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Sito Letterario & Laboratorio di Scrittura Creativa di Monia Di Biagio.

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Giosuè Carducci: Vita&Opere
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MessaggioInviato: Mer Ott 11, 2006 5:03 pm    Oggetto:  Giosuè Carducci: Vita&Opere
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Giosuè Carducci: Vita

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« Non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all'energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica »

(Nobel per la letteratura 1906 - Motivazione del Premio Nobel)


************

Giosuè (o Giosue) Alessandro Michele Carducci (Valdicastello, 27 luglio 1835 - Bologna, 16 febbraio 1907) è stato un famoso poeta. Fu il primo italiano a ricevere il premio Nobel per la letteratura (1906).

Indice [In questa pagina]:

1 Biografia
1.1 L'infanzia
1.2 Gli studi
1.3 L'insegnamento
1.4 Le idee politiche
1.5 I lutti
1.6 Il ritorno all'insegnamento
2 La poesia laica
3 Il legame alla massoneria
4 Poeta nazionale
5 La nomina a senatore
6 Gli ultimi anni di vita
7 Produzione poetica
8 Poetica
9 La critica contro corrente
10 Curiosità

***********

Biografia

-L'infanzia-

Nacque nel 1835 a Valdicastello, una frazione di Pietrasanta in Versilia, da Michele e Ildegonda Celli, ma nel 1839 la famiglia si trasferì a Bolgheri, in Maremma, dove il padre, implicato nei moti carbonari del '31, esercitava la professione di medico condotto. Tra questi paesaggi, il cui ricordo si riscontrerà in molte delle sue poesie, il giovane Giosuè trascorse felicemente la sua infanzia fino al 1848, quando il padre dovette trasferirsi perché accusato di attività antigovernativa.
A Bolgheri e a Castagneto, il Carducci intraprese i primi studi e fece le prime letture, sotto la guida del padre dotato di una buona cultura classica.

-Gli studi-

Nel 1849 la famiglia si stabilì a Firenze dove Giosuè compì gli studi presso gli Scolopi acquisendo una buona preparazione in campo letterario e retorico e nel 1853, dopo aver vinto il concorso per un posto gratuito presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, si iscrisse alla Facoltà di lettere dove nel 1855 conseguì la laurea con una tesi sulla poesia cavalleresca e nello stesso anno pubblicò le sue prime poesie sul mensile "L'Arpa del popolo".

-L'insegnamento-

Nel 1856 dopo essersi trasferito a Santa Maria a Monte, piccolo borgo nella provincia di Pisa, insegnò retorica presso il ginnasio di San Miniato vivendo una intensa esperienza che riporterà poi nel 1863 nelle pagine di carattere autobiografico: Risorse di San Miniato. Nel corso di questo anno il poeta andò affermando la sua poetica anti-romantica e con il gruppo di amici formato da Giuseppe Chiarini (1833-1908), Ottavio Targioni Tozzetti (1833-1899), Tommaso Gargani (1834-1862) ed Enrico Nencioni (1837-1896) fondò la società letteraria degli Amici pedanti, dal taglio fortemente classicistico e anti-romantico, intervenendo in modo battagliero nelle discussioni tra manzoniani e anti-manzoniani ai quali ultimi appartiene.
Nel luglio dello stesso anno ottiene l'abilitazione all'insegnamento, ma non viene ratificata dal governo granducale la sua designazione per concorso al ginnasio di Arezzo.

-Le idee politiche-

Sospettato dalla polizia per le sue idee filo-repubblicane, il 9 aprile 1858 venne sospeso dall'insegnamento e per la durata di tre anni visse a Firenze guadagnandosi da vivere con il lavoro presso l'editore Barbera del quale curava l'edizione dei piccoli volumi della "Bibliotechina Diamante" e dando lezioni private.

-I lutti-

Colpito nel giro di due anni da due gravi lutti - nel 1857 morì il fratello Dante, morto suicida nella casa santamariammontese del poeta secondo la versione ufficiale, ma forse ucciso accidentalmente dal padre dopo un litigio secondo una più recente versione, e nel 1858 lo stesso padre si suicidò per il dolore o forse per il rimorso; entrambi vennero sepolti nel vecchio cimitero del paese dove oggi sono ancora visibili le lapidi - Carducci trascorse un periodo di grande sconforto che espresse attraverso alcune sue liriche ricordando il "colle" ove ebbe luogo la tragedia, ovvero Santa Maria a Monte, ma nel 1859 il matrimonio con la cugina Elvira Menicucci, dalla quale ebbe quattro figli, lo aiutò a superare il dolore dei lutti ma ritornò nel dolore con la morte del piccolo figlio Dante avvenuta nel 1870 a cui dedicò "Pianto Antico".

-Il ritorno all'insegnamento-

Riammesso all'insegnamento, gli venne affidato un incarico presso il liceo classico Niccolò Forteguerri di Pistoia dove insegnò per tutto il 1859 latino e greco.

Con decreto del 26 settembre 1860 venne incaricato, dall'allora ministro della Pubblica Istruzione Terenzio Mamiani Della Rovere, a tenere la cattedra di eloquenza italiana, in seguito chiamata Letteratura italiana presso l'Università di Bologna dove rimarrà in carica fino al 1904. Pubblicò nel frattempo Juvenilia, che raccoglie tutte le poesie del decennio precedente.

Nel 1863 pubblicò con lo pseudonimo di Enotrio Romano l' Inno a Satana che, pur ottenendo successo, fomentò vivaci polemiche. Sempre di quell'anno è la pubblicazione Delle poesie toscane di A. Poliziano.

La poesia laica

La sua poesia intanto, sotto l'influsso delle letterature straniere ed in particolare di quella francese e tedesca, divenne sempre più improntata di laicismo mentre le sue idee politiche andavano orientandosi in senso repubblicano. Oltre all' Inno a Satana pubblicò nel 1868 la raccolta maggiormente impegnata dal punto di vista politico: Levia Gravia.

Il legame alla massoneria

Nel 1866 vide la stampa il saggio Dante e l'età sua e Carducci fondò la "Felsinea", una loggia massonica. Il legame alla massoneria e all'unione democratica gli costò come punizione la richiesta da parte del ministro Broglio del trasferimento alla cattedra di Letteratura latina di Napoli, trasferimento che Carducci rifiutò.

Ottenuta nel 1868 la revoca del trasferimento, venne sospeso dall'insegnamento per due mesi e gli venne tolto lo stipendio.

Nel 1870 morirono la madre e il figlio Dante di soli tre anni lasciandolo in un cupo dolore che cercò di alleviare con l'intenso lavoro letterario.

Poeta nazionale

Nel 1871 il poeta conobbe Carolina Cristofori (moglie dell'ex-garibaldino Domenico Piva e madre di Gino Piva), una donna ricca di ambizioni culturali, con la quale iniziò un fitto scambio epistolare sfociato nel 1872 in una relazione amorosa. Alla donna, chiamata Lina o Lidia nelle lettere e in alcune poesie, dedicherà molti dei suoi versi e fu proprio in questo periodo che la fama del poeta, come guida nazionale della cultura italiana, si consolidò. Di questi anni è l'ampia produzione poetica che verrà raccolta in Rime Nuove (1861-1887) e in Odi barbare (1877-1889).

Proseguì l'insegnamento universitario e alla sua scuola si formano uomini che diventeranno famosi come Giovanni Pascoli, Stefano Ferrari, Renato Serra, Alfredo Panzini e Manara Valgimigli.

Nel 1873 si recò per la prima volta a Roma e pubblicò A proposito di alcuni giudizi su A. Manzoni e Del rinnovamento letterario d'Italia.

Nel 1878, in occasione di una visita della famiglia reale a Bologna, scrisse l'Ode Alla Regina d'Italia in onore della regina Margherita, ammiratrice dei suoi versi e venne accusato di essersi convertito alla monarchia suscitando forti polemiche da parte dei repubblicani.

Negli anni che seguirono collaborò con il giornale "Fanfulla della Domenica" di impronta filo-governativa (1878), pubblicò le Nuove Odi Barbare e i Giambi ed epodi, collaborò alla Cronaca bizantina e lesse il famoso discorso Per la morte di Garibaldi (1882).

Sulla Cronaca bizantina uscirono nel 1883 i sonetti del Ça ira e nel 1887 pubblicò Rime nuove. Il corso che tenne all'Università nel 1888 sul poema

Il giorno di Parini produsse l'importante saggio Storia del "Giorno" di G. Parini. Nel 1889, dopo la pubblicazione della terza edizione delle Odi Barbare, il poeta iniziò ad assemblare l'edizione delle sue Opere in venti volumi, lavoro che si concluse nel 1899.

