigliar con l'ugna
Lo studio di molt'ore in un momento.
Che piú? Se per tuo male un dí vaghezza
D'accordar ti prendesse al suo sembiante 530
L'edificio del capo, ed oblïassi
Di prender legge da colui che giunse
Pur ier di Francia, ahi quale atroce folgore,
Meschino! allor ti pendería sul capo?
Ché il tuo Signor vedresti ergers'in piedi; 535
E versando per gli occhi ira e dispetto,
Mille strazi imprecarti; e scender fino
Ad usurpar le infami voci al vulgo
Per farti onta maggiore; e di bastone
Il tergo minacciarti; e vïolento 540
Rovesciare ogni cosa, al suol spargendo
Rotti cristalli e calamistri e vasi
E pettini ad un tempo. In cotal guisa,
Se del Tonante all'ara o de la Dea,
Che ricovrò dal Nilo il turpe Phallo, 545
Tauro spezzava i raddoppiati nodi
E libero fuggía, vedeansi al suolo
Vibrar tripodi, tazze, bende, scuri,
Litui, coltelli, e d'orridi muggiti
Commosse rimbombar le arcate volte, 550
E d'ogni lato astanti e sacerdoti
Pallidi all'urto e all'impeto involarsi
Del feroce animal che pria sí queto
Gía di fior cinto, e sotto a la man sacra
Umilïava le dorate corna. 555
Tu non pertanto coraggioso e forte
Soffri, e ti serba a la miglior fortuna.
Quasi foco di paglia è il foco d'ira
In nobil cor. Tosto il Signor vedrai
Mansuefatto a te chieder perdono, 560
E sollevarti oltr'ogni altro mortale
Con preghi e scuse a niun altro concesse;
Onde securo sacerdote allora
L'immolerai qual vittima a Filauzio,
Sommo Nume de' Grandi, e pria d'ognaltro 565
Larga otterrai del tuo lavor mercede.
Or, Signore, a te riedo. Ah non sia colpa
Dinanzi a te s'io travviai col verso
Breve parlando ad un mortal cui degni
Tu degli arcani tuoi. Sai che a sua voglia 570
Questi ogni dí volge e governa i capi
De' piú felici spirti; e le matrone,
Che da' sublimi cocchi alto disdegnano
Volgere il guardo a la pedestre turba,
Non disdegnan sovente entrar con lui 575
In festevoli motti allor ch'esposti
A la sua man sono i ridenti avori
Del bel collo e del crin l'aureo volume.
Perciò accogli, ti prego, i versi miei
Tuttor benigno: et odi or come possi 580
L'ore a te render grazïose mentre
Dal pettin creator tua chioma acquista
Leggiadra o almen non piú veduta forma.
Picciol libro elegante a te dinanzi
Tra gli arnesi vedrai che l'arte aduna 585
Per disputare a la natura il vanto
Del renderti sí caro agli occhi altrui.
Ei ti lusingherà forse con liscia
Purpurea pelle onde fornito avrallo
O Mauritano conciatore o Siro; 590
E d'oro fregi dilicati e vago
Mutabile color che il collo imíti
De la colomba v'avrà posto intorno
Squisito legator Batavo o Franco.
Ora il libro gentil con lenta mano 595
Togli; e non senza sbadigliare un poco
Aprilo a caso, o pur là dove il parta
Tra una pagina e l'altra indice nastro.
O de la Francia Proteo multiforme,
Voltaire troppo biasmato, e troppo a torto 600
Lodato ancor, che sai con novi modi
Imbandir ne' tuoi scritti eterno cibo
Ai semplici palati, e se' maestro
Di coloro che mostran di sapere;
Tu appresta al mio Signor leggiadri studi 605
Con quella tua Fanciulla agli Angli infesta,
Che il grande Enrico tuo vince d'assai,
L'Enrico tuo che non peranco abbatte
L'Italïan Goffredo, ardito scoglio
Contro a la Senna d'ogni vanto altera. 610
Tu de la Francia onor, tu in mille scritti
Celebrata Ninon, novella Aspasia,
Taide novella, ai facili sapienti
De la Gallica Atene, i tuoi precetti
Pur dona al mio Signore: e a lui non meno 615
Pasci la nobil mente, o tu ch'a Italia,
Poi che rapîrle i tuoi l'oro e le gemme,
Invidïasti il fedo loto ancora
Onde macchiato è il Certaldese, e l'altro
Per cui va sí famoso il pazzo Conte. 620
Questi, o Signore, i tuoi studiati autori
Fíeno e mill'altri che guidâro in Francia
A novellar con le vezzose schiave
I bendati Sultani, i regi Persi,
E le peregrinanti Arabe dame; 625
O che con penna liberale ai cani
Ragion donâro e ai barbari sedili,
E diêr feste e conviti e liete scene
Ai polli ed a le gru d'amor maestre.
Oh pascol degno d'anima sublime! 630
Oh chiara oh nobil mente! A te ben dritto
È che si curvi riverente il vulgo,
E gli oracoli attenda. Or chi fia dunque
Sí temerario che in suo cor ti beffi
Qualor partendo da sí begli studi 635
Del tuo paese l'ignoranza accusi,
E tenti aprir col tuo felice raggio
La Gotica caligine che annosa
Siede su gli occhi a le misere genti?
Cosí non mai ti venga estranea cura 640
Questi a troncar sí prezïosi istanti,
In cui non meno de la docil chioma
Coltivi ed orni il penetrante ingegno.
Non pertanto avverrà, che tu sospenda
Quindi a pochi momenti i cari studi, 645
E che ad altro ti volga. A te quest'ora
Condurrà il merciaiuol che in patria or torna
Pronto inventor di lusinghiere fole,
E liberal di forestieri nomi
A merci che non mai varcâro i monti. 650
Tu a lui credi ogni detto: e chi vuoi ch'osi
Unqua mentire ad un tuo pari in faccia?
Ei fia che venda, se a te piace, o cambi
Mille fregi e giojelli a cui la moda
Di viver concedette un giorno intero 655
Tra le folte d'inezie illustri tasche.
Poi lieto se n'andrà con l'una mano
Pesante di molt'oro; e in cor gioiendo,
Spregerà le bestemmie imprecatrici,
E il gittato lavoro, e i vani passi 660
Del calzolar diserto e del drappiere;
E dirà lor: «Ben degna pena avete,
O troppo ancor religïosi servi
De la necessitade! antiqua è vero
Madre e donna dell'arti, or nondimeno 665
Fatta cenciosa e vile. Al suo possente
Amabil vincitor v'era assai meglio,
O miseri, ubbidire. Il Lusso, il Lusso
Oggi sol puote dal ferace corno
Versar su l'arti a lui vassalle applausi 670
E non contesi mai premi e dovizie».
L'ora fia questa ancor che a te conduca
Il dilicato miniator di belle,
Ch'è de la Corte d'Amatunta e Pafo
Stipendiato ministro atto a gli affari 675
Sollecitar dell'amorosa Dea.
Impazïente or tu l'affretta e sprona
Perché a te porga il desïato avorio
Che de le amate forme impresso ride,
O che il pennel cortese ivi dispieghi 680
L'alme sembianze del tuo viso, ond'abbia
Tacito pasco, allor che te non vede
La pudica d'altrui sposa a te cara;
O che di lei medesma al vivo esprima
L'imagin vaga; o se ti piace, ancora 685
D'altra fiamma furtiva a te presenti
Con piú largo confin le amiche membra.
Ma poi che al fine a le tue luci esposto
Fia il ritratto gentil, tu cauto osserva
Se bene il simulato al ver risponda, 690
Vie piú rigido assai se il tuo sembiante
Esprimer denno i colorati punti
Che l'arte ivi dispose. Oh quante mende
Scorger tu vi saprai! Or brune troppo
A te parran le guance; or fia ch'ecceda 695
Mal frenata la bocca; or qual conviensi
Al camuso Etiòpe il naso fia.
Ti giovi ancora d'accusar sovente
Il dipintor che non atteggi industre
L'agili membra e il dignitoso busto, 700
O che con poca legge a la tua imago
Dia contorno o la posi o la panneggi.
È ver, che tu del grande di Crotone
Non conosci la scuola, e mai tua mano
Non abbassossi a la volgar matita 705
Che fu nell'altra età cara a' tuoi pari
Cui sconosciute ancora eran piú dolci
E piú nobili cure a te serbate.
Ma che non puote quel d'ogni precetto
Gusto trionfator che all'ordin vostro 710
In vece di maestro il Ciel concesse,
Et onde a voi coniò le altere menti
Acciò che possan de' volgari ingegni
Oltre passar la paludosa nebbia,
E d'aere piú puro abitatrici 715
Non fallibili scêrre il vero e il bello?
Perciò qual piú ti par loda, riprendi,
Non men fermo d'allor che a scranna siedi
Rafael giudicando o l'altro eguale
Che del gran nome suo l'Adige onora, 720
E a le tavole ignote i noti nomi
Grave comparti di color che primi
Fûr tra' Pittori. Ah s'altri è sí procace
Ch'osi rider di te, costui paventi
L'augusta maestà del tuo cospetto, 725
Si volga a la parete; e mentre cerca
Por freno in van col morder de le labbra
Allo scrosciar de le importune risa
Che scoppian da' precordi, vïolenta
Convulsïone a lui deformi il volto, 730
E lo affoghi aspra tosse; e lo punisca
Di sua temerità! Ma tu non pensa
Ch'altri ardisca di te rider giammai;
E mai sempre imperterrito decidi.
Or l'immagin compiuta intanto serba 735
Perché in nobile arnese un dí si chiuda
Con opposto cristallo, ove tu facci
Sovente paragon di tua beltade
Con la beltà de la tua Dama, o agli occhi
Degl'invidi la tolga, e in sen l'asconda 740
Sagace tabacchiera, o a te riluca
Sul minor dito fra le gemme e l'oro;
O de le grazie del tuo viso desti
Soavi rimembranze al braccio avvolta
De la pudica altrui Sposa a te cara. 745
Ma giunta è al fin del dotto pettin l'opra.
Già il maestro elegante intorno spande
Da la man scossa un polveroso nembo
Onde a te innanzi tempo il crine imbianchi.
D'orribil piato risonar s'udío 750
Già la corte d'Amore. I tardi vegli
Grinzuti osâr coi giovani nipoti
Contendere di grado in faccia al soglio
Del comune Signor. Rise la fresca
Gioventude animosa, e d'agri motti 755
Libera punse la senil baldanza.
Gran tumulto nascea; se non che Amore,
Ch'ogni diseguaglianza odia in sua corte,
A spegner mosse i perigliosi sdegni:
E a quei che militando incanutîro 760
Suoi servi impose d'imitar con arte
I duo bei fior che in giovenile gota
Educa e nutre di sua man natura:
Indi fe' cenno, e in un balen fûr visti
Mille alati ministri alto volando 765
Scoter le piume, e lieve indi fiocconne
Candida polve che a posar poi venne
Su le giovani chiome; e in bianco volse
Il biondo, il nero, e l'odïato rosso.
L'occhio cosí nell'amorosa reggia 770
Piú non distinse le due opposte etadi,
E solo vi restò giudice il Tatto.
Or tu adunque, o Signor, tu che se' il primo
Fregio ed onor dell'amoroso regno,
I sacri usi ne serba. Ecco che sparsa 775
Pria da provvida man la bianca polve
In piccolo stanzin con l'aere pugna,
E degli atomi suoi tutto riempie
Egualmente divisa. Or ti fa' core
E in seno a quella vorticosa nebbia 780
Animoso ti avventa. Oh bravo! oh forte!
Tale il grand'Avo tuo tra 'l fumo e 'l foco
Orribile di Marte, furïando
Gittossi allor che i palpitanti Lari
De la Patria difese, e ruppe e in fuga 785
Mise l'oste feroce. Ei non pertanto
Fuliginoso il volto, d'atro sangue
Asperso e di sudore, e co' capegli
Stracciati ed irti, da la mischia uscío
Spettacol fero a' cittadini istessi 790
Per sua man salvi; ove tu assai piú dolce
E leggiadro a vedersi, in bianca spoglia
Uscirai quindi a poco a bear gli occhi
De la cara tua Patria, a cui dell'Avo
Il forte braccio, e il viso almo celeste 795
Del Nipote dovean portar salute.
Ella ti attende impazïente, e mille
Anni le sembra il tuo tardar poc'ore.
È tempo omai che i tuoi valetti al dorso
Con lieve man ti adattino le vesti 800
Cui la moda e 'l buon gusto in su la Senna
T'abbian tessute a gara, e qui cucite
Abbia ricco sartor che in su lo scudo
Mostri intrecciato a forbici eleganti
Il titol di Monsieur. Non sol dia leggi 805
A la materia la stagion diverse;
Ma sien qual si conviene al giorno e all'ora
Sempre vari il lavoro e la ricchezza.
Fero Genio di Marte, a guardar posto
De la stirpe de' Numi il caro fianco, 810
Tu al mio giovane Eroe la spada or cingi,
Lieve e corta non già, ma, qual richiede
La stagion bellicosa, al suol cadente,
E di triplice taglio armata e d'elsa
Immane. Quanto esser può mai sublime 815
L'annoda pure, onde l'impugni all'uopo
La furibonda destra in un momento:
Nè disdegnar con le sanguigne dita
Di ripulire et ordinar quel nodo
Onde l'elsa è superba; industre studio 820
È di candida mano; al mio Signore
Dianzi, donollo, e gliel appese al brando,
La pudica d'altrui Sposa a lui cara.
Tal del famoso Artú vide la corte
Le infiammate d'amor donzelle ardite 825
Ornar di piume e di purpuree fasce
I fatati guerrieri, onde piú ardenti
Gisser poi questi ad incontrar periglio
In selve orrende tra i giganti e i mostri.
Figlie de la Memoria inclite Suore, 830
Che invocate scendeste, e i feri nomi
De le squadre diverse e de gli Eroi
Annoveraste ai grandi che cantâro
Achille, Enea, e il non minor Buglione,
Or m'è d'uopo di voi: tropp'ardua impresa, 835
E insuperabil senza vostr'aíta
Fia ricordare al mio Signor di quanti
Leggiadri arnesi graverà sue vesti
Pria che di se medesmo esca a far pompa.
Ma qual tra tanti e sí leggiadri arnesi 840
Sí felice sarà che pria d'ogn'altro,
Signor, venga a formar tua nobil soma?
Tutti importan del par. Veggo l'Astuccio
Di pelle rilucente ornato e d'oro
Sdegnar la turba, e gli occhi tuoi primiero 845
Occupar di sua mole: esso a mill'uopi
Opportuno si vanta, e in grembo a lui
Atta agli orecchi, ai denti, ai peli, all'ugne
Vien forbita famiglia. A lui contende
I primi onori d'odorifer'onda 850
Colmo Cristal che a la tua vita in forse
Rechi soccorso allor che il vulgo ardisce
Troppo accosto vibrar da la vil salma
Fastidïosi effluvi a le tue nari.
Né men pronto di quello all'uopo istesso 855
L'imitante un cuscin purpureo Drappo
Mostra turgido il sen d'erbe odorate
Che l'aprica montagna in tuo favore
Al possente meriggio educa e scalda.
Seco vien pur di cristallina rupe 860
Prezïoso Vasello onde traluce
Non volgare confetto ove agli aromi
Stimolanti s'unío l'ambra o la terra
Che il Giappon manda a profumar de' Grandi
L'etereo fiato; o quel che il Caramano 865
Fa gemer latte dall'inciso capo
De' papaveri suoi, perché qualora
Non ben felice amor l'alma t'attrista,
Lene serpendo per le membra, acqueti
A te gli spirti, e ne la mente induca 870
Lieta stupidità che mille aduni
Imagin dolci e al tuo desio conformi.
A questi arnesi il Cannocchiale aggiugni,
E la guernita d'oro anglica Lente.
Quel notturno favor ti presti allora 875
Che in teatro t'assidi, e t'avvicini
Gli snelli piedi e le canore labbra
Da la scena rimota, o con maligno
Occhio ricerchi di qualch'altra loggia
Le abitate tenèbre, o miri altrove 880
Gli ognor nascenti e moribondi amori
De le tenere Dame, onde s'appresti
Per l'eloquenza tua nel dí vicino
Lunga e grave materia. A te la Lente
Nel giorno assista, e de gli sguardi tuoi 885
Economa presieda, e sí li parta,
Che il mirato da te vada superbo,
Né i malvisti accusarti osin giammai.
La Lente ancora all'occhio tuo vicina
Irrefragabil giudice condanni 890
O approvi di Palladio i muri e gli archi
O di Tizian le tele: essa a le vesti,
Ai libri, ai volti feminili applauda
Severa o li dispregi. E chi del senso
Comun sí privo fia che opporsi unquanco 895
Osi al sentenzïar de la tua Lente?
Non per questi però sdegna, o Signore,
Giunto a lo specchio in gallico sermone
Il vezzoso Giornal; non le notate
Eburnee Tavolette a guardar preste 900
Tuoi sublimi pensier fin ch'abbian luce
Doman tra i begli spirti; e non isdegna
La picciola Guaína ove a' tuoi cenni
Mille stan pronti ognora argentei spilli.
Oh quante volte a cavalier sagace 905
Ho vedut'io le man render beate
Uno apprestato a tempo unico spillo!
Ma dove, ahi dove inonorato e solo
Lasci 'l coltello a cui l'oro e l'acciaro
Donâr gemina lama, e a cui la madre 910
De la gemma piú bella d'Anfitrite
Diè manico elegante ove il colore
Con dolce varïar l'iride imíta?
Opra sol fia di lui se ne' superbi
Convivi ognaltro avanzerai per fama 915
D'esimio Trinciatore, e se l'invidia
De' tuoi gran pari ecciterai qualora,
Pollo o fagian con la forcina in alto
Sospeso, a un colpo il priverai dell'anca
Mirabilmente. Or ti ricolmi alfine 920
D'ambo i lati la giubba, ed oleosa
Spagna e Rapé, cui semplice Origuela
Chiuda, o a molti colori oro dipinto;
E cupide ad ornar tue bianche dita
Salgan le anella in fra le quali assai 925
Piú caro a te dell'adamante istesso
Cerchietto inciso d'amorosi motti
Stríngati alquanto, e sovvenir ti faccia
De la pudica altrui Sposa a te cara.
Compiuto è il gran lavoro. Odi, o Signore, 930
Sonar già intorno la ferrata zampa
De' superbi corsier che irrequïeti
Ne' grand'atrii sospigne, arretra e volge
La disciplina dell'ardito auriga.
Sorgi, e t'appresta a render baldi e lieti 935
Del tuo nobile incarco i bruti ancora.
Ma a possente Signor scender non lice
Da le stanze superne infin che al gelo,
O al meriggio non abbia il cocchier stanco
Durato un pezzo, onde l'uom servo intenda 940
Per quanto immensa via natura il parta
Dal suo Signore. I miei precetti intanto
Io seguirò; ché varie al tuo mattino
Portar dee cure il varïar dei giorni.
Tal dí ti aspetta d'eloquenti fogli 945
Serie a vergar che al Rodano, al Lemano
All'Amstel, al Tirreno, all'Adria legga
Il libraio che Momo e Citerea
Colmâr di beni, o il piú di lui possente
Appaltator di forestiere scene 950
Con cui, per opra tua, facil donzella
Sua virtú merchi, e non sperato ottenga
Guiderdone al suo canto. O di grand'alma
Primo fregio ed onor, Beneficenza,
Che al merto porgi ed a virtú la mano! 955
Tu il ricco e il grande sopra il vulgo innalzi
Ed al concilio de gli Dei lo aggiugni.
Tal giorno ancora, o d'ogni giorno forse
Dên qualch'ore serbarsi al molle ferro
Che il pelo a te rigermogliante a pena 960
D'in su la guancia miete, e par che invidi
Ch'altri fuor che lui solo esplori o scopra
Unqua il tuo sesso. Arroge a questi il giorno
Che di lavacro universal convienti
Bagnar le membra, per tua propria mano, 965
O per altrui, con odorose spugne
Trascorrendo la cute. È ver che allora
D'esser mortal ti sembrerà; ma innalza
Tu allor la mente, e de' grand'avi tuoi
Le imprese ti rimembra e gli ozi illustri 970
Che infino a te per secoli cotanti
Misti scesero al chiaro altero sangue,
E l'ubbioso pensier vedrai fuggirsi
Lunge da te per l'aere rapito
Su l'ale de la Gloria alto volanti; 975
Et indi a poco sorgerai qual prima
Gran Semidèo che a sé solo somiglia.
Fama è cosí, che il dí quinto le Fate
Loro salma immortal vedean coprirsi
Già d'orribili scaglie, e in feda serpe 980
Volta strisciar sul suolo a sé facendo
De le inarcate spire impeto e forza;
Ma il primo sol le rivedea piú belle
Far beati gli amanti, e a un volger d'occhi
Mescere a voglia lor la terra e il mare. 985
Fia d'uopo ancor, che da le lunghe cure
T'allevii alquanto, e con pietosa mano
Il teso per gran tempo arco rallenti.
Signore, al ciel non è piú cara cosa
Di tua salute: e troppo a noi mortali 990
È il viver de' tuoi pari util tesoro.
Tu adunque allor che placida mattina
Vestita riderà d'un bel sereno,
Esci pedestre, e le abbattute membra
All'aura salutar snoda e rinfranca. 995
Di nobil cuoio a te la gamba calzi
Purpureo stivaletto, onde il tuo piede
Non macchino giammai la polve e 'l limo
Che l'uom calpesta. A te s'avvolga intorno
Leggiadra veste che sul dorso sciolta 1000
Vada ondeggiando, e tue formose braccia
Leghi in manica angusta a cui vermiglio
O cilestro velluto orni gli estremi.
Del bel color che l'elitropio tigne
Sottilissima benda indi ti fasci 1005
La snella gola: e il crin... Ma il crin, Signore,
Forma non abbia ancor da la man dotta
Dell'artefice suo; ché troppo fôra,
Ahi! troppo grave error lasciar tant'opra
De le licenzïose aure in balía. 1010
Non senz'arte però vada negletto
Su gli omeri a cader; ma, o che natura
A te il nodrisca, o che da ignota fronte
Il piú famoso parrucchier lo tolga
E l'adatti al tuo capo, in sul tuo capo 1015
Ripiegato l'afferri e lo sospenda
Con testugginei denti il pettin curvo.
Poi che in tal guisa te medesmo ornato
Con artificio negligente avrai,
Esci pedestre a respirar talvolta 1020
L'aëre mattutino; e ad alta canna
Appoggiando la man, quasi baleno
Le vie trascorri, e premi ed urta il volgo
Che s'oppone al tuo corso. In altra guisa
Fôra colpa l'uscir, però che andrièno 1025
Mal distinti dal vulgo i primi eroi.
Ciò ti basti per or. Già l'orïolo
A girtene ti affretta. Ohimé che vago
Arsenal minutissimo di cose
Ciondola quindi, e ripercosso insieme 1030
Molce con soavissimo tintinno!
Di costí che non pende? avvi per fino
Piccioli cocchi e piccioli destrieri
Finti in oro cosí, che sembran vivi.
Ma v'hai tu il meglio? ah sì, che i miei precetti 1035
Sagace prevenisti: ecco che splende
Chiuso in picciol cristallo il dolce pegno
Di fortunato amor. Lunge, o profani,
Ché a voi tant'oltre penetrar non lice.
E voi, dell'altro secolo feroci 1040
Ed ispid'avi, i vostri almi nipoti
Venite oggi a mirar. Co' sanguinosi
Pugnali a lato le campestri rôcche
Voi godeste abitar, truci all'aspetto,
E per gran baffi rigidi la guancia 1045
Consultando gli sgherri, e sol gioiendo
Di trattar l'arme che d'orribil palla
Givan notturne a traforar le porte
Del non meno di voi rivale armato.
Ma i vostri almi nipoti oggi si stanno 1050
Ad agitar tra le tranquille dita
Dell'orïolo i ciondoli vezzosi;
Ed opra è lor se all'innocenza antica
Torna pur anco, e bamboleggia, il mondo.
Or vanne, o mio Signore, e il pranzo allegra 1055
De la tua Dama: a lei dolce ministro
Dispensa i cibi, e detta al suo palato
E a la sua fame invïolabil legge.
Ma tu non oblïar, che in nulla cosa
Esser mediocre a gran Signor non lice: 1060
Abbia il popol confini; a voi natura
Donò senza confini e mente e cuore.
Dunque a la mensa, o tu schifo rifuggi
Ogni vivanda, e te medesmo rendi
Per inedia famoso, o nome acquista 1065
D'illustre voratore. Intanto addio,
Degli uomini delizia, e di tua stirpe,
E della patria tua gloria e sostegno.
Ecco che umíli in bipartita schiera
T'accolgono i tuoi servi: altri già pronto 1070
Via se ne corre ad annunciare al mondo,
Che tu vieni a bearlo; altri a le braccia
Timido ti sostien mentre il dorato
Cocchio tu sali, e tacito e severo
Sur un canto ti sdrai. Apriti, o vulgo, 1075
E cedi il passo al trono ove s'asside
Il mio Signore: ahi te meschin s'ei perde
Un sol per te de' prezïosi istanti!
Temi 'l non mai da legge o verga o fune
Domabile cocchier, temi le rote, 1080
Che già piú volte le tue membra in giro
Avvolser seco, e del tuo impuro sangue
Corser macchiate, e il suol di lunga striscia,
Spettacol miserabile! segnâro.