La nomina a senatore

Nel 1890 venne nominato senatore e negli anni del suo mandato sostenne la politica di Crispi , che attuava un governo di stampo conservatore, anche dopo la sconfitta di Adua.

Conobbe in quello stesso anno la scrittrice Annie Vivanti con la quale instaurò un'intensa amicizia sentimentale.

Gli ultimi anni di vita

Nel 1899 pubblicò la sua ultima raccolta di versi, Rime e Ritmi, e nel 1904 fu costretto a lasciare l'insegnamento per motivi di salute. Nel 1906 l' Accademia di Svezia gli conferì il premio Nobel per la letteratura.
La morte lo colse a Bologna il 16 febbraio del 1907. È sepolto alla Certosa di Bologna.

Produzione poetica

1863 - Inno a Satana
1866-1867 - Della varia fortuna di Dante
1867 - Lavora all' Idillio maremmano che terminerà nel 1872
1868 - Levia Gravia
1868 - Inizia a lavorare sul saggio Dello svolgimento della letteratura nazionale che termina nel 1871
1871 - Pianto antico
1871 - Poesie
1872 - Primavere elleniche
1873 - Nuove poesie di Enotrio Romano
1874 - Davanti a San Guido e Nostalgia
1875 - Faida di comune, Tedio invernale, Alla stazione in una mattina d'autunno, Mors - nell'epidemia difterica
1876 - Alle fonti del Clitumno
1877 - Odi barbare
1878 - Alla regina d'Italia
1880 - Sogno d'estate
1881 - Nevicata
1882 - Nuove Odi barbare, Giambi ed Epodi, Confessioni e battaglie a cui seguiranno altri due volumi nel 1883 e 1884
1883 - San Martino, Visione, Ça ira
1885 - Il comune rustico
1887 - Rime nuove
1888 - Jaufré Rudel
1889 - Terze Odi Barbare
1890 - Piemonte
1892 - Storia del Giorno di Giuseppe Parini
1893 - Raccolta definitiva delle Odi Barbare
1899 - Rime e Ritmi, Commento alle Rime di Francesco Petrarca
1902 - Dello svolgimento dell'Ode in Italia

Non è sempre facile seguire lo sviluppo della poesia del Carducci attraverso le raccolte da lui edite. Il poeta infatti organizzò più volte e in modo differente i suoi componimenti e ne diede una sistemazione definitiva solamente più tardi nell'edizione delle Opere.
I volumi della raccolta delle Opere non corrisponde però all'ordine cronologico con il quale il poeta aveva pubblicato le prime raccolte, ma fa riferimento più che altro su distinzioni di generi e pertanto troviamo poesie di uno stesso periodo in raccolte diverse.

Bibliografia carducciana

Risale al 1857 la pubblicazione delle Rime, dette Rime di San Miniato a cui fa seguito nel 1868 la prima raccolta organica in quattro libri dei Levia Gravia che venne pubblicata con lo pseudonimo di Enotrio Romano.

Esce poi nel 1871 un volume diviso in tre parti intitolato Poesie.
La prima parte, dal titolo Decennalia, conteneva le poesie politiche composte durante il decennio 1860-1870, la seconda parte si intitolava ancora Levia Gravia e la terza Juvenilia.

Nel 1872 apparvero le Primavere elleniche, poi passate nella raccolta delle Rime Nuove, dedicate a Lidia che riprendevano i modelli antichi e l'anno seguente, 1873, uscì il volume Nuove poesie di Enotrio Romano composto da quarantasei componimenti di vario genere.

Nel 1877 uscirono le Odi barbare, il primo libro in versi costruiti secondo gli schemi della metrica barbara al quale fece seguito nel 1882 le Nuove Odi barbare e nel 1889 le Terze Odi barbare.

Giambi ed Epodi, la raccolta che contiene gran parte delle poesie polemiche e giacobine precedenti, apparve nel 1882 e nel 1887 saranno pubblicate le Rime Nuove che contengono il meglio della poesia precedente priva di metrica barbara ma basati, come sottolinea la parola rime, sui metri della tradizione romanza.

La raccolta definitiva delle Odi barbare apparve nel 1893 e includeva tutti i componimenti delle tre raccolte precedenti.

L'ultima raccolta, Rime e Ritmi, venne pubblicata nel 1899 e inglobava sia le poesie basate sulla metrica barbara che quelle sulla metrica italiana.

Poetica

Con Carducci si ebbe una reazione al tardo romanticismo (Prati, Aleardi) avversato anche dagli Scapigliati.

In particolare la sua reazione vide il ritorno ai classici e la ricerca di una lingua che avesse dignità letteraria.

Il sentimento della vita, con i suoi valori di gloria, amore, bellezza ed eroismo, è senza dubbio la maggior fonte d'ispirazione del poeta, ma accanto a questo tema, non meno importante è quello del paesaggio, un paesaggio che non è pittoresco e non è esaltato come prodigio di miracoli di bellezza, ma è il terreno mirabile di forza contro il quale si stagliano tutte le creature.

Un altro grande tema dell'arte carducciano è quello della memoria che non fa disdegnare al poeta vate la nostalgia delle speranze deluse e il sentimento di tutto quello che non c'è più, anche se tutto viene accettato come forma della vita stessa.

La costruzione della poesia del Carducci fu di ampio respiro, spesso impetuosa e drammatica, espressa in una lingua aulica senza essere sfarzosa o troppo evidenziata.

La critica contro corrente

Carducci fu oggetto anche di critiche molto aspre. Da segnalare fra queste quella di FR. Enotrio Ladenarda, pseudonimo di Andrea Lo Forte Randi, critico insigne: Lettera aperta a Benedetto Croce, ed. G. Pedone Lauriel, Palermo 1915. (Ladenarda aveva scritto anche Giosuè Carducci Vol.1° e 2°, Feticisti Carduccini, 1912.), e quella del Sapegno, che lo defini un poeta minore. Si può leggerne un estratto qui.

Curiosità

-Nonostante Carducci sia stato battezzato col nome Giosuè, il poeta dichiarò sempre la sua preferenza per la forma non accentata del nome. Da qui deriva la doppia forma con la quale si può trovare indicato il poeta e la diatriba sulla correttezza delle due forme.
-A Carducci è stato intitolato il cratere Carducci, sulla superficie di Mercurio.
-A Giosuè Carducci è stato dedicato il nome del paesino Toscano Castagneto Carducci.

*****************

( Biografia tratta da Wikipedia, l'enciclopedia libera:
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MessaggioInviato: Mer Ott 11, 2006 5:20 pm    Oggetto:  Giosuè Carducci: Opere
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Giosuè Carducci: Opere

-Primi versi
-Juvenilia
-Levia gravia, 1868
-Giambi ed epodi, 1882
-Rime nuove, 1861 - 1887
-Odi barbare, 1877 - 1889
-Rime e ritmi, 1899
-Prose giovanili
-Primi saggi
-Discorsi letterari e storici
-Studi sulla letteratura italiana dei primi secoli
-I trovatori e la cavalleria
-Dante
-Petrarca e Boccaccio
-Il Poliziano e l'Umanesimo
-La coltura estense e la gioventù dell'Ariosto
-L'Ariosto e il Tasso
-Lirica e storia nei secoli XVII e XVIII
-Studi su Giuseppe Parini
-il Parini minore
-il Parini maggiore
-Poeti e figure del Risorgimento
-Leopardi e Manzoni
-Scritti di storia e di erudizione
-Bozzetti e scherme
-Confessioni e battaglie
-Ceneri e faville
-Versioni da antichi e da moderni
-Ricordi autobiografici, saggi e frammenti
-Inno a Satana, 1863
-Alla regina d'Italia, 1878
-Poesie
-Del Risorgimento italiano
-Dello svolgimento della letteratura nazionale
-Letture italiane scelte e annotate ad uso delle suole secondarie inferiori, scritto con Ugo Brilli
-Ça ira. Versi e prosa
-Amarti è odiarti. Lettere a Lidia
-Confessioni e battaglie
-Per il tricolore, discorso tenuto nell'atrio del Palazzo civico di Reggio Emilia per le celebrazioni del primo centenario del tricolore
-Cacce in rima
-Prose
-Accapigliatura ed altre prose
-Lo studio bolognese, discorso per l'ottavo centenario
-Faida di Comune
-Il libro delle prefazioni

********************

Sotto il titolo di Opere il Carducci stesso organizzò definitivamente le sue raccolte, lasciando fuori da esse alcuni testi.

Le raccolte seguono questo ordine:


-Juvenilia in sei libri (1850-1860)
-Levia Gravia in due libri (1861-1871)
-Inno a Satana (1863)
-Giambi ed Epodi in due libri (1867-1879)
-Intermezzo (1874-1887)
-Rime Nuove in nove libri (1861-1887)
-Odi barbare in due libri (1873-1889)
-Rime e Ritmi (1889- 1898 )
-Della Canzone di Legnano, parte I (Il Parlamento). (1879)

************

Juvenilia

La prima raccolta di liriche, che lo stesso Carducci raccolse e divise, dal titolo significativo Juvenilia (1850-1860), ha il carattere un po' provinciale e pedante del gruppo degli "Amici pedanti" che aveva formato in quel periodo con il proposito di combattere i romantici fiorentini. Nei versi della raccolta si coglie subito l'imitazione dei classici antichi e, tra i moderni, soprattutto quella di Alfieri, Monti, Foscolo e Leopardi.

In seguito a questa prima esperienza il Carducci, che nel frattempo aveva allargato i suoi orizzonti culturali con le letture di Hugo, Barbier, Shelley, Heine e Von Platen, assorbe le esperienze della poesia romantica europea e le ideologie di tutti quei movimenti democratici nati dalla Rivoluzione francese diventando acceso repubblicano e mazziniano.

Nasceranno in questo periodo di grande fervore ideologico Giambi ed Epodi che seguono il noto Inno a Satana e si intrecciano con le poesie di Levia Gravia.

Levia Gravia

(Cose pesanti e cose leggere) Nella seconda raccolta, Levia Gravia (1861-1871), che accosta nel titolo due plurali senza congiunzioni come era nell'uso classico, vengono raccolte poesie di poca originalità, di imitazione e spesso scritte per particolari occasioni secondo l'uso della retorica.
In molte di queste poesie si avverte la delusione di chi ha visto il compiersi dell' unità d'Italia. Tra le poesie maggiormente riuscite vi è Congedo, dove si vive lo stato d'animo nostalgico di chi ha visto la giovinezza tramontare, mentre importante dal punto di vista storico è Per il trasporto delle reliquie di U. Foscolo in S. Croce e politicamente significativo il canto Dopo Aspromonte, dove viene celebrato un Garibaldi ribelle e fiero.

Inno a Satana

L' Inno a Satana (1863), che celebra Satana visto come un simbolo di ribellione alla vita e del progresso, precede la raccolta Giambi ed Epodi e fa parte a sé. Questo inno, pur essendo di scarso valore poetico come lo stesso Carducci riconosce, rimane comunque un importante documento non solo del pensiero del Carducci ma di tutti gli intellettuali laici di quel periodo. Il tema della poesia, tema che ricorrerà nella letteratura successiva, è quello del progresso simboleggiato alla fine nella macchina a vapore.

Giambi ed Epodi

La raccolta intitolata Giambi ed Epodi (1867-1879) viene citata dalla critica come il libro delle polemiche. In essa, pur non essendoci ancora la vera poesia carducciana, si coglie tutta la passione del poeta e vi sono tutti, anche se non ancora affinati, i temi della sua poesia. Si avverte nel titolo il desiderio di riproporre l'antica poesia polemico-satirica, come quella greca di Archiloco e quella latina di Orazio che nel suo Libro di epodi si ispira al poeta-soldato.

In Giambi ed Epodi vi è l'esaltazione dei grandi ideali di libertà e giustizia, il disprezzo per i compromessi dell'Italia unificata, la polemica contro il papato e contro molti aspetti di costume della vita italiana.

Rime nuove

Nella raccolta Rime nuove (1861-1887), che è preceduta da un Intermezzo, si colgono gli echi e i motivi di Hugo, von Platen, Goethe, Heine, Baudelaire e Poe. In essa i contenuti e le forme derivano in gran parte dai precedenti scritti ma maggiormente approfonditi e maturi.
Tra i temi che emergono nelle Rime nuove un posto rilevante è assunto dal culto del passato e delle memorie storiche dove il sogno della realizzazione di una società egualitaria e liberale si avverte soprattutto attraverso l'esaltazione dell' età dei comuni che vengono presi come esempio di sanità morale e di vita civile.

Un altro esempio preso dal Caducci di espansione democratica è la Rivoluzione Francese che viene rievocata nei 12 sonetti del Ça ira.
Accanto al sogno, sul piano storico, di un popolo libero e primitivo, corrisponde sul piano sentimentale quello di una infanzia libera e ribelle che si riversa sul paesaggio maremmano, come nel caso del sonetto Traversando la Maremma toscana, uno forse tra i più belli e noti del poeta. Anche "pianto antico" è molto significativo

Odi barbare

La raccolta Odi barbare (1873-1889) rappresenta il tentativo da parte del Carducci di riprodurre la metrica quantitativa dei Greci e dei Latini con quella accentuativa italiana. I due sistemi sono decisamente diversi, ma già altri poeti prima di lui si erano cimentati nell'impresa, dal Quattrocento in poi. Egli pertanto chiama le sue liriche barbare perché tali sarebbero sembrate non solo ad un greco o ad un latino, ma anche a molti italiani.

Predomina nelle Odi barbare il tema storico e quello paesaggistico con accenti più intimi, come nella poesia Alla stazione in una mattina d'autunno. E ancora una volta i temi fondamentali della poesia carducciana sono gli affetti familiari, l'infanzia, la natura, la storia, la morte accettata con virile tristezza come nella poesia Nevicata.

Rime e Ritmi

Nella raccolta Rime e Ritmi (1889-1898), formata da 29 poesie, le composizioni in metrica tradizionale si affiancano a quelle in metrica barbara, come sottolinea lo stesso titolo; in esse vengono ricapitolati i motivi già presenti nelle precedenti opere, non senza delle interessanti novità. Se le odi storiche e celebrative, da Piemonte a Cadore, un tempo famose, non incontrano più il gusto dei lettori moderni, alcune altre liriche godono oggi di una notevole fortuna, mostrando un Carducci più intimo e sensibile ai cambiamenti di gusto che segnano la fine dell'Ottocento. Molto apprezzate, in particolare, sono le liriche che vanno sotto il nome di Idillii alpini, ossia L'ostessa di Gaby, Esequie della guida E. R., In riva al Lys, Sant'Abbondio e l'Elegia del monte Spluga, alle quali va aggiunto l'incantevole Mezzogiorno alpino. Presso una Certosa è invece una sorta di testamento ideale, nel quale, di fronte alla morte, Carducci riafferma la sua fede nei valori della poesia. Significative sono anche le tristi elegie La moglie del gigante e Jaufré Rudel.

Della Canzone di Legnano, parte I (Il Parlamento) (1879)

Fa parte a sé Il Parlamento, frammento de La canzone di Legnano che è senza dubbio uno dei capolavori del Carducci e dove si trova l'ispirazione maggiore delle maggiori raccolte.

**************

-Seguiranno:

-Plebiscito
-Carnevale
-A Satana
-Per Eduardo Corazzini
-In morte di Giovanni Cairoli
-Avanti! Avanti!
-Giuseppe Mazzini
-Virgilio
-Agli amici della Valle Tiberina
-"Funere mersit Acerbo"
-Il sonetto Pianto antico
-Eolia
-Alessandrina
-Il Bove
-Idillio Maremmano
-Nostalgia
-La sacra di Enrico V
-Davanti a San Guido
-Tedio Invernale
-Fantasia
-Alla stazione in una mattina d'Autunno
-Alle fonti del Clitumno
-Nella piazza di San Petronio
-Dinanzi alle terme di Caracalla
-Il canto dell'amore
-Miramar
-Sogno d'Estate
-Nevicata
-Sul Monte Mario
-Il poeta San Martino
-La leggenda di Teodorico
-Traversando la Maremma
-Toscana
-Il comune rustico
-In una villa
-Piemonte
-Ad Annie
-A Scandiano Mezzogiorno Alpino
-L'ostessa di Gaby
-La mietitura del turco
-La chiesa di Polenta Sabato Santo
-Eligia del Monte Spluga
-Sant'Abbondio
-Presso una certosa

.....E molte altre, ancora!