**********************

( Brano estratto da:
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MessaggioInviato: Ven Set 14, 2007 4:28 pm    Oggetto:  Giuseppe Parini: Odi - 1761-1795
Descrizione:
Rispondi citando

Giuseppe Parini: Odi - 1761-1795

Indice (Seguiranno):

-L'innesto del vaiuolo
-La salubrità dell'aria
-La vita rustica
-Il bisogno
-Il brindisi
-La impostura
-Il piacere e la virtù
-La primavera
-L'Educazione
-La laurea
-La Musica
-La recita de' versi
-La tempesta
-Le nozze
-La caduta
-Il pericolo
-Piramo e Tisbe
-Alceste
-La magistratura
-In morte del maestro Sacchini
-Il dono
-La gratitudine
-Per l'inclita Nice
-A Silvia
-Alla Musa

****************

( Queste Odi di Giuseppe Parini sono tratte da:
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Ultima modifica di Monia Di Biagio il Ven Set 14, 2007 4:32 pm, modificato 1 volta in totale
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MessaggioInviato: Ven Set 14, 2007 4:30 pm    Oggetto:  Giuseppe Parini - Le odi - L'innesto del vaiuolo
Descrizione:
Rispondi citando

Giuseppe Parini - Le odi - L'innesto del vaiuolo

Al dottore Giammaria Bicetti De' Buttinoni

O Genovese ove ne vai? qual raggio
Brilla di speme su le audaci antenne?
Non temi oimè le penne
Non anco esperte degli ignoti venti?
Qual ti affida coraggio 5
All'intentato piano
De lo immenso oceano?
Senti le beffe dell'Europa, senti
Come deride i tuoi sperati eventi.

Ma tu il vulgo dispregia. Erra chi dice, 10
Che natura ponesse all'uom confine
Di vaste acque marine,
Se gli diè mente onde lor freno imporre:
E dall'alta pendice
Insegnolli a guidare 15
I gran tronchi sul mare,
E in poderoso canape raccorre
I venti, onde su l'acque ardito scorre.

Così l'eroe nocchier pensa, ed abbatte
I paventati d'Ercole pilastri; 20
Saluta novelli astri;
E di nuove tempeste ode il ruggito.
Veggon le stupefatte
Genti dell'orbe ascoso
Lo stranier portentoso. 25
Ei riede; e mostra i suoi tesori ardito
All'Europa, che il beffa ancor sul lito.

Più dell'oro, bicetti, all'Uomo è cara
Questa del viver suo lunga speranza:
Più dell'oro possanza 30
Sopra gli animi umani ha la bellezza.
E pur la turba ignara
Or condanna il cimento,
Or resiste all'evento
Di chi 'l doppio tesor le reca; e sprezza 35
I novi mondi al prisco mondo avvezza.

Come biada orgogliosa in campo estivo,
Cresce di santi abbracciamenti il frutto.
Ringiovanisce tutto
Nell'aspetto de' figli il caro padre; 40
E dentro al cor giulivo
Contemplando la speme
De le sue ore estreme,
Già cultori apparecchia artieri e squadre
A la patria d'eroi famosa madre. 45

Crescete o pargoletti: un dì sarete
Tu forte appoggio de le patrie mura,
E tu soave cura,
E lusinghevol' esca ai casti cori.
Ma, oh dio, qual falce miete 50
De la ridente messe
Le sì dolci promesse?
O quai d'atroce grandine furori
Ne sfregiano il bel verde e i primi fiori?

Fra le tenere membra orribil siede 55
Tacito seme: e d'improvviso il desta
Una furia funesta
De la stirpe degli uomini flagello.
Urta al di dentro, e fiede
Con lièvito mortale; 60
E la macchina frale
O al tutto abbatte, o le rapisce il bello,
Quasi a statua d'eroe rival scarpello.

Tutti la furia indomita vorace
Tutti una volta assale ai più verd'anni: 65
E le strida e gli affanni
Dai tugurj conduce a' regj tetti;
E con la man rapace
Ne le tombe condensa
Prole d'uomini immensa. 70
Sfugge taluno è vero ai guardi infetti;
Ma palpitando peggior fato aspetti.

Oh miseri! che val di medic' arte
Nè studj oprar nè farmachi nè mani?
Tutti i sudor son vani 75
Quando il morbo nemico è su la porta;
E vigor gli comparte
De la sorpresa salma
La non perfetta calma.
Oh debil' arte, oh mal secura scorta, 80
Che il male attendi, e no 'l previeni accorta!

Già non l'attende in orïente il folto
Popol che noi chiamiam barbaro e rude;
Ma sagace delude
Il fiero inevitabile demòne. 85
Poichè il buon punto ha colto
Onde il mostro conquida,
Coraggioso lo sfida;
E lo astrigne ad usar ne la tenzone
L'armi, che ottuse tra le man gli pone. 90

Del regnante velen spontaneo elegge
Quel ch'è men tristo; e macolar ne suole
La ben amata prole,
Che non più recidiva in salvo torna.
Però d'umano gregge 95
Va Pechino coperto;
E di femmineo merto
Tesoreggia il Circasso, e i chiostri adorna
Ove la Dea di Cipri orba soggiorna.

O Montegù, qual peregrina nave, 100
Barbare terre misurando e mari,
E di popoli varj
Diseppellendo antiqui regni e vasti,
E a noi tornando grave
Di strana gemma e d'auro, 105
Portò sì gran tesauro,
Che a pareggiare non che a vincer basti
Quel, che tu dall'Eussino a noi recasti?

Rise l'Anglia la Francia Italia rise
Al rammentar del favoloso Innesto: 110
E il giudizio molesto
De la falsa ragione incontro alzosse.
In van l'effetto arrise
A le imprese tentate;
Chè la falsa pietate 115
Contro al suo bene e contro al ver si mosse,
E di lamento femminile armosse.

Ben fur preste a raccor gl'infausti doni
Che, attraversando l'oceàno aprico,
Lor condusse Americo; 120
E ad ambe man li trangugiaron pronte.
De' lacerati troni
Gli avanzi sanguinosi,
E i frutti velenosi
Strinser gioiendo; e da lo stesso fonte 125
De la vita succhiar spasimi ed onte.

Tal del folle mortal tale è la sorte:
Contra ragione or di natura abusa;
Or di ragion mal usa
Contra natura che i suoi don gli porge. 130
Questa a schifar la morte
Insegnò madre amante
A un popolo ignorante;
E il popol colto, che tropp'alto scorge,
Contro ai consigli di tal madre insorge. 135

Sempre il novo, ch'è grande, appar menzogna,
Mio Bicetti, al volgar debile ingegno:
Ma imperturbato il regno
De' saggi dietro all'utile s'ostina.
Minaccia nè vergogna 140
No 'l frena, no 'l rimove;
Prove accumula a prove;
Del popolare error l'idol rovina,
E la salute ai posteri destina.

Così l'Anglia la Francia Italia vide 145
Drappel di saggi contro al vulgo armarse.
Lor zelo indomit' arse,
E di popolo in popolo s'accese.
Contro all'armi omicide
Non più debole e nudo; 150
Ma sotto a certo scudo
Il tenero garzon cauto discese,
E il fato inesorabile sorprese.

Tu sull'orme di quelli ardito corri
Tu pur, Bicetti; e di combatter tenta 155
La pietà violenta
Che a le Insubriche madri il core implica.
L'umanità soccorri;
Spregia l'ingiusto soglio
Ove s'arman d'orgoglio 160
La superstizïon del ver nemica,
E l'ostinata folle scola antica.

Quanta parte maggior d'almi nipoti
Coltiverà nostri felici campi!
E quanta fia che avvampi 165
D'industria in pace o di coraggio in guerra!
Quanta i soavi moti
Propagherà d'amore,
E desterà il languore
Del pigro Imene, che infecondo or erra 170
Contro all'util comun di terra in terra!

Le giovinette con le man di rosa
Idalio mirto coglieranno un giorno:
All'alta quercia intorno
I giovinetti fronde coglieranno; 175
E a la tua chioma annosa,
Cui per doppio decoro
Già circonda l'alloro,
Intrecceran ghirlande, e canteranno:
Questi a morte ne tolse o a lungo danno. 180

Tale il nobile plettro infra le dita
Mi profeteggia armonïoso e dolce,
Nobil plettro che molce
Il duro sasso dell'umana mente;
E da lunge lo invita 185
Con lusinghevol suono
Verso il ver, verso il buono;
Nè mai con laude bestemmiò nocente
O il falso in trono o la viltà potente.

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MessaggioInviato: Ven Set 14, 2007 4:37 pm    Oggetto:  Giuseppe Parini - Le odi
Descrizione:
Rispondi citando

Giuseppe Parini - Le odi

La salubrità dell'aria

Oh beato terreno
Del vago Eupili mio,
Ecco al fin nel tuo seno
M'accogli; e del natìo
Aere mi circondi; 5
E il petto avido inondi.

Già nel polmon capace
Urta sè stesso e scende
Quest'etere vivace,
Che gli egri spirti accende, 10
E le forze rintegra,
E l'animo rallegra.

Però ch'austro scortese
Quì suoi vapor non mena:
E guarda il bel paese 15
Alta di monti schiena,
Cui sormontar non vale
Borea con rigid' ale.

Nè quì giaccion paludi,
Che dall'impuro letto 20
Mandino a i capi ignudi
Nuvol di morbi infetto:
E il meriggio a' bei colli
Asciuga i dorsi molli.

Pera colui che primo 25
A le triste ozïose
Acque e al fetido limo
La mia cittade espose;
E per lucro ebbe a vile
La salute civile. 30

Certo colui del fiume
Di Stige ora s'impaccia
Tra l'orribil bitume,
Onde alzando la faccia
Bestemmia il fango e l'acque, 35
Che radunar gli piacque.

Mira dipinti in viso
Di mortali pallori
Entro al mal nato riso
I languenti cultori; 40
E trema o cittadino,
Che a te il soffri vicino.

Io de' miei colli ameni
Nel bel clima innocente
Passerò i dì sereni 45
Tra la beata gente,
Che di fatiche onusta
È vegeta e robusta.

Quì con la mente sgombra,
Di pure linfe asterso, 50
Sotto ad una fresc' ombra
Celebrerò col verso
I villan vispi e sciolti
Sparsi per li ricolti;

E i membri non mai stanchi 55
Dietro al crescente pane;
E i baldanzosi fianchi
De le ardite villane;
E il bel volto giocondo
Fra il bruno e il rubicondo, 60

Dicendo: Oh fortunate
Genti, che in dolci tempre
Quest'aura respirate
Rotta e purgata sempre
Da venti fuggitivi 65
E da limpidi rivi.

Ben larga ancor natura
Fu a la città superba
Di cielo e d'aria pura:
Ma chi i bei doni or serba 70
Fra il lusso e l'avarizia
E la stolta pigrizia?

Ahi non bastò che intorno
Putridi stagni avesse;
Anzi a turbarne il giorno 75
Sotto a le mura stesse
Trasse gli scelerati
Rivi a marcir su i prati

E la comun salute
Sagrificossi al pasto 80
D'ambizïose mute,
Che poi con crudo fasto
Calchin per l'ampie strade
Il popolo che cade.

A voi il timo e il croco 85
E la menta selvaggia
L'aere per ogni loco
De' varj atomi irraggia,
Che con soavi e cari
Sensi pungon le nari. 90

Ma al piè de' gran palagi
Là il fimo alto fermenta;
E di sali malvagi
Ammorba l'aria lenta,
Che a stagnar si rimase 95
Tra le sublimi case.

Quivi i lari plebei
Da le spregiate crete
D'umor fracidi e rei
Versan fonti indiscrete; 100
Onde il vapor s'aggira;
E col fiato s'inspira.

Spenti animai, ridotti
Per le frequenti vie,
De gli aliti corrotti 105
Empion l'estivo die:
Spettacolo deforme
Del cittadin su l'orme!

Nè a pena cadde il sole
Che vaganti latrine 110
Con spalancate gole
Lustran ogni confine
De la città, che desta
Beve l'aura molesta.

Gridan le leggi è vero; 115
E Temi bieco guata:
Ma sol di sè pensiero
Ha l'inerzia privata.
Stolto! E mirar non vuoi
Ne' comun danni i tuoi? 120

Ma dove ahi corro e vago
Lontano da le belle
Colline e dal bel lago
E dalle villanelle,
A cui sì vivo e schietto 125
Aere ondeggiar fa il petto?

Va per negletta via
Ognor l'util cercando
La calda fantasìa,
Che sol felice è quando 130
L'utile unir può al vanto
Di lusinghevol canto.

******************

La vita rustica

Perchè turbarmi l'anima,
O d'oro e d'onor brame,
Se del mio viver Atropo
Presso è a troncar lo stame?
E già per me si piega 5
Sul remo il nocchier brun
Colà donde si niega
Che più ritorni alcun?

Queste che ancor ne avanzano
Ore fugaci e meste, 10
Belle ci renda e amabili
La libertade agreste.
Quì Cerere ne manda
Le biade, e Bacco il vin:
Quì di fior s'inghirlanda 15
Bella innocenza il crin.

So che felice stimasi
Il possessor d'un'arca,
Che Pluto abbia propizio
Di gran tesoro carca: 20
Ma so ancor che al potente
Palpita oppresso il cor
Sotto la man sovente
Del gelato timor.

Me non nato a percotere 25
Le dure illustri porte
Nudo accorrà, ma libero
Il regno de la morte.
No, ricchezza nè onore
Con frode o con viltà 30
Il secol venditore
Mercar non mi vedrà.

Colli beati e placidi,
Che il vago Èupili mio
Cingete con dolcissimo 35
Insensibil pendìo,
Dal bel rapirmi sento,
Che natura vi diè;
Ed esule contento
A voi rivolgo il piè. 40

Già la quiete, a gli uomini
Sì sconosciuta, in seno
De le vostr'ombre apprestami
Caro albergo sereno:
E le cure e gli affanni 45
Quindi lunge volar
Scorgo, e gire i tiranni
Superbi ad agitar.

In van con cerchio orribile,
Quasi campo di biade, 50
I lor palagi attorniano
Temute lance e spade;
Però ch'entro al lor petto
Penetra nondimen
Il trepido sospetto 55
Armato di velen.

Qual porteranno invidia
A me, che di fior cinto
Tra la famiglia rustica
A nessun giogo avvinto, 60
Come solea in Anfriso
Febo pastor, vivrò;
E sempre con un viso
La cetra sonerò!

Non fila d'oro nobili 65
D'illustre fabbro cura
Io scoterò, ma semplici
E care a la natura.
Quelle abbia il vate esperto
Nell'adulazïon 70
Chè la virtude e il merto
Daran legge al mio suon.

Inni dal petto supplice
Alzerò spesso a i cieli,
Sì che lontan si volgano 75
I turbini crudeli;
E da noi lunge avvampi
L'aspro sdegno guerrier;
Nè ci calpesti i campi
L'inimico destrier. 80

E, perchè a i numi il fulmine
Di man più facil cada,
Pingerò lor la misera
Sassonica contrada,
Che vide arse sue spiche 85
In un momento sol;
E gir mille fatiche
Col tetro fumo a vol.

E te villan sollecito,
Che per nov'orme il tralcio 90
Saprai guidar frenandolo
Col pieghevole salcio:
E te, che steril parte
Del tuo terren, di più
Render farai, con arte 95
Che ignota al padre fu:

Te co' miei carmi a i posteri
Farò passar felice:
Di te parlar più secoli
S'udirà la pendice. 100
E sotto l'alte piante
Vedransi a riverir
Le quete ossa compiante
I posteri venir.

Tale a me pur concedasi 105
Chiuder campi beati
Nel vostro almo ricovero
I giorni fortunati.
Ah quella è vera fama
D'uom che lasciar può quì 110
Lunga ancor di sè brama
Dopo l'ultimo dì!

******************

Il bisogno

Al Sig. Wirtz Pretore per la Repubblica Elvetica

Oh tiranno Signore
De' miseri mortali,
Oh male oh persuasore
Orribile di mali
Bisogno, e che non spezza 5
Tua indomita fierezza!

Di valli adamantini
Cinge i cor la virtude;
Ma tu gli urti e rovini;
E tutto a te si schiude. 10
Entri, e i nobili affetti
O strozzi od assoggetti.

Oltre corri, e fremente
Strappi Ragion dal soglio;
E il regno de la mente 15
Occupi pien d'orgoglio,
E ti poni a sedere
Tiranno del pensiere.

Con le folgori in mano
La legge alto minaccia; 20
Ma il periglio lontano
Non scolora la faccia
Di chi senza soccorso
Ha il tuo peso sul dorso.

Al misero mortale 25
Ogni lume s'ammorza:
Ver la scesa del male
Tu lo strascini a forza:
Ei di sè stesso in bando
Va giù precipitando. 30

Ahi l'infelice allora
I común patti rompe;
Ogni confine ignora;
Ne' beni altrui prorompe;
Mangia i rapiti pani 35
Con sanguinose mani.

Ma quali odo lamenti
E stridor di catene;
E ingegnosi strumenti
Veggo d'atroci pene 40
Là per quegli antri oscuri
Cinti d'orridi muri?

Colà Temide armata
Tien giudizj funesti
Su la turba affannata, 45
Che tu persuadesti
A romper gli altrui dritti
O padre di delitti.

Meco vieni al cospetto
Del nume che vi siede. 50
No non avrà dispetto
Che tu v'innoltri il piede.
Da lui con lieto volto
Anco il Bisogno è accolto.

O ministri di Temi 55
Le spade sospendete:
Da i pulpiti supremi
Quà l'orecchio volgete.
Chi è che pietà niega
Al Bisogno che prega? 60

Perdon, dic'ei, perdono
Ai miseri cruciati.
Io son l'autore io sono
De' lor primi peccati.
Sia contro a me diretta 65
La pubblica vendetta.

Ma quale a tai parole
Giudice si commove?
Qual dell'umana prole
A pietade si move? 70
Tu Wirtz uom saggio e giusto
Ne dai l'esempio augusto:

Tu cui sì spesso vinse
Dolor de gl'infelici,
Che il Bisogno sospinse 75
A por le rapitrici
Mani nell'altrui parte
O per forza o per arte:

E il carcere temuto
Lor lieto spalancasti: 80
E dando oro ed aiuto,
Generoso insegnasti
Come senza le pene
Il fallo si previene.

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MessaggioInviato: Ven Set 14, 2007 4:41 pm    Oggetto:  Giuseppe Parini - Le odi
Descrizione:
Rispondi citando

Giuseppe Parini - Le odi

Il brindisi

Volano i giorni rapidi
Del caro viver mio:
E giunta in sul pendìo
Precipita l'età.

Le belle oimè che al fingere 5
Han lingua così presta
Sol mi ripeton questa
Ingrata verità.

Con quelle occhiate mutole
Con quel contegno avaro 10
Mi dicono assai chiaro:
Noi non siam più per te.

E fuggono e folleggiano
Tra gioventù vivace;
E rendonvi loquace 15
L'occhio la mano e il piè.

Che far? Degg'io di lagrime
Bagnar per questo il ciglio?
Ah no; miglior consiglio
È di godere ancor. 20

Se già di mirti teneri
Colsi mia parte in Gnido,
Lasciamo che a quel lido
Vada con altri Amor.

Volgan le spalle candide 25
Volgano a me le belle:
Ogni piacer con elle
Non se ne parte alfin.

A Bacco, all'Amicizia
Sacro i venturi giorni. 30
Cadano i mirti; e s'orni
D'ellera il misto crin.

Che fai su questa cetera,
Corda, che amor sonasti?
Male al tenor contrasti 35
Del novo mio piacer.

Or di cantar dilettami
Tra' miei giocondi amici,
Augurj a lor felici
Versando dal bicchier. 40

Fugge la instabil Venere
Con la stagion de' fiori:
Ma tu Lièo ristori
Quando il dicembre uscì.

Amor con l'età fervida 45
Convien che si dilegue;
Ma l'amistà ne segue
Fino a l'estremo dì.