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MessaggioInviato: Mar Mag 15, 2007 2:46 pm    Oggetto:  Rime scelte di Giosuè Carducci
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Plebiscito

Leva le tende, e stimola
La fuga de i cavalli;
Torna a le pigre valli
Che il verno scolorò!
Via! su le torri italiche
L'antico astro s'accende:
Leva, o stranier, le tende!
Il regno tuo cessò.
Amor de' nostri martiri,
De i savi e de' poeti,
Da i santi sepolcreti
La nuova Italia uscì:
Uscì fiera viragine
De le battaglie al suono,
E la procella e 'l tuono
Su 'l capo a lei ruggì.
Levò lo sguardo; e splendida
Su 'l combattuto lido
Mandò a' suoi figli un grido
Tra l'alpe infida le 'l mar:
E di ridesti popoli
Fremon le valli e i monti,
E su l'erette lfronti
Un sangue e un' alma appar.
Già più non grava i liberi
Viltà di cor le ciglia:
Siam l'itala famiglia
Cui Roma il segno diè.
La forte Emilia abbracciasi
A la gentil Toscana:
Legnano e Gavinana
Sola una patria or è.
L'ombre de' padri sorgono
Raggianti in su gli avelli;
Il sangue de' fratelli
Da' campi al ciel fumò.
Già sotto il piede austriaco
Bolle lampeggia e splende:
Leva, o stranier, le tende:
Il regno tuo cessò.
Piena di fati lun'aura
Da i roman colli move;
La terra e il ciel commove
Le tombe e le città.
In ogni zolla, o barbaro,
A te una pugna attesta
L'antica età ridesta
Con la novella età.
Vedi: Crescenzio i tumuli
Schiude nel suol latino:
Levato in piè Arduino
Incalza il nuovo Otton.
T'incalza il sasso ligure,
La siciliana squilla;
E Procida le Balilla
Accende la tenzon.
Ecco: Ferruccio l'impeto
Ed il furor prepara:
Lo stuol di Montanara
Intorno a lui si tien.
Ne i dolor lunghi pallido
Ecco il sabaudo Alberto:
Gittato ha il manto e 'l serto,
Sol con la spada ei vien
A' varchi infidi cacciano
I tuoi destrieri aneli
Poerio con Mameli,
Manara e Rosarol.
Nero vestiti affrontano
Te del Carroccio i forti.
Tornano i nostri morti,
Tornano a' rai del sol.
De i vecchi e nuovi martiri
La voce si diffonde,
E un grido sol risponde
L'Arno la Dora il Po.
Sola una mente e un'anima
Tutta l'Italia accende:
Leva, o stranier, le tende!
Il regno tuo cessò.
E tu, signor de' liberi,
Re de l'Italia armato,
Ne i voti del senato,
Ne 'l grido popolar,
Sorgi, Vittorio: a l'ultima
Gloria de' regi ascendi;
Al popolo distendi
La mano, ed a l'acciar.
T'accomandiamo i pubblici
Diritti e le fortune,
I talami e le cune,
Le tombe de' maggior:
Vieni, invocato gaudio
A i tardi occhi de' padri,
Speranza de le madri,
De' baldi figli amor.
Vieni: anche i nostri parvoli
A fausti dì crescenti
Te con i dubbi laccenti
Chiaman d'Italia re.
Assai splendesti folgore
Ne' sanguinosi campi,
E de la pugna i lampi
Arsero intorno a te.
Vieni, guerriero e principe,
Tra 'l popolar desio:
Teco è l'Italia e Dio:
Chi contro te starà?
Dio pose te segnacolo
D'una fatal vendetta:
Teco l'Italia affretta
A la promessa età.
Straniero, a le tue vergini
Gran lutto allor sovrasta:
Gitta la spada e l'asta;
Dio gli oppressor fiaccò.
De la vendetta il fulmine
Già l'ale infiamma, e scende.
Leva, o stranier, le tende!
Il regno tuo cessò.

**************

Carnevale

(Voce dai palazzi) E tu se d'echeggianti
Valli o borea, dal grembo, o errando in selva
Di pin canora, o stretto in chiostri orrendi,
Voce d`umani pianti
E sibilo di tibie e de la belva
Ferita il rugghio in mille suoni rendi,
Borea mi piaci. E te, solingo verno,
Là su quell'alpe volentieri io scerno.
Una caligin bianca
Empie l'aer dorrnente, e si confonde
Co 'l pìan nevato a l'orizzonte estremo.
Tenue rosseggia e stanca
Del sol la ruota. e tra i vapor s'asconde,
Com' occhio uman di sue palpèbre scemo.
E non augel, non aura in tra le piante,
Non canto di fanciulla o viandante;
Ma il cigolar de' rami
Sotto il peso ineguale affaticati
E del gel che si fende il suono arguto.
Canti Arcadia le richiami
Zefiro e sua dolce famiglia a i prati
Me questo di natura altiero e muto
Orror più giova. Deh risveglia, Eurilla,
Nel sopito carbon lieta favilla;
Ed in me la serena
Faccia converti e 'l lampeggiar del riso
Che primavera ove si volga adduce.
A la sonante scena
Poi ne attendono i palchi, ove dal viso
De le accolte bellezze ardore e luce
E da le chiome e da gl'inserti fiori
Spira l'april che rinnovella odori.
(Voce dai tuguri ) Oh se co 'l vivo sangue
Del mio cor ristorare io vi potessi,
Gelide membra del figliuolo mie!
Ma inerte il cor mi langue,
E irrigiditi cadono gli amplessi,
E sordo l'uomo ed è tropp'alto Iddio.
O poverello mio, la lacrimosa
Gota a la gota di tua madre posa.
Non de la madre al seno
Il tuo fratel posò: lenta, su 'l varco
Presse gli estremi aliti suoi la neve.
Da l'opra dura, pieno
Il dì, seguiva sotto iniquo carco
I crudeli signor co 'l passo breve;
E co' l'uom congiurava a fargli guerra
L'aere implacato e la difficil terra.
Il nevischio battea
Per i laceri panni il faticoso;
E cadde, e sanguinando in van risorse.
La fame ahi gli emungea
L'ultime forze, e al fin su 'l doloroso
Passo lo vinse; e pia la morte accorse:
Poi cadavero informe e dissepolto
Lo ritornar sotto il materno volto.
Ahimè, con miglior legge
Ripara a schermo da la gelid'aura
Aquila in rupe e belva antica in lustre,
Ed un covil protegge
Tepido i sonni ed il vigor restaura
A i can satolli entro il palagio illustre
Qui presso, dove de l'amor più forte,
Figlio de l'uom, te mena il gelo a morte.
(Voce dalle sale) Mescete, or via mescete
La vendemmia che il Ren vecchia conserva
Di sue cento castella incoronato.
Gorgogli con le liete
Spume a lo sguardo e giù nel sen ci ferva
Quel che il sol ne' tuoi colli ha maturato
Cui ben Giovanna a l'Anglo un dì contese,
di vini e d'eroi Francia cortese.
Poi ne rapisca in giro
La turbinosa danza. Oh di pompose
E bionde e nere chiome ondeggiamenti,
Oh infocato respiro
Che al tuo si mesce, oh disvelate rose,
Oh accorti a fulminare occhi fuggenti;
Mentre per mille suoni a tempra insieme
L'acuta voluttà sospira e geme!
Dolce sfiorar co 'l labro
Le accese guance, e stringer mano a mano
E del seno su 'l sen le vive nevi,
E di sua sorte fabro
Ne l'orecchio deporre il caro arcano
De le sorrise parolette brevi,
E meditar cingendo il fianco a lei
De l'espugnata forma indi i trofei.
Che se di nostre feste
Scorra su l'util plebe il beneficio
E civil carità prenda augumento;
Mercé nostra, il celeste,
Che bene e mal partì, saldo giudicio
Ha di bella pietade alleggiamento.
Noi, del nostro gioir, beata prole,
Rallegriam l'universo a par del sole.
(Voce dalle soffitte) Mancava il pan, mancava
L'opra sottile a reggere la vita;
E al freddo focolar sedea tremando,
E muta mi guardava,
Pallida mi guardava e sbigottita,
La madre: e un lungo giorno iva passando
Che perseguiami quel silenzio e 'l guardo,
Quand'io lassa discesi a passo tardo.
Piovea per la brumale
Nebbia lividi raggi alta la luna
In su 'l trivio lfangoso, e dispariva
Dietro le nubi: tale
Di giovinezza il lume in su la bruna
Mia vita mesto fra i dolor fuggiva.
E la man tesi: e vidimi in conspetto
Osceni ghigni; e in cor mi scese un detto
Immane. Ahi, ma più immane
Me, o superbi, premea la lunga fame
E il guardo e il viso de la madre antica.
Tornai: recai del pane:
Ma tacean del digiuno in me le brame,
Ma sollevare i gravi occhi a fatica
Sostenni; o madre, e nel tuo sen la fronte
Ascosi e del segreto animo l'onte.
Addio, d'un santo amore
Fantasie lacrimate, e voi compagne
Di questa infelicissima fanciulla!
A voi rida il candore
Del vel che la pia madre adorna e piagne,
E 'l pensier ch'erra la studio d'una culla.
Io derelitta io scompagnata seguo
Pur la traccia de l'ombre e mi dileguo.
(Voce di sotterra) Taci, o fanciulla mesta;
Taci, o dolente madre, e l'affamato
Pargol raccheta ne la notte bruna.
Fiammeggia, ecco, la festa
Da' vetri del palagio, ove il beato
De la libera patria ordin s'aduna,
E magistrati e militi tra' suoni
E dotti ed usurier mesce e baroni.
De' tuoi begli anni il fiore,
O fanciulla, intristì, chiedendo in vano
L'aer e l'amor ch'ogni animal desia;
Ma ride in quel bagliore
Di sete e d'òr, che con la bianca mano
La marchesa raccoglie e va giulìa
In danza. Or pianga e aspetti pur, che importa?,
La prostituzione a la tua porta.
Quel che ne la pupilla
Del figliuol tuo gelò supremo pianto
Che tu non rasciugasti, o madre trista,
Gemma s'è fatto e brilla
Tra 'l nero crin de la banchiera. E intanto
Il leggiadro e soave economista
A lei che ride con la rosea bocca
Sentenze e baci dissertando scocca.
Gioite, trionfate,
O felici, o potenti, o larve! E quando
Il sol nuovo la plebe a l'opre caccia,
Uscite e dispiegate,
Pur la mal digerita orgia ruttando
Le vostre pompe a' suoi digiuni in faccia;
E non sognate il dì ch'a l'auree porte
Batta la fame in compagnia di morte.