Le belle, ch'or s'involano
Schife da noi lontano, 50
Verranci allor pian piano
Lor brindisi ad offrir.

E noi compagni amabili
Che far con esse allora?
Seco un bicchiere ancora 55
Bevere, e poi morir.

*******************

La impostura

Venerabile Impostura
Io nel tempio almo a te sacro
Vo tentón per l'aria oscura;
E al tuo santo simulacro,
Cui gran folla urta di gente, 5
Già mi prostro umilemente.

Tu de gli uomini maestra
Sola sei. Qualor tu detti
Ne la comoda palestra
I dolcissimi precetti, 10
Tu il discorso volgi amico
Al monarca ed al mendico.

L'un per via piagato reggi;
E fai sì che in gridi strani
Sua miseria giganteggi; 15
Onde poi non culti pani
A lui frutti la semenza
De la flebile eloquenza.

Tu dell'altro a lato al trono
Con la Iperbole ti posi: 20
E fra i turbini e fra il tuono
De' gran titoli fastosi
Le vergogne a lui celate
De la nuda umanitate.

Già con Numa in sul Tarpèo 25
Desti al Tebro i riti santi,
Onde l'augure potèo
Co' suoi voli e co' suoi canti
Soggiogar le altere menti
Domatrici de le genti. 30

Del Macedone a te piacque
Fare un dio, dinanzi a cui
Paventando l'orbe tacque:
E nell'Asia i doni tui
Fur che l'Arabo profeta 35
Sollevàro a sì gran meta.

Ave dea. Tu come il sole
Giri e scaldi l'universo.
Te suo nume onora e cole
Oggi il popolo diverso: 40
E fortuna a te devota
Diede a volger la sua rota.

I suoi dritti il merto cede
A la tua divinitade,
E virtù la sua mercede. 45
Or, se tanta potestade
Hai qua giù, col tuo favore
Che non fai pur me impostore?

Mente pronta e ognor ferace
D'opportune utili fole 50
Have il tuo degno seguace:
Ha pieghevoli parole;
Ma tenace, e quasi monte
Incrollabile la fronte.

Sopra tutto ei non oblìa 55
Che sì fermo il tuo colosso
Nel gran tempio non starìa,
Se qual base ognor col dosso
Non reggessegli il costante
Verosimile le piante. 60

Con quest'arte Cluvïeno,
Che al bel sesso ora è il più caro
Fra i seguaci di Galeno,
Si fa ricco e si fa chiaro;
Ed amar fa, tanto ei vale, 65
A le belle egre il lor male.

Ma Cluvien dal mio destino
D'imitar non m'è concesso.
Dell'ipocrita Crispino
Vo' seguir l'orme da presso. 70
Tu mi guida o Dea cortese
Per lo incognito paese.

Di tua man tu il collo alquanto
Sul manc' omero mi premi:
Tu una stilla ognor di pianto 75
Da mie luci aride spremi:
E mi faccia casto ombrello
Sopra il viso ampio cappello.

Qual fia allor sì intatto giglio
Ch'io non macchj, e ch'io non sfrondi, 80
Dalle forche e dall'esiglio
Sempre salvo? A me fecondi
Di quant'oro fien gli strilli
De' clienti e de' pupilli!

Ma qual arde amabil lume? 85
Ah, ti veggio ancor lontano
Verità mio solo nume,
Che m'accenni con la mano;
E m'inviti al latte schietto,
Ch'ognor bevvi al tuo bel petto. 90

Deh perdona. Errai seguendo
Troppo il fervido pensiere.
I tuoi rai del mostro orrendo
Scopron or le zanne fiere.
Tu per sempre a lui mi togli; 95
E me nudo nuda accogli.

**********************

Il piacere e la virtù

Vada in bando ogni tormento:
Ecco riede il secol d'oro.
A scherzar tornan fra loro
Innocenza e libertà.

Sol fra noi regni il contento; 5
Coroniamo il crin di rose:
Su si colgan rugiadose
Da la man dell'onestà.

La virtù non move guerra
A i diletti onesti e belli. 10
Colà in ciel nacquer gemelli
Il piacere e la virtù.

E gli dei portàro in terra
Un tesor così giocondo;
E così beàr del mondo 15
La primiera gioventù.

Folle stirpe de' mortali,
Che sè stessa ognor delude!
Il piacer da la virtude
Insolente dipartì. 20

L'atra allor di tutti i mali
Si destò nova procella:
E la coppia amica e bella
Solo in ciel si riunì.

Ma tornàro i dì beati. 25
Or veggiam congiunti ancora
Con un nodo, che innamora
La virtude ed il piacer.

Sposi eccelsi a voi siam grati,
Che il bel dono a noi rendete: 30
Siete voi che l'uomo ergete
A lo stato suo primier.

Ah perchè velar l'aspetto
Sotto strane e varie forme?
Al fulgor de le vostr'orme 35
Si conosce il divin piè.

La Virtude et il Diletto,
Ferdinando e Beatrice!
Oh spettacolo felice,
Che rapisci ogn'alma a te! 40

Sol fra noi regni il contento:
Coroniamo il crin di rose:
Su si colgan rugiadose
Da la man dell'onestà.

Vada in bando ogni tormento. 45
Ecco riede il secol d'oro:
A scherzar tornan fra loro
Innocenza e libertà.

*******************

La primavera

La vaga Primavera
Ecco che a noi sen viene;
E sparge le serene
Aure di molli odori.

L'erbe novelle e i fiori 5
Ornano il colle e il prato.
Torna a veder l'amato
Nido la rondinella.

E torna la sorella
Di lei a i pianti gravi: 10
E tornano a i soavi
Baci le tortorelle.

Escon le pecorelle
Del lor soggiorno odioso;
E cercan l'odoroso 15
Timo di balza in balza.

La pastorella scalza
Ne vien con esse a paro;
Ne vien cantando il caro
Nome del suo pastore. 20

Ed ei, seguendo Amore,
Volge ove il canto sente;
E coglie la innocente
Ninfa sul fresco rio.

Oggi del suo desio 25
Amore infiamma il mondo:
Amore il suo giocondo
Senso a le cose inspira.

Sola il dolor non mira
Clori del suo fedele: 30
E sol quella crudele
Anima non sospira.

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Monia Di Biagio

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MessaggioInviato: Ven Set 14, 2007 4:49 pm    Oggetto:  Giuseppe Parini - Le odi
Descrizione:
Rispondi citando

Giuseppe Parini - Le odi

La educazione

Torna a fiorir la rosa
Che pur dianzi languìa;
E molle si riposa
Sopra i gigli di pria.
Brillano le pupille 5
Di vivaci scintille.

La guancia risorgente
Tondeggia sul bel viso:
E quasi lampo ardente
Va saltellando il riso 10
Tra i muscoli del labro
Ove riede il cinabro.

I crin, che in rete accolti
Lunga stagione ahi foro,
Su l'omero disciolti 15
Qual ruscelletto d'oro
Forma attendon novella
D'artificiose anella.

Vigor novo conforta
L'irrequieto piede: 20
Natura ecco ecco il porta
Sì che al vento non cede
Fra gli utili trastulli
De' vezzosi fanciulli.

O mio tenero verso 25
Di chi parlando vai,
Che studj esser più terso
E polito che mai?
Parli del giovinetto
Mia cura e mio diletto? 30

Pur or cessò l'affanno
Del morbo ond'ei fu grave:
Oggi l'undecim' anno
Gli porta il sol, soave
Scaldando con sua teda 35
I figliuoli di Leda.

Simili or dunque a dolce
Mele di favi Iblèi,
Che lento i petti molce,
Scendete o versi miei 40
Sopra l'ali sonore
Del giovinetto al core.

O pianta di bon seme
Al suolo al cielo amica,
Che a coronar la speme 45
Cresci di mia fatica,
Salve in sì fausto giorno
Di pura luce adorno.

Vorrei di genïali
Doni gran pregio offrirti; 50
Ma chi diè liberali
Essere ai sacri spirti?
Fuor che la cetra, a loro
Non venne altro tesoro.

Deh perchè non somiglio 55
Al Tèssalo maestro,
Che di Tetide il figlio
Guidò sul cammin destro!
Ben io ti farei doni
Più che d'oro e canzoni. 60

Già con medica mano
Quel Centauro ingegnoso
Rendea feroce e sano
Il suo alunno famoso.
Ma non men che a la salma 65
Porgea vigore all'alma.

A lui, che gli sedea
Sopra la irsuta schiena,
Chiron si rivolgea
Con la fronte serena, 70
Tentando in su la lira
Suon che virtude inspira.

Scorrea con giovanile
Man pel selvoso mento
Del precettar gentile; 75
E con l'orecchio intento,
D'Eacide la prole
Bevea queste parole:

Garzon, nato al soccorso
Di Grecia, or ti rimembra 80
Perchè a la lotta e al corso
Io t'educai le membra.
Che non può un'alma ardita
Se in forti membri ha vita?

Ben sul robusto fianco 85
Stai; ben stendi dell'arco
Il nervo al lato manco,
Onde al segno ch'io marco
Va stridendo lo strale
Da la cocca fatale. 90

Ma in van, se il resto oblìo,
Ti avrò possanza infuso.
Non sai qual contro a dio
Fe' di sue forze abuso
Con temeraria fronte 95
Chi monte impose a monte?

Di Teti odi o figliuolo
Il ver che a te si scopre.
Dall'alma origin solo
Han le lodevol' opre. 100
Mal giova illustre sangue
Ad animo che langue.

D'Èaco e di Pelèo
Col seme in te non scese
Il valor che Tesèo 105
Chiari e Tirintio rese:
Sol da noi si guadagna,
E con noi s'accompagna.

Gran prole era di Giove
Il magnanimo Alcide; 110
Ma quante egli fa prove,
E quanti mostri ancide,
Onde s'innalzi poi
Al seggio de gli eroi?

Altri le altere cune 115
Lascia o Garzon che pregi.
Le superbe fortune
Del vile anco son fregi.
Chi de la gloria è vago
Sol di virtù sia pago. 120

Onora o figlio il Nume
Che dall'alto ti guarda:
Ma solo a lui non fume
Incenso e vittim'arda.
È d'uopo Achille alzare 125
Nell'alma il primo altare.

Giustizia entro al tuo seno
Sieda e sul labbro il vero;
E le tue mani sieno
Qual albero straniero, 130
Onde soavi unguenti
Stillin sopra le genti.

Perchè sì pronti affetti
Nel core il ciel ti pose?
Questi a Ragion commetti; 135
E tu vedrai gran cose:
Quindi l'alta rettrice
Somma virtude elice.

Sì bei doni del cielo
No, non celar Garzone 140
Con ipocrito velo,
Che a la virtù si oppone.
Il marchio ond'è il cor scolto
Lascia apparir nel volto.

Da la lor meta han lode 145
Figlio gli affetti umani.
Tu per la Grecia prode
Insanguina le mani:
Qua volgi qua l'ardire
De le magnanim' ire. 150

Ma quel più dolce senso,
Onde ad amar ti pieghi,
Tra lo stuol d'armi denso
Venga, e pietà non nieghi
Al debole che cade 155
E a te grida pietade.

Te questo ognor costante
Schermo renda al mendico;
Fido ti faccia amante
E indomabile amico. 160
Così, con legge alterna
L'animo si governa.

Tal cantava il Centauro.
Baci il giovan gli offriva
Con ghirlande di lauro. 165
E Tetide che udiva,
A la fera divina
Plaudìa dalla marina.

******************

La laurea

Quell'ospite è gentil, che tiene ascoso
Ai molti bevitori
Entro ai dogli paterni il vino annoso
Frutto de' suoi sudori;
E liberale allora 5
Sul desco il reca di bei fiori adorno,
Quando i Lari di lui ridenti intorno
Degno straniere onora:
E versata in cristalli empie la stanza
Insolita di Bacco alma fragranza. 10

Tal io la copia che de i versi accolgo
Entro a la mente, sordo
Niego a le brame dispensar del volgo,
Che vien di fama ingordo.
In van l'uomo, che splende 15
Di beata ricchezza, in van mi tenta
Sì che il bel suono de le lodi ei senta,
Che dolce al cor discende:
E in van de' grandi la potenza e l'ombra
Di facili speranze il sen m'ingombra. 20

Ma quando poi sopra il cammin dei buoni
Mi comparisce innanti
Alma, che ornata di suoi propri doni
Merta l'onor dei canti,
Allor da le segrete 25
Sedi del mio pensiero escono i versi,
Atti a volar di viva gloria aspersi
Del tempo oltra le mete:
E donator di lode accorto e saggio
Io ne rendo al valor debito omaggio. 30

Ed or che la risorta insubre Atene,
Con strana meraviglia,
Le lunghe trecce a coronar ti viene
O di Pallade figlia,
Io rapito al tuo merto 35
Fra i portici solenni e l'alte menti
M'innoltro, e spargo di perenni unguenti
Il nobile tuo serto:
Nè mi curo se ai plausi, onde vai nota,
Finge ingenuo rossor tua casta gota. 40

Ben so, che donne valorose e belle
A tutte l'altre esempio
Veggon splender lor nomi a par di stelle
D'eternità nel tempio:
E so ben che il tuo sesso 45
Tra gli ufizi a noi cari e l'umil' arte
Puote innalzarsi; e ne le dotte carte
Immortalar sè stesso.
Ma tu gisti colà, Vergin preclara,
Ove di molle piè l'orma è più rara. 50

Sovra salde colonne antica mole
Sorge augusta e superba,
Sacra a colei, che dell'umana prole,
Frenando, i dritti serba.
Ivi la Dea si asside 55
Custodendo del vero il puro foco;
Ivi breve sul marmo in alto loco
Il suo volere incide:
E già da quello stile aureo, sincero
Apprendea la giustizia il mondo intero. 60

Ma d'ignari cultor turbe nemiche
Con temerario piede
Osàro entrar ne le campagne apriche,
Ove il gran tempio siede:
E la serena piaggia 65
Occuparon così di spini e bronchi,
Che fra i rami intricati e i folti tronchi
A pena il sol vi raggia;
E l'aere inerte per le fronde crebre
V'alza dense all'intorno atre tenèbre. 70

Ben tu di Saffo e di Corinna al pari,
O donne altre famose,
Per li colli di Pindo ameni e vari
Potevi coglier rose:
Ma tua virtù s'irrìta 75
Ove sforzo virile a pena basta;
E nell'aspro sentier, che al piè contrasta,
Ti cimentasti ardita
Qual già vide ai perigli espor la fronte
Fiere vergini armate il Termodonte. 80

Or poi, tornando dall'eccelsa impresa,
Quì sul dotto Tesino
Scoti la face al sacro foco accesa
Del bel tempio divino:
E dall'arguta voce 85
Tal di raro saper versi torrente,
Che il corso a seguitar de la tua mente
Vien l'applauso veloce,
Abbagliando al fulgor de' raggi tui
La invidia, che suol sempre andar con lui. 90

Chi può narrar qual dal soave aspetto
E da' verginei labri
Piove ignoto finora almo diletto
Su i temi ingrati e scabri?
Ecco la folta schiera 95
De' giovani vivaci a te rivolta
Vede sparger di fior, mentre t'ascolta,
Sua nobile carriera:
E al novo esempio de la tua tenzone
Sente aggiugnersi al fianco acuto sprone. 100

Ai detti al volto a la grand'alma espressa
Ne' fulgid' occhi tuoi
Ognun ti crederìa Temide stessa,
Che rieda oggi fra noi:
Se non che Oneglia, altrice 105
Nel fertil suolo di palladj ulivi,
Alza ai trionfi tuoi gridi giulivi;
E fortunata dice:
Dopo il gran Doria, a cui died' io la culla,
È il mio secondo sol questa fanciulla. 110

E il buon parente, che su l'alte cime
Di gloria oggi ti mira,
A forza i moti del suo cor comprime,
E pur con sè s'adira,
Ma poi cotanto è grande 115
La piena del piacer, che in sen gli abbonda,
Che l'argin di modestia alfine innonda,
E fuor trabocca e spande:
E anch'ei col pianto, che celar desìa,
Grida tacendo: questa figlia è mia. 120

Ma dal cimento glorïoso e bello
Tanto stupore è nato,
Che già reca per te premio novello
L'erudito Senato.
Già vien su le tue chiome 125
Di lauro a serpeggiar fronda immortale:
E fra lieto tumulto in alto sale
Strepitoso il tuo nome;
E il tuo sesso leggiadro a te dà lode
De' novi onori, onde superbo ei gode. 130

Oh amabil sesso, che su l'alme regni
Con sì possente incanto,
Qual' alma generosa è che si sdegni
Del novello tuo vanto?
La tirannìa virile 135
Frema, e ti miri a gli onorati seggi
Salir togato, e de le sacre leggi
Interprete gentile,
Or che d'Europa ai popoli soggetti
Fin dall'alto dei troni anco le detti. 140

Tu sei, che di ragione il dolce freno
Sul forte Russo estendi;
Tu che del chiaro Lusitan nel seno
L'antico spirto accendi.
Per te Insubria beata, 145
Per te Germania è gloriosa e forte;
Tal che al favor de le tue leggi accorte
Spero veder tornata
L'età dell'oro, e il viver suo giocondo,
Se tu governi, ed ammaestri il mondo. 150

E l'albero medesmo, onde fu colto
Il ramoscel, che ombreggia
A la dotta Donzella il nobil volto,
Convien che a te si deggia.
In esso alta Regina 155
Tien conversi dal trono i suoi bei rai;
Tal che lieto rinverde, e più che mai
Al cielo s'avvicina.
Quanto è bello a veder che il grato alloro
Doni al sesso di lei pompa, e decoro! 160

Ma già la Fama all'impaziente Oneglia
Le rapid' ali affretta;
E gridando le dice: olà, ti sveglia;
E la tua luce aspetta.
Insubria, onde romore 165
Va per mense ospitali ed atti amici,
Sa gli stranieri ancor render felici
Nel calle dell'onore.
Or quai, Vergine illustre, allegri giorni
Ti prepara la patria allor che torni? 170

Pari alla gloria tua per certo a pena
Fu quella, onde si cinse
Colà d'Olimpia nell'ardente arena,
Il lottator che vinse;
Quando tra i lieti gridi 175
Il guadagnato serto al crin ponea;
E col premio d'onor, che l'uomo bea,
Tornava ai patrj lidi;
E scotendo le corde amiche ai vati
Pindaro lo seguìa con gl'Inni alati. 180

**********************

La musica

Aborro in su la scena
Un canoro elefante,
Che si strascina a pena
Su le adipose piante,
E manda per gran foce 5
Di bocca un fil di voce.

Ahi pera lo spietato
Genitor che primiero
Tentò di ferro armato
L'esecrabile e fiero 10
Misfatto onde si duole
La mutilata prole.

Tanto dunque de' grandi
Può l'ozïoso udito,
Che a' rei colpi nefandi 15
Sen corra il padre ardito,
Peggio che fera od angue
Crudel contro al suo sangue?

Oh misero mortale
Ove cerchi il diletto? 20
Ei tra le placid' ale
Di natura ha ricetto:
Là con avida brama
Susurrando ti chiama.

Ella femminea gola 25
Ti diede, onde soave
L'aere se ne vola
Or acuto ora grave;
E donò forza ad esso
Di rapirti a te stesso. 30

Tu non però contento
De' suoi doni, prorompi
Contro a lei vïolento,
E le sue leggi rompi;
Cangi gli uomini in mostri, 35
E lor dignità prostri.

Barbara gelosìa
Nel superbo orïente
So che pietade oblìa
Ver la misera gente, 40
Che da lascivo inganno
Assecura il tiranno:

E folle rito al nudo
Ultimo Caffro impone
Il taglio atroce e crudo, 45
Onde al molle garzone
Il decimo funesto
Anno sorge sì presto.

Ma a te in mano lo stile
Italo genitore 50
Pose cura più vile
Del geloso furore:
Te non error ma vizio
Spinge all'orrido ufizio.

Arresta empio! Che fai? 55
Se tesoro ti preme,
Nel tuo figlio non l'hai?
Con le sue membra insieme,
Empio! il viver tu furi
Ai nipoti venturi. 60

Oh cielo! E tu consenti
D'oro sì cruda fame?
Nè più il foco rammenti
Di Pentapoli infame,
Le cui orribil' opre 65
Il nero àsfalto copre?

No. Del tesor, che aperto
Già ne la mente pingi,
Tu non andrai per certo
Lieto come ti fingi 70
Padre crudel! Suo dritto
De' avere il tuo delitto.

L'oltraggio, ch'or gli è occulto
Il tuo tradito figlio
Ricorderassi adulto; 75
Con dispettoso ciglio
Da la vista fuggendo
Del carnefice orrendo.

In vano in van pietade
Tu cercherai: chè l'alma 80
In lui depressa cade
Con la troncata salma;
Ed impeto non trova
Che a virtude la mova.

Misero! A lato a i regi 85
Ei sederà cantando
Fastoso d'aurei fregi;
Mentre tu mendicando
Andrai canuto e solo
Per l'Italico suolo: 90

Per quel suolo, che vanta
Gran riti e leggi e studj;
E nutre infamia tanta,
Che a gli Affricani ignudi,
Benchè tant'alto saglia, 95
E a i barbari lo agguaglia.

*********************

La recita de' versi

Qual fra le mense loco
Versi otterranno, che da nobil vena
Scendano; e all'acre foco
Dell'arte imponga la sottil Camena,
Meditante lavoro, 5
Che sia di nostra età pregio e decoro?

Non odi alto di voci
I convitati sollevar tumulto,
Che i Centauri feroci
Fa rammentar, quando con empio insulto 10
All'ospite di liti
Sparsero e guerra i nuzïali riti?

V'ha chi al negato Scaldi
Con gli abeti di Cesare veleggia;
E la vast'onda e i saldi 15
Muri sprezzati, già nel cor saccheggia
De' Batavi mercanti
Le molto di tesoro arche pesanti.

A Giove altri l'armata
Destra di fulmin spoglia; ed altri a volo 20
Sopra l'aria domata
Osa portar novelle genti al polo.
Tal sedendo confida
Ciascuno; e sua ragion fa delle grida.

Vincere il suon discorde 25
Speri colui che di clamor le folli
Mènadi, allor che lorde
Di mosto il viso balzan per li colli,
Vince; e, con alta fronte,
Gonfia d'audace verso inezie conte. 30

O gran silenzio intorno
A sè vanti compor Fauno procace,
Se del pudore a scorno
Annunzia carme onde ai profani piace;
Da la cui lubric'arte 35
Saggia matrona vergognando parte.

Orecchio ama placato
La musa e mente arguta e cor gentile.
Ed io, se a me fia dato
Ordir mai su la cetra opra non vile, 40
Non toccherò già corda
Ove la turba di sue ciance assorda.

Ben de' numeri miei
Giudice chiedo il buon cantor, che destro
Volse a pungere i rei 45
Di Tullio i casi; ed or, novo maestro
A far migliori i tempi,
Gli scherzi usa del Frigio e i propri esempj.

O te Paola, che il retto
E il bello atta a sentir formaro i Numi; 50
Te, che il piacer concetto
Mostri dolce intendendo i duo bei lumi,
Onde spira calore
Soavemente periglioso al core.

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MessaggioInviato: Ven Set 14, 2007 4:53 pm    Oggetto:  Giuseppe Parini - Le odi
Descrizione:
Rispondi citando

Giuseppe Parini - Le odi

La tempesta

Odi Alcone il muggito
Nell'alto mar de la crudel tempesta
E la folgor funesta,
Che con tuono infinito
Scoppia da lungi, e rimbombar fa il lito. 5

Ahimè miseri legni,
Che cupidigia e ambizïon sospinse;
E facil' aura vinse
Per li mobili regni
Lor speme a sciorre oltre gli Erculei segni! 10

Altro sperò giocondo
Tornar da ignote prezïose cave;
E d'oro e gemme grave
Opprimer col suo pondo
De la spiaggia nativa il basso fondo. 15

Credeva altro d'immani
Mostri oleosi preda far nell'alto;
Altro feroce assalto
Dare a gli abeti estrani,
E dell'altrui tesoro empier suoi vani. 20

Ma il tuono e il vento e l'onda
Terribilmente agita tutti e batte;
Nè le vele contratte
Nè da la doppia sponda
Il forte remigar, l'urto che abbonda 25

Vince nè frena. E in tanto
Serpendo incendïoso il fulmin fischia:
E fra l'orribil mischia
De' venti e il buio manto
Del cielo, ognun paventa essere infranto. 30

E già più l'un non puote
L'alto durar tormento: uno al destino
Fa contrario cammino;
Un contro all'aspra cote
Di cieco scoglio il fianco urta e percote: 35

E quale il flutto avverso
Beve già rotto: e qual del multiforme
Monte dell'acque enorme
Sopra di lui riverso
Cede al gran peso; e alfin piomba sommerso. 40

Alcon, non ti rammenti
Quel che superbo per ornata prora
Veleggiava finora,
Di purpurei lucenti
Segni ingombrando gli alberi potenti? 45

A quello d'ambo i lati
Ignivome s'aprìan di bronzo bocche;
Onde pari a le rocche
Forza sprezzava e agguati
D'abete o pin contro al suo corso armati. 50

E l'onde allettatrici
Stendeansi piane a lui davanti: e ai grembi
Fregiati d'aurei lembi
De' canapi felici
Spiravan ostinati i venti amici: 55

Mentre Glauco e i Tritoni
Pur con le braccia lo spingean più forte;
E da le conche torte
Lusingavano i buoni
Augurj intorno a lui con alti suoni. 60

E lungo i pinti banchi
Le Dee del mar sparse le chiome bionde
Carolavan per l'onde,
Che lucide su i bianchi
Dorsi fuggian strisciando e sopra i fianchi. 65

Fra tanto, senza alcuno
Il beato nocchier timor che il roda,
Dall'alto de la proda
Al mattin primo e al bruno
Vespro così cantava inni a Nettuno: 70

A te sia lode o nume,
Di cui son l'opre ognor potenti e grandi,
O se nel suol ti spandi
Con le fuggenti spume
O di Cinzia t'innalzi al chiaro lume. 75

Tu col tridente altero
Al tuo piacer la terra ampia dividi;
Tu fra gli opposti lidi
Del duplice emispero
Scorrevole a i mortali apri sentiero. 80

Rota per te le nuove
Con subitaneo piè veci Fortuna:
E quello, che con una
Occhiata il tutto move,
Non è di te maggior superno Giove. 85

Tale adulava. Or mira
Or mira, Alcon, come del porto in faccia,
Lungi dal porto il caccia
Nettuno stesso; e a dira
Sorte con gli altri lo trasporta e aggira! 90

E la ricchezza imposta
Indi con la tornante onda ritoglie;
E le lacere spoglie
Ne gitta, e la scomposta
Mole a traverso dell'arida costa. 95

Ahi qual furore il mena
Pur contra noi d'ogni avarizia schivi,
Che sotto a i sacri ulivi
Radendo quest'arena
Peschiam canuti con duo remi a pena! 100

Alcon, che più s'aspetta?
Ecco il turbine rio, che omai n'è sopra.
Lascia che il flutto copra
La sdrucita barchetta;
E noi nudi salvianci al sasso in vetta. 105

O giovanetti, piante
Ponete in terra; quì pomi inserite;
Quì gli armenti nodrite
Sotto a le leggi sante
De la natura in suo voler costante. 110

Quì semplici a regnare;
Quì gli utili prendete a ordir consigli;
Nè fidate de' figli
La sorte, o de le care
Spose a l'arbitrio del volubil mare. 115

*****************************

Le nozze

E pur dolce in su i begli anni
De la calda età novella
Lo sposar vaga donzella,
Che d'amor già ne ferì.

In quel giorno i primi affanni
Ci ritornano al pensiere: 5
E maggior nasce il piacere
Da la pena che fuggì.

Quando il sole in mar declina
Palpitare il cor si sente: 10
Gran tumulto è ne la mente:
Gran desìo ne gli occhi appar.

Quando sorge la mattina
A destar l'aura amorosa,
Il bel volto de la sposa 15
Si comincia a contemplar.

Bel vederla in su le piume
Riposarsi al nostro fianco,
L'un de' bracci nudo e bianco
Distendendo in sul guancial: 20

E il bel crine oltra il costume
Scorrer libero e negletto;
E velarle il giovin petto,
Ch'or discende or alto sal.

Bel veder de le due gote 25
Sul vivissimo colore
Splender limpido madore,
Onde il sonno le spruzzò:

Come rose ancora ignote
Sovra cui minuta cada 30
La freschissima rugiada,
Che l'aurora distillò.

Bel vederla all'improvviso
I bei lumi aprire al giorno;
E cercar lo sposo intorno, 35
Di trovarlo incerta ancor:

E poi schiudere il sorriso
E le molli parolette
Fra le grazie ingenue e schiette
De la brama e del pudor. 40

O Garzone amabil figlio
Di famosi e grandi eroi,
Sul fiorir de gli anni tuoi
Questa sorte a te verrà.

Tu domane aprendo il ciglio 45
Mirerai fra i lieti lari
Un tesor, che non ha pari
E di grazia e di beltà.

Ma oimè come fugace
Se ne va l'età più fresca, 50
E con lei quel che ne adesca
Fior sì tenero e gentil!

Come presto a quel che piace
L'uso toglie il pregio e il vanto;
E dileguasi l'incanto 55
De la voglia giovanil!

Te beato in fra gli amanti,
Che vedrai fra i lieti lari
Un tesor, che non ha pari
Di bellezza e di virtù! 60

La virtù guida costanti
A la tomba i casti amori,
Poi che il tempo invola i fiori
De la cara gioventù.

******************

La caduta

Quando Orïon dal cielo
Declinando imperversa;
E pioggia e nevi e gelo
Sopra la terra ottenebrata versa,

Me spinto ne la iniqua
Stagione, infermo il piede, 5
Tra il fango e tra l'obliqua
Furia de' carri la città gir vede;

E per avverso sasso
Mal fra gli altri sorgente, 10
O per lubrico passo
Lungo il cammino stramazzar sovente.

Ride il fanciullo; e gli occhi
Tosto gonfia commosso,
Che il cubito o i ginocchi 15
Me scorge o il mento dal cader percosso.