****************

A Satana

A te, de l'essere
Principio immenso,
Materia e spirito,
Ragione e senso;
Mentre ne' calici
Il vin scintilla
Sì come l'anima
Ne la pupilla;
Mentre sorridono
La terra e il sole
E si ricambiano
D'amor parole,
E corre un fremito
D'imene arcano
Da' monti e palpita
Fecondo il piano;
A te disfrenasi
Il verso ardito,
Te invoco, o Satana,
Re del convito.
Via l'aspersorio,
Prete, e il tuo metro!
No, prete! Satana
Non torna indietro!
Vedi: la ruggine
Rode a Michele
Il brando mistico,
Ed il fedele
Spennato arcangelo
Cade nel vano.
Ghiacciato è il fulmine
A Geova in mano.
Meteore pallide,
Pianeti spenti,
Piovono gli angeli
Da i firmamenti.
Ne la materia
Che mai non dorme,
Re de i fenomeni,
Re de le forme,
Sol vive Satana.
Ei tien l'impero
Nel lampo tremulo
D'un occhio nero,
O ver che languido
Sfugga e resista,
Od acre ed umido
Pròvochi, insista.
Brilla de' grappoli
Nel lieto sangue,
Per cui la rapida
Gioia non langue,
Che la fuggevole
Vita ristora,
Che il dolor proroga,
Che amor ne incora.
Tu spiri, o Satana,
Nel verso mio,
Se dal sen rompemi
Sfidando il dio
De' rei pontefici,
De' re cruenti;
E come fulmine
Scuoti le menti.
A te, Agramainio,
Adone, Astarte,
E marmi vissero
E tele e carte,
Quando le ioniche
Aure serene
Beò la Venere
Anadiomene.
A te del Libano
Fremean le piante!
De l'alma Cipride
Risorto amante
A te ferveano
Le danze e i cori,
A te i virginei
Candidi amori,
Tra le odorifere
Palme d'Idume,
Dove biancheggiano
Le ciprie spume.
Che val se barbaro
Il nazareno
Furor de l'agapi
Dal rito osceno
Con sacra fiaccola
I templi t'arse
E i segni argolici
A terra sparse?
Te accolse profugo
Tra gli dèi lari
La plebe memore
Ne i casolari.
Quindi un femineo
Sen palpitante
Empiendo, fervido
Nurne ed amante,
La strega pallida
D'eterna cura
Volgi a soccorrere
L'egra natura.
Tu a l'occhio immobile
De l'alchimista,
Tu de l'indocile
Mago a la vista,
Del chiostro torpido
Oltre i cancelli,
Riveli i fulgidi
Cieli novelli.
A la Tebaide
Te ne le cose
Fuggendo, il monaco
Triste s'ascose.
dal tuo tramite
Alma divisa,
Benigno è Satana;
Ecco Eloisa.
In van ti maceri
Ne l'aspro sacco:
Il verso ei mormora
Di Maro e Flacco
Tra la davidica
Nenia ed il pianto;
E, forme delfiche,
A te da canto,
Rosee ne l'orrida
Compagnia nera
Mena Licoride,
Mena Glicera.
Ma d'altre imagini
D'età più bella
Talor si popola
L'insonne cella.
Ei, da le pagine
Di Livio, ardenti
Tribuni, consoli,
Turbe frementi
Sveglia; e fantastico
D'italo orgoglio
Te spinge, o monaco,
Su 'l Campidoglio.
E voi, che il rabido
Rogo non strusse,
Voci fatidiche,
Wicleff ed Husse,
A l'aura il vigile
Grido mandate:
S'innova il secolo,
Piena è l'etate.
E già già tremano
Mitre e corone:
Dal chiostro brontola
La ribellione,
E pugna e prèdica
Sotto la stola
Di fra' Girolamo
Savonarola.
Gittò la tonaca
Martin Lutero;
Gitta i tuoi vincoli,
Uman pensiero,
E splendi e folgora
Di fiamme cinto;
Materia, inalzati;
Satana ha vinto.
Un bello e orribile
Mostro si sferra,
Corre gli oceani,
Corre la terra:
Corusco e fumido
Come i vulcani,
I monti supera,
Divora i piani;
Sorvola i baratri;
Poi si nasconde
Per antri incogniti,
Per vie profonde;
Ed esce; e indomito
Di lido in lido
Come di turbine
Manda il suo grido,
Come di turbine
L'alito spande:
Ei passa, o popoli,
Satana il grande.
Passa benefico
Di loco in loco
Su l'infrenabile
Carro del foco.
Salute, o Satana
O ribellione
O forza vindice
De la ragione!
Sacri a te salgano
Gl'incensi e i voti!
Hai vinto il Geova
De i sacerdoti.

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Monia Di Biagio

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Impiego: Scrittrice & Giornalista (Free Lancer)
Sito web: https://www.facebook.c...

MessaggioInviato: Mar Mag 15, 2007 2:51 pm    Oggetto:  Rime scelte di Giosuè Carducci
Descrizione:
Rispondi citando