Altri accorre; e: oh infelice
E di men crudo fato
Degno vate! mi dice;
E seguendo il parlar, cinge il mio lato 20

Con la pietosa mano;
E di terra mi toglie;
E il cappel lordo e il vano
Baston dispersi ne la via raccoglie:

Te ricca di comune 25
Censo la patria loda;
Te sublime, te immune
Cigno da tempo che il tuo nome roda

Chiama gridando intorno;
E te molesta incìta 30
Di poner fine al Giorno,
Per cui cercato a lo stranier ti addita.

Ed ecco il debil fianco
Per anni e per natura
Vai nel suolo pur anco 35
Fra il danno strascinando e la paura:

Nè il sì lodato verso
Vile cocchio ti appresta,
Che te salvi a traverso
De' trivii dal furor de la tempesta. 40

Sdegnosa anima! prendi
Prendi novo consiglio,
Se il già canuto intendi
Capo sottrarre a più fatal periglio.

Congiunti tu non hai, 45
Non amiche, non ville,
Che te far possan mai
Nell'urna del favor preporre a mille.

Dunque per l'erte scale
Arrampica qual puoi; 50
E fa gli atrj e le sale
Ogni giorno ulular de' pianti tuoi.

O non cessar di porte
Fra lo stuol de' clienti,
Abbracciando le porte 55
De gl'imi, che comandano ai potenti;

E lor mercè penètra
Ne' recessi de' grandi;
E sopra la lor tetra
Noja le facezie e le novelle spandi. 60

O, se tu sai, più astuto
I cupi sentier trova
Colà dove nel muto
Aere il destin de' popoli si cova;

E fingendo nova esca 65
Al pubblico guadagno,
L'onda sommovi, e pesca
Insidioso nel turbato stagno.

Ma chi giammai potrìa
Guarir tua mente illusa, 70
O trar per altra via
Te ostinato amator de la tua Musa?

Lasciala: o, pari a vile
Mima, il pudore insulti,
Dilettando scurrile 75
I bassi genj dietro al fasto occulti.

Mia bile, al fin costretta,
Già troppo, dal profondo
Petto rompendo, getta
Impetuosa gli argini; e rispondo: 80

Chi sei tu, che sostenti
A me questo vetusto
Pondo, e l'animo tenti
Prostrarmi a terra? Umano sei, non giusto.

Buon cittadino, al segno 85
Dove natura e i primi
Casi ordinàr, lo ingegno
Guida così, che lui la patria estimi.

Quando poi d'età carco
Il bisogno lo stringe, 90
Chiede opportuno e parco
Con fronte liberal, che l'alma pinge.

E se i duri mortali
A lui voltano il tergo,
Ei si fa, contro ai mali, 95
Della costanza sua scudo ed usbergo.

Nè si abbassa per duolo,
Nè s'alza per orgoglio.
E ciò dicendo, solo
Lascio il mio appoggio; e bieco indi mi toglio. 100

Così, grato ai soccorsi,
Ho il consiglio a dispetto;
E privo di rimorsi,
Col dubitante piè torno al mio tetto.

******************************

Il pericolo

In vano in van la chioma
Deforme di canizie,
E l'anima già doma
Dai casi, e fatto rigido
Il senno dall'età, 5

Si crederà che scudo
Sien contro ad occhi fulgidi
A mobil seno a nudo
Braccio e all'altre terribili
Arme della beltà. 10

Gode assalir nel porto
La contumace Venere;
E, rotto il fune e il torto
Ferro, rapir nel pelago
Invecchiato nocchier; 15

E per novo periglio
Di tempeste, all'arbitrio
Darlo del cieco figlio,
Esultando con perfido
Riso del suo poter. 20

Ecco me di repente,
Me stesso, per l'undecimo
Lustro di già scendente,
Sentii vicino a porgere
Il piè servo ad amor: 25

Benchè gran tempo al saldo
Animo in van tentassero
Novello eccitar caldo
Le lusinghiere giovani
Di mia patria splendor. 30

Tu dai lidi sonanti
Mandasti, o torbid'Adria,
Chi sola de gli amanti
Potea tornarmi a i gemiti
E al duro sospirar; 35

Donna d'incliti pregi
Là fra i togati principi,
Che di consigli egregi
Fanno l'alta Venezia
Star libera sul mar. 40

Parve a mirar nel volto
E ne le membra Pallade,
Quando, l'elmo a sè tolto,
Fin sopra il fianco scorrere
Si lascia il lungo crin: 45

Se non che a lei dintorno
Le volubili grazie
Dannosamente adorno
Rendeano ai guardi cupidi
L'almo aspetto divin. 50

Qual, se parlando, eguale
A gigli e rose il cubito
Molle posava? Quale,
Se improvviso la candida
Mano porgea nel dir? 55

E a le nevi del petto,
Chinandosi da i morbidi
Veli non ben costretto,
Fiero dell'alme incendio!
Permetteva fuggir? 60

In tanto il vago labro,
E di rara facondia
E d'altre insidie fabro,
Gìa modulando i lepidi
Detti nel patrio suon. 65

Che più? Da la vivace
Mente lampi scoppiavano
Di poetica face,
Che tali mai non arsero
L'amica di Faon; 70

Nè quando al coro intento
De le fanciulle Lesbie
L'errante vïolento
Per le midolle fervide
Amoroso velen; 75

Nè quando lo interrotto
Dal fuggitivo giovane
Piacer cantava, sotto
A la percossa cetera
Palpitandole il sen. 80

Ahimè quale infelice
Giogo era pronto a scendere
Su la incauta cervice,
S'io nel dolce pericolo
Tornava il quarto dì! 85

Ma con veloci rote
Me, quantunque mal docile,
Ratto per le remote
Campagne il mio buon Genio
Opportuno rapì. 90

Tal che in tristi catene
Ai garzoni ed al popolo
Di giovanili pene
Io canuto spettacolo
Mostrato non sarò. 95

Bensì, nudrendo il mio
Pensier di care immagini,
Con soave desìo
Intorno all'onde Adriache
Frequente volerò. 100

_________________
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MessaggioInviato: Ven Set 14, 2007 4:58 pm    Oggetto:  Giuseppe Parini - Le odi
Descrizione:
Rispondi citando

Giuseppe Parini - Le odi

Piramo e Tisbe

Ad uno improvvisatore

Ahi qual fiero spettacolo
Vegg' io, che il cor mi fiede,
Sotto a la luna pallida,
Là di quel gelso al piede?

Una donzella e un giovane 5
In loro età più acerba,
Ecco trafitti giacciono
Insanguinando l'erba.

Oh dio, che orror! La misera
Sembra morir pur ora; 10
E il crudo acciar nel tiepido
Seno sta immerso ancora.

L'altro comincia a spargere
Già le membra di gelo;
E ne la mano languida 15
Tien lacerato un velo.

Ahi per gelosa furia
Un tanto error commise
Il dispietato giovane...
Ma chi lui stesso uccise? 20

Intendo. Aperse un invido
Rivale i bianchi petti,
O un parente implacabile
Ai furtivi diletti.

Indi fuggendo, il barbaro 25
Ferro lasciò confitto,
Che testimon del perfido
Esser potea delitto.

Ma tu sorridi? Ingannomi
Forse nel mio pensiero? 30
Tu dal crudel mi libera
Dubbio; e mi spiega il vero.

A te diè di conoscere
Le cose Apollo il vanto;
E dilettarne gli uomini 35
Col divino tuo canto.

******************

Alceste

Al medesimo

Ne' più remoti secoli
Apparver strane cose,
Che poi son favolose
Credute a questa età.

Lascio conversi in alberi 5
In sassi in fonti in fiumi
E gli uomini ed i numi,
Cose che il vulgo sa.

Sol parlo d'un miracolo,
Ch'or niegan le persone, 10
Non so se per ragione
O per malignità.

Questo è una donna egregia,
Che per salvar da morte
Uno infermo consorte 15
Lieta a morir sen va.

Ed ei, da morte libero
E da la moglie insieme,
Odia la vita e geme
E vuol la sua metà. 20

Fin che un amico intrepido
Per lui sceso a lo inferno,
La toglie al fato eterno;
E intatta a lui la dà.

Alceste, Admeto ed Ercole 25
A te gentil cantore
Poetico furore
Veggo che inspiran già.

Dunque il bel caso pingine;
E fa de' prischi tempi 30
Veri parer gli esempi
D'amore e d'amistà.

Sai che d'Admeto pascere
Febo degnò gli armenti:
Sai che de' suoi lamenti 35
Ebbe di poi pietà.

Oh quanto a tai memorie
Avrà diletto! Oh quanto
Dal sublime tuo canto
Rapito penderà! 40

****************

La magistratura

Per Cammillo Gritti Pretore di Vicenza nel 1787

Se robustezza ed oro
Utili a far cammino il ciel mi desse,
Vedriansi l'orme impresse
De le rote, che lievi al par di Coro
Me porterebbon, senza 5
Giammai posarsi, a la gentil Vicenza:

Onde arguta mi viene
E penetrante al cor voce di donna,
Che vaga e bella in gonna,
Dell'altro sesso anco le glorie ottiene; 10
Fra le Muse immortali
Con fortunato ardir spiegando l'ali.

E da gli occhi di lei
Oltre lo ingegno mio fatto possente,
Rapido da la mente 15
Accesa il desïato Inno trarrei,
Colui ponendo segno
Che de gli onori tuoi, Vicenza, è degno.

Che dissi? Abbian vigore
Di membra quei che morir denno ignoti; 20
E sordidi nipoti
Spargan d'avi lodati aureo splendore.
Noi delicati, e nudi
Di tesor, che nascemmo ai sacri studj,

Noi, quale in un momento 25
Da mosso speglio il suo chiaror traduce
Riverberata luce,
Senza fatica in cento parti e in cento,
Noi per monti e per piani
L'agile fantasìa porta lontani. 30

Salute a te, salute
Città, cui da la Berica pendice
Scende la copia, altrice
De' popoli, coperta di lanute
Pelli e di sete bionde, 35
Cingendo al crin con spiche uve gioconde.

A te d'aere vivace
A te il ciel di salubri acque fe' dono.
Caro tuo pregio sono
Leggiadre donne, e giovani a cui piace 40
Ad ogni opra gentile
L'animo esercitar pronto e sottile.

Il verde piano e il monte,
Onde sì ricca sei, caccian la infame
Necessità, che brame 45
Cova malvage sotto al tetro fronte;
Mentre tu l'arti opponi
All'ozio vil corrompitor de' buoni.

E lungi da feroce
Licenza e in un da servitude abbietta, 50
Ne vai per la diletta
Strada di libertà dietro a la voce,
Onde te stessa reggi,
De' bei costumi tuoi, de le tue leggi.

Leggi, che fin dagli anni 55
Prischi non tolse il domator Romano;
Nè cancellàr con mano
Sanguinolenta i posteri tiranni;
Fin che il Lione altero
Te amica aggiunse al suo pacato impero. 60

E quei mutar non gode
Il consueto a te ordin vetusto;
Ma generoso e giusto
Vuol che ne venga vindice e custode
Al varïar de' lustri 65
Fresco valor degli ottimati illustri.

Ahi! quale a me di bocca
Fugge parlar, che te nel cor percote,
A cui già su le gote
Con le lagrime sparso il duol trabocca, 70
E par che solo un danno
Cotanti beni tuoi volga in affanno!

Lassa! davanti al tempio
Che sul tuo colle tanti gradi sale,
Supplicavi che uguale 75
A un secol fosse con novello esempio
Il quinquennio sperato
Quando l'inclito Gritti a te fu dato.

Ed ecco, a pena lieto
Sopra l'aureo sentier battea le penne, 80
A fulminarlo venne
Repentino cadendo alto decreto,
Che, quasi al vento foglie,
Ogni speranza tua dissipa e toglie.

E qual dall'anelante 85
Suo sen divelto innanzi tempo vede
Lungi volgere il piede
Nova tenera sposa il caro amante,
Che tromba e gloria avita
Per la patria salute altronde invita: 90

Così l'eroe tu miri
Da te partirsi: e di te stessa in bando,
Vedova afflitta errando
E di querele empiendo e di sospiri
I fori ed i teatri 95
E le vie già sì belle e i ponti e gli atrj

E i templi a le divine
Cure sagrati, che di te sì degni,
De' tuoi famosi ingegni
Ahimè! l'arte non pose a questo fine, 100
Altro più ben non godi
Che tra gli affanni tuoi cantar sue lodi.

Non già perch'ei non porse
Le mani a l'oro o a le lusinghe il petto;
Nè sopra l'equo e il retto 105
Con l'arbitro voler giammai non sorse;
Nè le fidate a lui
Spada o lanci detorse in danno altrui.

Vile dell'uomo è pregio
Non esser reo. Costui da i chiari apprese 110
Atavi donde scese,
D'alte glorie a infiammar l'animo egregio,
E a gir dovunque in forme
Più insigni de' miglior splendano l'orme.

Chi sì benigno e forte 115
Di Temide impugnò l'util flagello?
O chi pudor sì bello
Diede all'augusta autorità consorte?
O con sì lene ciglio
Fe' l'imperio di lei parer consiglio? 120

Davanti a più maturo
Giudizio le civili andar fortune,
O starsene il comune
Censo in maggior frugalità securo
Quando giammai si vide 125
Ovunque il giusto le sue norme incide?

Ei, se il dover lo impose,
Al veder linee, al provveder fu pardo;
Ei del popolo al guardo
Gli arcani altrui, non sè medesmo ascose; 130
Nè occulto orecchio sciolse,
Ma solenne tra i fasci il vero accolse.

Ei gli audaci repressi
Tenne con l'alma dignità del viso;
Ei con dolce sorriso, 135
Poi che del grado a sollevar gli oppressi
Tutto il poter consunse,
A la giustizia i beneficj aggiunse.

E tal suo zelo sparse,
Che grande a i grandi, al cittadino pari, 140
Uom comune ai volgari,
Rettor, giudice, padre, a tutti apparse;
Destando in tutti, estreme
Cose, amicizia e riverenza insieme.

Ben chiamarsi beata 145
Può fra povere balze e ghiacci e brume,
Gente cui sia dal nume
Simil virtude a preseder mandata.
Or qual fu tua ventura,
Città, cui tanto il ciel ride e natura! 150

Ma balsamo, che tolto
Vien di sotterra, e s'apre al chiaro giorno,
Subitamente intorno
Con eterea fragranza erra disciolto;
Tal che il senso lo ammira, 155
E ognun di possederne arde e sospira.

Quale stupor, se brama
Del nobil figlio al gran Senato nacque;
E repente, fra l'acque
Onde lungi provvede, a sè il richiama? 160
Di tanto senno ai raggi
Voti non sorser mai, altro che saggi.

Non vedi quanti aduna
Ferri e fochi su l'onda e su la terra
Vasto mostro di guerra, 165
Che tre Imperi commette a la Fortuna;
E con terribil faccia
Anco l'altrui securità minaccia?

Or convien che s'affretti,
Cotanto a le superbe ire vicina, 170
Del mar l'alta Regina
Il suo fianco a munir d'uomini eletti,
Ov'ardan le sublimi
Anime di color che opposer primi

Al rio furore esterno 175
Il valor la modestia ed i consigli;
E dai miseri esigli
Fecer l'Adria innalzarsi a soglio eterno;
E sonar con preclare
Opre del nome lor la terra e il mare. 180

Godi, Vicenza mia,
Che il Gritti a fin sì glorïoso or vola:
E il tuo dolor consola,
Mirando qual segnò splendida via
Co' brevi esempi suoi 185
Alla virtù di chi verrà da poi.

************************

In morte del maestro Sacchini

Te con le rose ancora
Della felice gioventù nel volto
Vidi e conobbi, ahi tolto
Sì presto a noi da la fatal tua ora
O di suoni divini 5
Pur dianzi egregio trovator Sacchini!

Maschia beltà fiorìa
Nell'alte membra; dai vivaci lumi
Splendido di costumi
E di soavi affetti indizio uscìa: 10
Il labbro era potente
Dell'animo lusinga e de la mente.

All'armonico ingegno
Quante volte fe' plauso; e vinta poi
Da gli altri pregi tuoi 15
Male al tenero cor pose ritegno
Damigella immatura,
O matrona di sè troppo secura!

Ma perfido o fastoso
Te giammai non chiamò tardi pentita: 20
Nè d'improvviso uscita
Madre sgridò nè furibondo sposo,
Te ingenuo, e del procace
Rito de' tuoi non facile seguace.

Amò de' bei concenti 25
Empier la tromba sua poscia la Fama;
Tal che d'emula brama
Arser per te le più lodate genti
Che Italia chiuda, o l'Alpe
Da noi rimova, o pur l'Erculea Calpe. 30

E spesso a breve oblìo
La da lui declinante in novo impero
Il Britanno severo
America lasciò: tanto il rapìo,
Non avveduto ai tristi 35
Casi, l'arguzia onde i tuoi modi ordisti.

O, se la tua dal mare
Arte poi venne a popol più faceto,
Nel teatro inquieto
Tacquer le ardenti musicali gare; 40
E in te sol uno immoti
Stetter dei cori e de l'orecchio i voti:

Poi che da' tuoi pensieri
Mirabile di suoni ordin si schiuse,
Che per l'aria diffuse 45
Non peranco al mortal noti piaceri,
O se tu amasti vanto
Dare a i mobili plettri, o pure al canto.

Fra la scenica luce
Ben più superbi strascinaron gli ostri 50
I prezïosi mostri,
Che l'Italo crudele ancor produce;
E le avare sirene
Gravi a l'alme speràro impor catene;

Quando su le sonore 55
Labbra di lor tuo nobil estro scese;
E novi accenti apprese
Delle regali vergini al dolore,
O ne' tragici affanni
Turbò di modulate ire i tiranni. 60

Ma tu, del non virile
Gregge sprezzando i folli orgogli e l'oro,
Innalzasti il decoro
Della bell'arte tua, spirto gentile,
Di liberi diletti 65
Sol avido bear gli umani petti.

Nè, se talor converse
La non cieca Fortuna a te il suo viso;
E con lieto sorriso
Fulgido di tesoro il lembo aperse, 70
Indivisi a gli amici
I doni a te di lei parver felici.

Ahi sperava a le belle
Sue spiagge Italia rivederti alfine;
Coronandoti il crine 75
Le già cresciute a lei fresche donzelle,
Use di te le lodi
Ascoltar da le madri e i dolci modi!

Ed ecco l'atra mano
Alzò colei, cui nessun pregio move; 80
E te, cercante nuove
Grazie lungo il sonoro ebano in vano,
Percosse; e di famose
Lagrime oggetto in su la Senna pose.

Nè gioconde pupille 85
Di cara donna, nè d'amici affetto,
Che tante a te nel petto
Valean di senso ad eccitar faville,
Più desteranno arguto
Suono dal cener tuo per sempre muto. 90

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Monia Di Biagio

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MessaggioInviato: Ven Set 14, 2007 5:04 pm    Oggetto:  Giuseppe Parini - Le odi
Descrizione:
Rispondi citando

Giuseppe Parini - Le odi

Il dono

Per la Marchesa Paola Castiglioni

Queste, che il fero Allobrogo
Note piene d'affanni
Incise col terribile
Odiator de' tiranni
Pugnale, onde Melpomene 5
Lui fra gl'Itali spirti unico armò;

Come oh come a quest'animo
Giungon soavi e belle,
Or che la stessa Grazia
A me di sua man dielle, 10
Dal labbro sorridendomi,
E dalle luci, onde cotanto può!

Me per l'urto e per l'impeto
De gli affetti tremendi,
Me per lo cieco avvolgere 15
De' casi, e per gli orrendi
Dei gran re precipizii,
Ove il coturno camminando va,

Segue tua dolce immagine,
Amabil donatrice, 20
Grata spirando ambrosia
Su la strada infelice;
E in sen nova eccitandomi
Mista al terrore acuta voluttà:

O sia che a me la fervida 25
Mente ti mostri, quando
In divin modi, e in vario
Sermon, dissimulando,
Versi d'ingegno copia
E saper che lo ingegno almo nodrì: 30

O sia quando spontaneo
Lepor tu mesci a i detti;
E di gentile aculeo
Altrui pungi e diletti
Mal cauto da le insidie, 35
Che de' tuoi vezzi la natura ordì.

Caro dolore, e specie
Gradevol di spavento
È mirar finto in tavola
E squallido, e di lento 40
Sangue rigato il giovane
Che dal crudo cinghiale ucciso fu.

Ma sovra lui se pendere
La madre de gli amori,
Cingendol con le rosee 45
Braccia si vede, i cori
Oh quanto allor si sentono
Da giocondo tumulto agitar più!

Certo maggior, ma simile
Fra le torbide scene 50
Senso in me desta il pingermi
Tue sembianze serene;
E all'atre idee contessere
I bei pregi, onde sol sei pari a te.

Ben porteranno invidia 55
A' miei novi piaceri
Quant'altri a scorrer prendano
I volumi severi.
Che far, se amico genio
Sì amabil donatrice a lor non diè? 60

*****************************

La gratitudine

Per Angelo Maria Durini Cardinale

Parco di versi tessitor ben fia
Che me l'Italia chiami;
Ma non sarà che infami
Taccia d'ingrato la memoria mia.
Vieni o Cetra al mio seno; 5
E canto illustre al buon durini sciogli,
Cui di fortuna dispettosi orgogli
Duro non stringon freno;
Sì che il corso non volga ovunque ei sente
Non ignobil favilla arder di mente. 10

Me pur dall'ombra de' volgari ingegni
Tolse nel suo pensiero;
E con benigno impero
Collocò repugnante in fra i più degni.
Me fatto idolo a lui 15
Guatò la invidia con turbate ciglia;
Mentre in tanto splendor gran meraviglia
A me medesmo io fui:
E sdegnoso pudore il cor mi punse,
Che all'alta cortesìa stimoli aggiunse. 20

Solenne offrir d'ambizïose cene,
Onde frequente schiera
Sazia si parta e altera,
Non è il favor di che a bearmi ei viene.
Mortale, a cui la sorte 25
Cieco diede versar d'enormi censi,
Sol di tai fasti celebrar sè pensi
E la turba consorte.
Chi sovra l'alta mente il cor sublima
Meglio sè stesso e i sacri ingegni estima. 30

Cetra il dirai; poi che a mostrarsi grato,
Fuor che fidar nell'ali
De la fama immortali,
Non altro mezzo all'impotente è dato.
Quei, che al fianco de' regi 35
Tanto sparse di luce e tanto accolse
Fin che le chiome de la benda involse
Premio di fatti egregi,
A me, che l'orma umìl tra il popol segno,
Scender dall'alto suo non ebbe a sdegno. 40

E spesso i Lari miei, novo stupore!
Vider l'ostro romano
Riverberar nel vano
Dell'angusta parete almo fulgore:
E di quell'ostro avvolti 45
Vider natìa bontà, clemente affetto,
Ingenui sensi nel vivace aspetto
Alteramente scolti,
E quanti alma gentil modi ha più rari,
Onde fortuna ad esser grande impari. 50

Qual nel mio petto ancor siede costante
Di quel dì rimembranza,
Quando in povera stanza
L'alta forma di lui m'apparve innante!
Sirio feroce ardea: 55
Ed io, fra l'acque in rustic' urna immerso,
E a le Naiadi belle umil converso,
Oro non già chiedea
Che a me portasser dall'alpestre vena,
Ma te cara salute al fin serena. 60

Ed ecco, i passi a quello dio conforme
Cui finse antico grido
Verso il materno lido
Dal Xanto ritornar con splendid'orme,
Ei venne; e al capo mio 65
Vicin si assise; e da gli ardenti lumi
E da i novi spargendo atti e costumi
Sovra i miei mali oblìo,
A me di me tali degnò dir cose;
Che tenerle fia meglio al vulgo ascose. 70

Io del rapido tempo in vece a scorno
Custodirò il momento,
Ch'ei con nobil portento
Ruppe lo stuol, che a lui venìa dintorno;
E solo accorse; e ratto, 75
Me, nel sublime impazïente cocchio
Per la negata ohimè forza al ginocchio
Male ad ascender atto,
Con la man sopportò lucidi dardi
Di sacre gemme sparpagliante a i guardi. 80

Come la Grecia un dì gl'incliti figli
Di Tindaro credette
Agili su le vette
De le navi apparir pronti a i perigli;
E di felice raggio 85
Sfavillando il bel crin biondo e le vesti,
Curvare i rosei dorsi; e le celesti
Porger braccia, coraggio
Dando fra l'alte minaccianti spume
Al trepido nocchier caro al lor nume: 90

Tale in sembianti ei parve oltra il mortale
Uso benigni allora;
Onde quell'atto ancora
Di giocondo tumulto il cor m'assale:
Chè la man, ch'io mirai 95
Dianzi guidar l'amata genitrice,
Ahi prima del morir tolta infelice
Del sole a i vaghi rai,
E tolta dal veder per lei dal ciglio
Sparger lagrime illustri il caro figlio: 100

Quella man, che gran tempo a lato a i troni
Onde frenato è il mondo,
Di consiglio profondo
Carte seppe notar propizie a i buoni:
Quella che, mentre ei presse 105
De le chiare provincie i sommi seggi,
Grate al popol donò salubri leggi;
Quella il mio fianco resse
Insigne aprendo a la fastosa etade
Spettacol di modestia e di pietade. 110

Uomo, a cui la natura e il ciel diffuse
Voglie nel cor benigne,
Qualor desìo lo spigne
L'arti a seguir de le innocenti Muse,
Il germe in lui nativo 115
Con lo aggiunto vigor molce ed affina,
Pari a nobile fior, cui cittadina
Mano in tiepido clivo
Educa e nutre, e da più ricche foglie
Cara copia d'odori all'aria scioglie. 120

Costui, se poi dintorno a sè conteste
D'onori e di fortuna
Fulgide pompe aduna,
Pregiate allor che a la virtù son veste,
Costui de' proprj tetti 125
Suo ritroso favor già non circonda;
Ma con pubblica luce esce e ridonda
Sopra gl'ingegni eletti,
Destando ardor per le lodevol' opre,
Che le genti e l'età di gloria copre. 130

Non va la mente mia lungi smarrita
Co' versi lusinghieri;
Ma per varj sentieri
Dell'inclito durin l'indole addita:
E, come falco ordisce 135
Larghi giri nel ciel volto a la preda;
Tal, benchè vagabondo altri lo creda,
Me il mio canto rapisce
A dir com'egli a me davanti egregio
Uditor tacque; ed al Licèo diè pregio. 140

Quando dall'alto disprezzando i rudi
Tempi a cui tutto è vile
Fuor che lucro servile;
Solo de' grandi entrar fu visto; e i nudi
Scanni repente cinse 145
De' lucidi spiegati ostri sedendo;
E al giovane drappel, che a lui sorgendo
Di bel pudor si tinse,
Lene compagno ad ammirar sè diede;
E grande a i detti miei acquistò fede. 150

Onde osai seguitar del miserando
Di Làbdaco nipote
Le terribili note
E il duro fato e i casi atroci e il bando;
Quale all'Attiche genti 155
Già il finse di colui l'altero carme,
Che la patria onorò trattando l'arme
E le tibie piagnenti;
E de le regie dal destin converse
Sorti, e dell'arte inclito esempio offerse. 160

Simuli quei, che più sè stesso ammira,
fuggir l'aura odorosa
Che da i labbri di rosa
La bellissima lode a i petti inspira;
Lode figlia del cielo, 165
Che mentre a la virtù terge i sudori,
E soave origlier spande d'allori
A la fatica e al zelo,
Nuove in alma gentil forze compone;
E gran premio dell'opre al meglio è sprone. 170

Io non per certo i sensi miei scortese
Di stoïco superbo
Manto celati serbo,
Se propizia giammai voce a me scese.
Nè asconderò che grata 175
Ei da le labbra melodìa mi porse,
Quando facil per me grazia gli scorse
Da me non lusingata;
Poi che tropp'alto al cor voto s'imprime
D'uom che ingegno e virtudi alzan sublime. 180

Pur, se lice che intero il ver si scopra,
Dirò che più mi piacque
Allor che di me tacque,
E del prisco cantor fe' plauso all'opra.
Sorser le giovanili 185
Menti da tanta autorità commosse:
Subita fiamma inusitata scosse
Gli spiriti gentili,
Che con novo stupor dietro a gl'inviti
De la greca beltà corser rapiti. 190

Onde come il cultor, che sopra il grembo
De' lavorati campi
Mira con fausti lampi
Stendersi repentino estivo nembo;
E tremolar per molta 195
Pioggia con fresco mormorìo le frondi;
E di novi al suo piè verdi giocondi
Rider la biada folta,
Tal io fui lieto, e nel pensier descrissi
Belle speranze a la mia Insubria, e dissi: 200

Vedrò vedrò da le mal nate fonti,
Che di zolfo e d'impura
Fiamma e di nebbia oscura
Scendon l'Italia ad infettar da i monti;
Vedrò la gioventude 205
I labbri torcer disdegnosi e schivi;
E a i limpidi tornar di Grecia rivi,
Onde natura schiude
Almo sapor, che a sè contrario il folle
Secol non gusta, e pur con laudi estolle. 210

Questi è il Genio dell'arti. Il chiaro foco
Onde tutt'arde e splende
Irrequieto ei stende
Simile all'alto sol di loco in loco.
Il Campidoglio e Roma 215
Lui ancor biondo il crine ammirar vide
I supremi del bello esempi e guide,
Che lunga età non doma;
E il concetto fervore e i novi auspicj
Largo versar di Pallade a gli amici. 220

Nè già, benchè per rapida le penne
Strada d'onor levasse,
Da sè rimote o basse
Le prime cure onde fu vago ei tenne:
O se con detti armati 225
D'integra fede e cor di zelo accenso
Osò l'ardua tentar fra nuvol denso
Mente de i re scettrati;
O se nel popol poi con miti e pure
Man le date spiegò verghe e la scure. 230

Però che dove o fra le reggie eccelse
Loco all'arti divine
O in umili officine
O in case ignote la fortuna scelse,
Ivi amabil decoro 235
E saggia meraviglia al merto desta
Venne guidando, e largità modesta,
E de le grazie il coro
Co' festevoli applausi ora discinti
Or de' bei nodi de le Muse avvinti. 240