Per Eduardo Corazzini

Dunque d`Europa nel servil destino
Tu il riso atroce e santo
O di Ferney signore, e, cittadino
Tu di Ginevra, il pianto
Messaggeri inviaste, onde gioioso
Abbatté poi Parigi
E la nera Bastiglia e il radioso
Scettro di san Luigi.
Dunque, tra 'l ferro e 'l fuoco, al piano al monte,
cantando in fieri accenti,
Co' piedi scalzi e la vittoria in fronte
E le bandiere a' venti,
Vide il mondo passar le tue legioni,
O repubblica altera,
E spazzare a sé innanzi altari e troni,
Come fior la bufera;
Perché, su via di sangue e di tenèbre
Smarriti i figli tuoi
E mutata ad un'upupa funèbre
L'aquila de gli eroi,
Là ne colli sabini, esercitati
Dal piè de l'immortale
Storia, tu distendessi i neri agguati,
Masnadiera papale,
E, lui servendo che mentisce Iddio,
Francia, a le madri annose
Tu spegnessi i figliuoli et il desio
Di lor vita a le spose,
E noi per te di pianto e di rossore
Macchiassimo la guancia,
Noi cresciuti al tuo libero splendore,
Noi che t'amammo, o Francia?
Ahi lasso! ma de' tuoi monti a l'aprico
Aer e nel chiostro ameno
Più non ti rivedrò, mio dolce amico,
Come al tempo sereno.
Per l'alpestre cammino io ti seguia;
E 'l tuo fucil di certi
Colpi il silenzio ad or ad or fería
De' valloni deserti.
L'alta Roma io cantava in riva al fiume
Famoso a l'universo:
E il can latrando a le cadenti piume
Rompeva a mezzo il verso,
O a te accennando usciva impaziente
Fuor de la macchia bruna;
Or raspa su la tua fossa recente,
E piagnesi a la luna.
Squallidi or sono i monti: ma l'aprile
Roseo nel ciel natio
Tornerà, che doveva una gentile
Ghirlanda al tuo desio:
E in vece condurrà l'allegra schiera
De gli augelli in amore
Su l'erba ch'alta andrà crescendo e nera
Dal tuo giovenil core.
Perché i bei colli di vendemmia lieti,
Perché lasciasti, amico,
Sfuggendo a' pianti de l'amor segreti
Sur un volto pudico?
Perché la madre tua lasciasti? Oh, quando
A mensa ella sedea,
Il tuo loco guardava, e lacrimando
Il viso rivolgea.
Madre, perdona. A un cenno tuo la testa,
La balda testa ei piega;
Ma il suo duce prigion bandí la gesta,
E la gran Roma prega.
Egli su' trionfali archi diritta
Vide, nel ciel del Lazio,
Di Roma vide l'alta imago, afflitta
D'inverecondo strazio.
Ella che tien del nostro patto l'arca,
L'ara del nostro dritto;
Per cui Dante gemé, fremé il Petrarca,
E 'l Machiavelli ha scritto;
Austera e pia ne la materna faccia
Con lagrimoso ciglio
Lo riguardava, e gli tendea le braccia,
E gli diceva: O figlio.
Ed ei, questo predone (ascolta, o greggia
Turpe di schiavi, ascolta),
Questo predon cui l'Apennin verdeggia
Di lieti paschi e folta
Mèsse, questo feroce a cui nel core
Ridea queto un desire,
Per lei lasciava il suo solingo amore,
Per lei corse a morire.
Ed or ne' luoghi, ove fra sé ristretta
È la gente de i morti
Per forza, e chiama a Dio la gran vendetta
Che il mondo riconforti,
Or co' i caduti là nel giugno ardente
De l'alta Roma a fronte
E co' i caduti nel decembre algente
De' martiri su 'l monte
Parla, e Nemesi al suo ferreo registro
Guarda con muto orrore,
Parla di lui, del Cesare sinistro,
Del bieco imperatore.
Le madri intanto accusano ne' pianti
Del viver tardo i fati
E con le man che gli addormian lattanti
Compongon gli occhi a' nati,
In vece di ghirlande le fanciulle
Vestonsi i neri panni,
Mancan le vite a le aspettanti culle
Maledetti i tiranni!
Ma io per man torrommi questa madre
Vedova, questa sposa
Vedova; e, dove fra sue turbe ladre
Quel prete empio riposa,
E sogna d'armi e ad un selvaggio agguato
Pare che frema e rugga,
E su 'l capo gli penzola inchiodato
Gesù perché non fugga,
Là me n'andrò, là sorgerò, per vie
A tutt'altri secrete,
Come una larva del supremo die
Lento, e dirògli—O prete,
Godi. Di larga strage il breve impero
Empisti e le tue brame.
Trionfa nel tuo splendido San Piero,
vecchio prete infame.
Con le tremule palme al ciel levate
Canta—Osanna, Dio forte—:
L'organo manda per le volte aurate
Un rantolo di morte.
Quando al popol ti volgi, ed—Il Signore,
Mormori, sia con voi,—
Come adultera donna a l'amatore,
Guardi a gli sgherri tuoi.
Su le canne d'acciaio in mezzo a' ceri
L'omicidio scintilla:
Tu 'l vedi, e 'l gaudio vela di sinceri
Pianti la tua pupilla.
China su 'l pio mister che si consuma,
China il tuo viso tristo:
Di sangue, mira, il tuo calice fuma;
E non è quel di Cristo.
Ahi, d'italiche vene è sangue schietto,
Nobile sangue e caro!
E una stilla ve n'ha pur di quel petto
Che queste donne amaro;
Queste donne che dièro a' tuoi decreti
Umile il cuor l'orecchio
Prono; e pregaron anche in lor secreti
Per te, feroce vecchio !
Io, per le grige chiome de la madre
E per le chiome bionde
De la sposa che sciolte or sotto l'adre
Pieghe un sol vel confonde;
Io, per Gesù che a gli uccisor compianse;
Io per le donne sante,
Maddalena che amò, Maria che pianse,
O vecchio sanguinante;
Te ch'oro e ferro e bronzo mendicando
Te ne vai per la terra,
Che gridi contro a la tua patria il bando
De l'universa guerra;
Te che il lor sangue chiedi con parole
Soavi a' fidi tuoi,
Ed il sangue di chi re non ti vuole
Ferocemente vuoi;
Te da la pietà che piange e prega,
Te da l'amor che liete
Le creature ne la vita lega,
Io scomunico, o prete;
Te pontefice fosco del mistero
Vate di lutti e d'ire,
Io sacerdote de l'augusto vero,
Vate de l'avvenire.

*************

In morte di Giovanni Cairoli

O Villagloria, da Crèmera, quando
La luna i colli ammanta,
A te vengono i Fabi, ed ammirando
Parlan de' tuoi settanta.
Tinto del proprio e del fraterno sangue
Giovanni, ultimo amore
De la madre, nel seno almo le langue,
Caro italico fiore.
Il capo omai da l'atra morte avvolto
Levasi; ed improvviso
Trema su 'l bianco ed affilato volto
L'aleggiar d'un sorriso,
L'occhio ne l'infinito apresi, il fere
Da l'avvenire un raggio:
Vede allegre sfilar armi e bandiere
Per un gran pian selvaggio,
E in mezzo il duce glorioso: ondeggia
La luminosa chioma
A l'aure del trionfo: il sol dardeggia
Laggiù in fondo su Roma.
Apri, Roma immortale, apri le porte
Al dolce eroe che muore:
Non mai, non mai ti consacrò la morte,
Roma, un più nobil core.
Del cor suo dal bordel il venda un fallito
Cetégo la parola,
Eruttando che il tuo gran nome è un mito
Per le panche di scola:
Al divieto straniero adagi Ciacco
L'anima tributaria
Su l'altro lato, e dica—Io son vigliacco,
E poi c'è la mal'aria -:
Per te in seno a le madri, ecco, la morte
Divora altri figliuoli:
Apri, Roma immortale, apri le porte
A Giovan Cairoli.
Egli, ombra vigilante e i dí novelli,
Il tuo silenzio antico
Abiterà co' Gracchi e co' Marcelli
E co 'l suo forte Enrico.
L'ali un dí spiegherà su 'l Campidoglio
La libertà regina:
Groppello, allor da ogni ultimo scoglio
De la terra latina,
E giù da l'Alpi e giù da gli Apennini,
Garzoni e donne a schiera
Verranno a te, fiorite i lunghi crini
D'aulente primavera.
E con lor sarà un vate, radioso
Ne la fronte divina,
Come Sofocle già nel glorioso
Trofeo di Salamina
Ei toccherà le corde, e de i fratelli
Dirà la santa gesta;
Né mai la canzon ionia a' dí piú belli
Risonò come questa.
Groppello, a te co 'l solitario canto
Nel mesto giorno io vegno
E m'accompagna de l'Italia il pianto
E, nube atra, lo sdegno:
Nel mesto giorno che la quarta volta
Te visitò la Parca,
E sott'essa la tua funerea volta
Batte il martel su l'arca
Del giovinetto, la cui mite aurora
Empiva i Clivi tuoi
Di roseo lume. Oh come sola è ora
La casa de gli eroi!
De le sue stanze pe 'l deserto strano
S'incontran due viventi:
Tristi echi rende il sepolcreto vano
Sotto i lor passi lenti:
Avvalla il figlio de la madre in faccia
Il viso e gli occhi muti,
Che non rivegga in lui la cara traccia
De' suoi quattro perduti.
O madre, o madre, a i dí de la speranza
Dal tuo grembo fecondo
Cinque valenti uscieno: ecco, t'avanza
Oggi quest'uno al mondo.
L'alma benigna nel sereno viso
Splendea di que' gagliardi,
Come del sol di giugno il vasto riso
Sovra i laghi lombardi.
Ahi, ahi! de gli stranier tutte le spade
La carne tua gustaro!
Ahi, ahi ! d'Italia tutte le contrade
Del cor tuo sanguinaro!
Qual cor fu il tuo, quando l'estremo spiro,
O madre de gli eroi,
Di lui ti rinnovò tutto il martiro
Di tutti i figli tuoi!
Or su le tombe taciturne siedi,
O donna de i dolori,
E i dí estremi volar sopra ti vedi
Come liberatori.
Qui cinque addur nuore dovevi a' nati,
Madre gentile e altera;
Cara speme di prole a' tuoi penati
Ed a la patria: e nera
Suoi segni stende per le avite stanze
La morte. Ma d'augúri
Rifulgon liete e suonano di danze
Le case de' Bonturi.
Corre ivi a fiotti il vino, e sangue sembra;
L'orgia a le fami insulta;
De le adultere ignude in su le membra
La libidine esulta.
I barcollanti amori, in mal feconde
Scosse, d'obliqua prole
Seminan tutte queste serve sponde,
Ed oltraggiano il sole.
E il tradimento e la vigliaccheria
Sì come cani in piazza,
Ivi s'accoppian anche: ebra la ria
Ciurma intorno gavazza,
E i viva urla a l'Italia. Maledetta
Sii tu, mia patria antica,
Su cui l'onta de l'oggi e la vendetta
De i secoli s'abbica!
La pianta di virtú qui cresce ancora,
Ma per farsene strame
I muli tuoi: qui la viola odora
Per divenir letame.
Oh, risvegliar che val l'ira de i forti,
Di Dante padre l'ira?
Solingo vate, in su l'urne de' morti
Io vo' spezzar la lira.
Accoglietemi, udite, o de gli eroi
Esercito gentile:
Triste novella io recherò fra voi:
La nostra patria è vile.

*****************

Avanti! Avanti!

Avanti, avanti, o sauro destrier de la canzone!
L'aspra tua chioma porgimi, ch'io salti anche in arcione
Indomito destrier.
A noi la polve e l'ansia del corso, e i rotti venti,
E il lampo de le selici percosse, e de i torrenti
L'urlo solingo e fier.
I bei ginnetti italici han pettinati crini,
Le constellate e morbide aiuole de' giardini
Sono il lor dolce agon:
Ivi essi caracollano in faccia a i loro amori,
La giuba a tempo fluttua vaga tra i nastri e i fiori
De le fanfare al suon;
E, se lungi la polvere scorgon del nostro corso,
Il picciol collo inarcano e masticando il morso
Par che rignino - Ohibò !-
Ma l'alfana che strascica su l'orlo de la via
Sotto gualdrappe e cingoli la lunga anatomia
D'un corpo che invecchiò,
Ripensando gli scalpiti de' corteggi e le stalle
De' tepid'ozi e l'adipe de la pasciuta valle,
Guarda con muto orror.
E noi corriamo a' torridi soli, a' cieli stellati,
Per note plaghe e incognite, quai cavalier fatati,
Dietro un velato amor.
Avanti, avanti, o sauro destrier, mio forte amico!
Non vedi tu le parie forme del tempo antico
Accennarne colà ?
Non vedi tu d'Angelica ridente, o amico, il velo
Solcar come una candida nube l'estremo cielo?
Oh gloria, oh libertà!
(II) Ahi, da' prim'anni, o gloria, nascosi del mio cuore
Ne' superbi silenzii il tuo superbo amore.
Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor
Mi sfolgorar da' gelidi marmi nel petto un raggio,
Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio
E i lampi de' bianchi omeri sotto le chiome d'òr.
E tutto ciò che facile allor prometton gli anni
Io 'l diedi per un impeto lacrimoso d'affanni,
Per un amplesso aereo in faccia a l'avvenir.
O immane statua bronzea su dirupato monte,
Solo i grandi t'aggiungono, per declinar la fronte
Fredda su 'l tuo fredd'omero e lassi ivi morir.
A più frequente palpito di umani odii e d'amori
Meglio il petto m'accesero ne' lor severi ardori
Ultime dee superstiti giustizia e libertà;
E uscir credeami italico vate a la nuova etade,
Le cui strofe al ciel vibrano come rugghianti spade,
E il canto, ala d'incendio, divora i boschi e va.
Ahi, lieve i duri muscoli sfiora la rima alata!
Co 'l tuon de l'arma ferrea nel destro pugno arcata,
Gentil leopardo lanciasi Camillo Demulèn,
E cade la Bastiglia. Solo Danton dislaccia,
Per rivelarti a' popoli, con le taurine braccia,
repubblica vergine, l'amazonio tuo sen.
A noi le pugne inutili. Tu cadevi, o Mameli,
Con la pupilla cerula fisa a gli aperti cieli
Tra un inno e una battaglia cadevi; e come un fior
Ti rideva da l'anima la fede allor che il bello
E biondo capo languido chinavi, e te, fratello,
Copria l'ombra siderea di Roma e i tre color;
Ed al fuggir de l'anima su la pallida faccia
Protendea la repubblica santa le aperte braccia
Diritta in fra i romulei colli e l'occiduo sol.
Ma io d'intorno premere veggo schiavi e tiranni,
Ma io su 'l capo stridere m'odo fuggenti gli anni
—Che mai canta, susurrano, costui torbido e sol?
Ei canta e culla i queruli mostri de la sua mente,
E quel che vive e s'agita nel mondo egli non sente.—
O popolo d'Italia, vita del mio pensier,
O popolo d'Italia, vecchio titano ignavo,
Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo;
E de' miei versi funebri t'incoroni il bicchier.
(III) Avanti, avanti, o indomito destrier de gl' inni alato !
Obliar vo' nel rapido corso l'inerte fato,
I gravi e oscuri dí.
Ricordi tu, bel sauro, quando al tuo primo salto
I falchi salutarono augurando ne l'alto
E il bufolo muggí?
Ricordi tu le vedove piagge del mar toscano,
Ove china su 'l nubilo inseminato piano
La torre feudal
Con lunga ombra di tedio da i colli arsicci e foschi
Veglia de le rasenie cittadi in mezzo a' boschi
Il sonno sepolcral,
Mentre tormenta languido sirocco gli assetati
Caprifichi che ondeggiano su i gran massi quadrati
Verdi tra il cielo e il mar,
Su i gran massi cui vigile il mercator tirreno
Saliva, le fenicie rosse vele nel seno
Azzurro ad aspettar?
Ricordi Populonia, e Roselle, e la fiera
Torre di Donoratico a la cui porta nera
Conte Ugolin bussò
Con lo scudo e con l'aquile a la Meloria infrante,
Il grand'elmo togliendosi da la fronte che Dante
Ne l'inferno ammirò?
Or (dolce a la memoria) una quercia su 'l ponte
Levatoio verdeggia e bisbiglia, e del conte
Novella il cacciator
Quando al purpureo vespero su la bertesca infida
I falchetti famelici empiono il ciel di strida
E il can guarda al clamor.
Là tu crescesti, o sauro destrier de gl'inni, meco;
E la pietra pelasgica ed il tirreno speco
Furo il mio solo altar
E con me nel silenzio meridian fulgente
I lucumoni e gli àuguri de la mia prima gente
Veniano a conversar.
E tu pascevi, o alivolo corridore, la biada
Che ne' solchi de i secoli aperti con la spada
Del console roman
Dante, etrusco pontefice redivivo, gettava;
Onde al cielo il tuo florido terzo maggio esultava,
Comune italian,
Tra le germane faide e i salmi nazareni
Esultava nel libero lavoro e ne i sereni
Canti de' mietitor.
Chi di quell'orzo il pascesi, o nobile corsiero,
Ha forti nervi e muscoli, ha gentile ed intero
Nel sano petto il cor.
Dammi or dunque, apollinea fiera, l'alato dorso:
Ecco, tutte le redini io ti libero al corso:
Corriam, fiera gentil.
Corriam de gli avversarii sovra le teste e i petti,
De' mostri il sangue imporpori i tuoi ferrei garetti;
E a noi rida l'april,
L'april de' colli italici vaghi di mèssi e fiori,
L'april santo de l'anima piena di nuovi amori,
L'aprile del pensier.
Voliam, sin che la folgore di Giove tra la rotta
Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta
Cavallo e cavalier,
O ch'io discenda placido dal tuo stellante arcione,
Con l'occhio ancora gravido di luce e visione,
Su 'l toscano mio suol,
Ed al fraterno tumolo posi da la fatica,
Gustando tu il trifoglio da una bell'urna antica
Verso il morente sol.