Anzi, come d'Alcide e di Tesèo
Suona che da le vive
Genti a le inferne rive
L'ardente cortesìa scender potèo;
Ed ei così la notte 245
Ruppe dove l'oblìo profondo giace;
E al lieto de la fama aere vivace
Tornò le menti dotte;
E l'opre lor, dopo molt'anni e lustri,
Di sue vigilie allo splendor fe' illustri. 250

Tal che onorato ancor sul mobil etra
Va del suo nome il suono
Dove il chiaro Polono
Dell'arbitro vicino al fren s'arretra;
Dove il regal Parigi 255
Novi a sè fati oggi prepara, e dove
L'ombra pur anco del gran Tosco move
Che gli antiqui vestigi
Del saper discoperse, e fèo la chiusa
Valle sonar di così nobil Musa. 260

È ver che, quali entro al lor fondo avito
I Fabrizi e i Cammilli
Tornar godean tranquilli
Pronti sempre del Tebro al sacro invito:
Tal di sè solo ei pago 265
Lungi dall'aura popolar s'invola;
E mentre il ciel più glorïosa stola
Forse d'ordirgli è vago,
Tra le ville natali e l'aere puro
Da i flutti or sta d'ambizïon securo. 270

Ma i cari studj a lui compagni annosi,
E a i popoli ed all'arti
I beneficj sparti
Son del suo corso splendidi riposi.
Vedi amplïarsi alterno 275
Di moli aspetto ed orti ed agri ameni,
Onde quei che al suo merto accesser beni
E il tesoro paterno
Versa; e dovunque divertir gli piaccia,
L'ozio da i campi e l'atra inopia caccia. 280

Vedi i portici e gli atrj ov'ei conduce
Il fervido pensiere,
E le di libri altere
Pareti, che del vero apron la luce:
O ch'ei di sè maestro 285
Nell'alto de le cose ami recesso
Gir meditando, o il plettro a lui concesso
Tentar con facil estro;
E in carmi, onde la bella alma si spande,
Soavi all'amistà tesser ghirlande. 290

Ed ecco il tempio ove, negati altronde,
Qual da novo Elicona
Premj all'ingegno ei dona;
E fiamme acri d'onore altrui diffonde.
Ecco ne' segni sculti 295
Quei che del nome lor la patria ornaro,
Onde sol generoso erge all'avaro
Oblìo nobili insulti;
E quelle glorie a la città rivela,
Ch'ella a sè stessa ingiuriosa cela. 300

Dove o Cetra? Non più. Rari i discreti
Sono: e la turba è densa
Che già derider pensa
I facili del labbro a uscir segreti.
Di lui questa all'orecchio 305
Parte de' sensi miei salgane occulta,
Sì che del cor, che al beneficio esulta,
Troppo limpido specchio
Non sia che fiato invidïoso appanni,
Che me di vanti e lui d'error condanni. 310

Lungi o profani! Io d'importuna lode
Vile mai non apersi
Cambio; nè in blandi versi
Al giudizio volgar so tesser frode.
Oro nè gemme vani 315
Sono al mio canto: e dove splenda il merto
Là di fiore immortal ponendo serto
Vo con libere mani:
Nè me stesso nè altrui allor lusingo
Che poetica luce al vero io cingo. 320

********************************

Per l'inclita Nice

Quando novelle a chiedere
Manda l'Inclita Nice
Del piè, che me costrignere
Suole al letto infelice,
Sento repente l'intimo 5
Petto agitarsi del bel nome al suon.

Rapido il sangue fluttua
Ne le mie vene: invade
Acre calor le trepide
Fibre: m'arrosso: cade 10
La voce: ed al rispondere
Util pensiero in van cerco e sermon.

Ride, cred'io, partendosi
Il messo. E allor soletto
Tutta vegg' io, con l'animo 15
Pien di novo diletto,
Tutta di lei la immagine
Dentro a la calda fantasìa venir.

Ed ecco ed ecco sorgere
Le delicate forme 20
Sovra il bel fianco; e mobili
Scender con lucid'orme,
Che mal può la dovizia
Dell'ondeggiante al piè veste coprir.

Ecco spiegarsi e l'omero 25
E le braccia orgogliose,
Cui di rugiada nudrono
Freschi ligustri e rose,
E il bruno sottilissimo
Crine, che sovra lor volando va: 30

E quasi molle cumulo
Crescer di neve alpina
La man, che ne le floride
Dita lieve declina,
Cara de' baci invidia, 35
Che riverenza contener poi sa.

Ben puoi ben puoi tu rigido
Di bel pudor costume,
Che vano ami dell'avide
Luci render l'acume, 40
Altre involar delizie,
Immenso intorno a lor volgendo vel:

Ma non celar la grazia
Nè il vezzo, che circonda
Il volto affatto simile 45
A quel de la gioconda
Ebe, che nobil premio
Al magnanimo Alcide è data in ciel.

Nè il guardo, che dissimula
Quanto in altrui prevale; 50
E volto poi con subito
Impeto i cori assale,
Qual Parto sagittario,
Che più certi fuggendo i colpi ottien.

Nè i labbri or dolce tumidi 55
Or dolce in sè ristretti,
A cui gelosi temono
Gli Amori pargoletti
Non omai tutto a suggere
Doni Venere madre il suo bel sen: 60

I labbri, onde il sorridere
Gratissimo balena,
Onde l'eletto e nitido
Parlar, che l'alme affrena,
Cade, come di limpide 65
Acque lungo il pendìo lene rumor;

Seco portando e i fulgidi
Sensi ora lieti or gravi,
E i geniali studii
E i costumi soavi; 70
Onde salir può nobile
Chi ben d'ampia fortuna usa il favor.

Ahi, la vivace immagine
Tanto pareggia il vero,
Che, del piè leso immemore, 75
L'opra del mio pensiero
Seguir già tento; e l'aria
Con la delusa man cercando vo.

Sciocco vulgo a che mormori,
A che su per le infeste 80
Dita ridendo noveri
Quante volte il celeste
A visitare Ariete
Dopo il natal mio dì Febo tornò?

A me disse il mio Genio 85
Allor ch'io nacqui: L'oro
Non fia che te solleciti,
Nè l'inane decoro
De' titoli, nè il perfido
Desìo di superare altri in poter. 90

Ma di natura i liberi
Doni ed affetti, e il grato
De la beltà spettacolo
Te renderan beato
Te di vagare indocile 95
Per lungo di speranze arduo sentier.

Inclita Nice. Il secolo,
Che di te s'orna e splende,
Arde già gli assi. L'ultimo
Lustro già tocca, e scende 100
Ad incontrar le tenebre,
Onde una volta pargoletto uscì:

E già vicino ai limiti
Del tempo i piedi e l'ali
Provan tra lor le vergini 105
Ore, che a noi mortali
Già di guidar sospirano
Del secol, che matura il primo dì.

Ei te vedrà nel nascere
Fresca e leggiadra ancora 110
Pur di recenti grazie
Gareggiar con l'aurora;
E di mirarti cupido
De' tuoi begli anni farà lento il vol.

Ma io, forse già polvere, 115
Che senso altro non serba
Fuor che di te, giacendomi
Fra le pie zolle e l'erba,
Attenderò chi dicami
Vale passando, e ti sia lieve il suol. 120

Deh alcun, che te nell'aureo
Cocchio trascorrer veggia
Su la via, che fra gli alberi
Suburbana verdeggia,
Faccia a me intorno l'aere 125
Modulato del tuo nome volar.

Colpito allor da brivido
Religïoso il core,
Fermerà il passo; e attonito
Udrà del tuo cantore 130
Le commosse reliquie
Sotto la terra argute sibilar.

***********************

A Silvia

Perchè al bel petto e all'omero
Con subita vicenda
Perchè, mia Silvia ingenua,
Togli l'Indica benda,

Che intorno al petto e all'omero, 5
Anzi a la gola e al mento
Sorgea pur or, qual tumida
Vela nel mare al vento?

Forse spirar di zefiro
Senti la tiepid'ora? 10
Ma nel giocondo ariete
Non venne il sole ancora.

Ecco di neve insolita
Bianco l'ispido verno
Par che, sebben decrepito, 15
Voglia serbarsi eterno.

M'inganno? O il docil animo
Già de' feminei riti
Cede al potente imperio:
E l'altre belle imiti? 20

Qual nome o il caso o il genio
Al novo culto impose,
Che sì dannosa copia
Svela di gigli e rose?

Che fia? Tu arrossi? E dubia, 25
Col guardo al suol dimesso,
Non so qual detto mormori
Mal da le labbra espresso?

Parla. Ma intesi. Oh barbaro!
Oh nato da le dure 30
Selci chiunque togliere
Da scellerata scure

Osò quel nome, infamia
Del secolo spietato;
E diè funesti augurii 35
Al femminile ornato;

E con le truci Eumenidi
Le care Grazie avvinse;
E di crudele immagine
La tua bellezza tinse! 40

Lascia, mia Silvia ingenua,
Lascia cotanto orrore
All'altre belle, stupide
E di mente e di core.

Ahi, da lontana origine, 45
Che occultamente noce,
Anco la molle giovane
Può divenir feroce.

Sai de le donne esimie,
Onde sì chiara ottenne 50
Gloria l'antico Tevere,
Silvia, sai tu che avvenne;

Poi che la spola e il Frigio
Ago e gli studj cari
Mal si recàro a tedio 55
E i pudibondi Lari;

E con baldanza improvvida,
Contro a gli esempi primi,
Ad ammirar convennero
I saltatori e i mimi? 60

Pria tolleraron facili
I nomi di Terèo
E de la maga Colchica
E del nefario Atrèo.

Ambìto poi spettacolo 65
A i loro immoti cigli
Fur ne le orrende favole
I trucidati figli.

Quindi, perversa l'indole,
E fatto il cor più fiero, 70
Dal finto duol, già sazie,
Corser sfrenate al vero.

E là dove di Libia
Le belve in guerra oscena
Empièan d'urla e di fremito 75
E di sangue l'arena,

Potè all'alte patrizie
Come a la plebe oscura
Giocoso dar solletico
La soffrente natura. 80

Che più? Baccanti, e cupide
D'abbominando aspetto,
Sol dall'uman pericolo
Acuto ebber diletto:

E da i gradi e da i circoli 85
Co' moti e con le voci,
Di già maschili, applausero
A i duellanti atroci:

Creando a sè delizia
E de le membra sparte, 90
E de gli estremi aneliti,
E del morir con arte.

Copri, mia Silvia ingenua,
Copri le luci; et odi
Come tutti passarono 95
Licenzïose i modi.

Il gladiator, terribile
Nel guardo e nel sembiante,
Spesso fra i chiusi talami
Fu ricercato amante. 100

Così, poi che da gli animi
Ogni pudor disciolse,
Vigor da la libidine
La crudeltà raccolse.

Indi a i veleni taciti 105
Si preparò la mano:
Indi le madri ardirono
Di concepire in vano.

Tal da lene principio
In fatali rovine 110
Cadde il valor la gloria
De le donne Latine.

Fuggì, mia Silvia ingenua,
Quel nome e quelle forme,
Che petulante indizio 115
Son di misfatto enorme.

Non obliar le origini
De la licenza antica.
Pensaci: e serba il titolo
D'umana e di pudica. 120

******************

Alla Musa

Te il mercadante, che con ciglio asciutto
Fugge i figli e la moglie ovunque il chiama
Dura avarizia, nel remoto flutto,

Musa, non ama.

Nè quei, cui l'alma ambizïosa rode 5
Fulgida cura; onde salir più agogna;
E la molto fra il dì temuta frode

Torbido sogna.

Nè giovane, che pari a tauro irrompa
Ove a la cieca più Venere piace: 10
Nè donna, che d'amanti osi gran pompa

Spiegar procace.

Sai tu, vergine dea, chi la parola
Modulata da te gusta od imita;
Onde ingenuo piacer sgorga, e consola 15

L'umana vita?

Colui, cui diede il ciel placido senso
E puri affetti e semplice costume;
Che di sè pago e dell'avito censo

Più non presume. 20

Che spesso al faticoso ozio de' grandi
E all'urbano clamor s'invola, e vive
Ove spande natura influssi blandi

O in colli o in rive.

E in stuol d'amici numerato e casto, 25
Tra parco e delicato al desco asside;
E la splendida turba e il vano fasto

Lieto deride.

Che a i buoni, ovunque sia, dona favore;
E cerca il vero; e il bello ama innocente; 30
E passa l'età sua tranquilla, il core

Sano e la mente.

Dunque perchè quella sì grata un giorno
Del Giovin, cui diè nome il dio di Delo,
Cetra si tace; e le fa lenta intorno 35

Polvere velo?

Ben mi sovvien quando, modesto il ciglio,
Ei già scendendo a me giudice fea
Me de' suoi carmi: e a me chiedea consiglio:

E lode avea. 40

Ma or non più. Chi sa? Simile a rosa
Tutta fresca e vermiglia al sol, che nasce,
Tutto forse di lui l'eletta Sposa

L'animo pasce.

E di bellezza, di virtù, di raro 45
Amor, di grazie, di pudor natìo
L'occupa sì, ch'ei cede ogni già caro

Studio all'oblìo.

Musa, mentr'ella il vago crine annoda
A lei t'appressa; e con vezzoso dito 50
A lei premi l'orecchio; e dille: e t'oda.

Anco il marito.

Giovinetta crudel, perchè mi togli
Tutto il mio d'Adda, e di mie cure il pregio,
E la speme concetta, e i dolci orgogli 55

D'alunno egregio?

Costui di me, de' genj miei si accese
Pria che di te. Codeste forme infanti
Erano ancor, quando vaghezza il prese

De' nostri canti. 60

Ei t'era ignoto ancor quando a me piacque.
Io di mia man per l'ombra, e per la lieve
Aura de' lauri l'avviai ver l'acque,

Che al par di neve

Bianche le spume, scaturir dall'alto 65
Fece Aganippe il bel destrier, che ha l'ale:
Onde chi beve io tra i celesti esalto

E fo immortale.

Io con le nostre il volsi arti divine
Al decente, al gentile, al raro, al bello: 70
Fin che tu stessa gli apparisti al fine

Caro modello.

E, se nobil per lui fiamma fu desta
Nel tuo petto non conscio: e s'ei nodrìa
Nobil fiamma per te, sol opra è questa 75

Del cielo e mia.

Ecco già l'ale il nono mese or scioglie
Da che sua fosti, e già, deh ti sia salvo,
Te chiaramente in fra le madri accoglie

Il giovin alvo. 80

Lascia che a me solo un momento ei torni;
E novo entro al tuo cor sorgere affetto,
E novo sentirai da i versi adorni

Piover diletto.

Però ch'io stessa, il gomito posando 85
Di tua seggiola al dorso, a lui col suono
De la soave andrò tibia spirando

Facile tono.

Onde rapito, ei canterà che sposo
Già felice il rendesti, e amante amato; 90
E tosto il renderai dal grembo ascoso

Padre beato.

Scenderà in tanto dall'eterea mole
Giuno, che i preghi de le incinte ascolta.
E vergin io de la Memoria prole 95

Nel velo avvolta

Uscirò co' bei carmi; e andrò gentile
Dono a farne al Parini, Italo cigno,
Che a i buoni amico, alto disdegna il vile

Volgo maligno. 100

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