********************

Giuseppe Mazzini

Qual da gli aridi scogli erma su 'l mare
Genova sta, marmoreo gigante,
Tal, surto in bassi dí, su 'l fluttuante
Secolo, ei grande, austero, immoto appare.
Da quelli scogli, onde Colombo infante
Nuovi pe 'l mar vedea mondi spuntare,
Egli vide nel ciel crepuscolare
Co 'l cuor di Gracco ed il pensier di Dante
La terza Italia; e con le luci fise
A lei trasse per mezzo un cimitero,
E un popol morto dietro a lui si mise.
Esule antico, al ciel mite e severo
Leva ora il volto che giammai non rise,
—Tu sol—pensando—o ideal, sei vero.

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Monia Di Biagio

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MessaggioInviato: Mar Mag 15, 2007 2:57 pm    Oggetto:  Rime scelte di Giosuè Carducci
Descrizione:
Rispondi citando

Virgilio

Come, quando su' campi arsi la pia
Luna imminente il gelo estivo infonde,
Mormora al bianco lume il rio tra via
Riscintillando tra le brevi sponde;
E il secreto usignuolo entro le fronde
Empie il vasto seren di melodia,
Ascolta il viatore ed a le bionde
Chiome che amò ripensa, e il tempo oblia;
Ed orba madre, che doleasi in vano,
Da un avel gli occhi al ciel lucente gira
E in quel diffuso albor l'animo queta;
Ridono in tanto i monti e il mar lontano,
Tra i grandi arbor la fresca aura sospira:
Tale il tuo verso a me, divin poeta.

***************

Agli amici della Valle Tiberina

Pur da queste serene erme pendici
D'altra vita al rumor ritornerò;
Ma nel memore petto, o nuovi amici,
Un desio dolce e mesto io porterò.
Tua verde valle ed il bel colle aprico
Sempre, o Bulcian, mi pungerà d'amor;
Bulciano, albergo di baroni antico,
Or di libere menti e d'alti cor.
E tu che al cielo, Cerbaiol, riguardi
Discendendo da i balzi d'Apennin,
Come gigante che svegliato tardi
S'affretta in caccia e interroga il mattin,
Tu ancor m'arridi. E, quando a i freschi venti
Di su l'aride carte anelerà
L'anima stanca, a voi, poggi fiorenti,
Balze austere e felici, a voi verrà.
Fiume famoso il breve piano inonda;
Ama la vite i colli; e, a rimirar
Dolce, fra verdi querce ecco la bionda
Spiga in alto a l'alpestre aura ondeggiar.
De i vecchi prepotenti in su gli spaldi
Pasce la vacca e mira lenta al pian;
E de le torri, ostello di ribaldi,
Crebbe l'utile casa al pio villan.
Dove il bronzo de' frati in su la sera
Solo rompeva, od accrescea, l'orror,
Croscia il mulino, suona la gualchiera
E la canzone del vendemmiator.
Coraggio, amici. Se di vive fonti
Corse, tocco dal santo, il balzo alpin,
A voi saggi ed industri i patrii monti
Iscaturiscan di fumoso vin:
Del vin ch'edúca il forte suolo amico
Di ferro e zolfo con natia virtú:
Col quale io libo al padre Tebro antico,
Al Tebro tolto al fin di servitù.
Fiume d'Italia, a le tue sacre rive
Peregrin mossi con devoto amor
Il tuo nume adorando, e de le dive
Memorie l'ombra mi tremava in cor.
E pensai quanto i tuoi clivi Tarconte
Coronato pontefice salì,
E, fermo l'occhio nero a l'orizzonte,
Di leggi e d'armi il popol suo partì;
E quando la fatal prora d'Enea
Per tanto mar la foce tua cercò,
E l'aureo scudo de la madre dea
In su l'attonit'onde al sol raggiò;
E quando Furio e l'arator d'Arpino,
Imperador plebeo, tornava a te,
E coprivan l'altar capitolino
Spoglie di galli e di tedeschi re.
Fiume d'Italia, e tu l'origin traggi
Da questa Etruria ond'è ogni nostro onor;
Ma, dove nasci tra gli ombrosi faggi,
L'agnel ti salta e túrbati il pastor.
Meglio cosí, che tra marmoree sponde
Patir l'oltraggio de' chercuti re,
E con l'orgoglio de le tumid'onde
L'orme lambire d'un crociato piè.
Volgon, fiume d'Italia, omai tropp'anni
Che la vergogna dura: or via, non piú.
Ecco, un grido io ti do—Morte a' tiranni —;
Portalo, o fiume, a Ponte Milvio, tu.
Portal con suono ch'ogni suon confonda,
Portal con le procelle d'Apennin,
Portalo, o fiume; e un'eco ti risponda
Dal gran monte plebeo, da l'Aventin.
Tende l'orecchio Italia e il cenno aspetta:
Allor chi fia che la vorrà infrenar ?
Cento schiere di prodi a la vendetta
Da le tue valli verran teco al mar.
Risplendi, o fausto giorno. Ahi, se piú tardi,
Romito e taumaturgo esser vorrò:
Da la faccia de' rei figli codardi
Ne le tombe de' padri io fuggirò.
Con l'arti vo' che cielo o inferno insegna
Da questi monti il foco isprigionar,
E fiamme in vece d'acqua a Roma indegna,
Al Campidoglio vile io vo' mandar.

**************

Funere mersit acerbo

O tu che dormi là su la fiorita
Collina tosca, e ti sta il padre a canto;
Non hai tra l'erbe del sepolcro udita
Pur ora una gentil voce di pianto ?
È il fanciulletto mio, che a la romita
Tua porta batte: ei che nel grande e santo
Nome te rinnovava, anch'ei la vita
Fugge, o fratel, che a te fu amara tanto.
Ahi no! giocava per le pinte aiole,
E arriso pur di vision leggiadre
L'ombra l'avvolse, ed a le fredde e sole
Vostre rive lo spinse. Oh, giú ne l'adre
Sedi accoglilo tu, ché al dolce sole
Ei volge il capo ed a chiamar la madre.

***************

Il sonetto

Dante il mover gli diè del cherubino
E d'aere azzurro e d'òr lo circonfuse:
Petrarca il pianto del suo cor, divino
Rio che pe' versi mormora, gl'infuse.
La mantuana ambrosia e 'l venosino
Miel gl'impetrò da le tiburti muse
Torquato; e come strale adamantino
Contro i servi e' tiranni Alfier lo schiuse.
La nota Ugo gli diè de' rusignoli
Sotto i ionii cipressi, e de l'acanto
Cinsel fiorito a' suoi materni soli.
Sesto io no, ma postremo, estasi e pianto
E profumo, ira ed arte, a' miei dí soli
Memore innovo ed a i sepolcri canto.

***************

Pianto antico

L'albero a cui tendevi
La pargoletta mano,
Il verde melograno
Da' bei vermigli fiori
Nel muto orto solingo
Rinverdì tutto or ora,
E giugno lo ristora
Di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta
Percossa e inaridita,
Tu de l'inutil vita
Estremo unico fior,
Sei ne la terra fredda,
Sei ne la terra negra;
Né il sol piú ti rallegra
Né ti risveglia amor.

*************

Eolia

Lina, brumaio torbido inclina,
Ne l'aer gelido monta la sera:
E a me ne l'anima fiorisce, o Lina,
La primavera.
In lume roseo, vedi, il nivale
Fedriade vertice sorge e sfavilla,
E di Castalia l'onda vocale
Mormora e brilla.
Delfo a' suoi tripodi chiaro sonanti
Rivoca Apolline co' nuovi soli,
Con i virginei peana e i canti
De' rusignoli.
Da gl'iperborei lidi al pio suolo
Ei riede, a' lauri dal pigro gelo:
Due cigni il traggono candidi a volo:
Sorride il cielo.
Al capo ha l'aurea benda di Giove;
Ma nel crin florido l'aura sospira
E con un tremito d'amor gli move
In man la lira.
D'intorno girano come in leggera
Danza le Cicladi patria del nume,
Da lungi plaudono Cipro e Citera
Con bianche spume.
E un lieve il séguita pe 'l grande Egeo
Legno, a purpuree vele, canoro:
Armato règgelo per l'onde Alceo
Dal plettro d'oro.
Saffo dal candido petto anelante
A l'aura ambrosia che dal dio vola,
Dal riso morbido, da l'ondeggiante
Crin di viola,
In mezzo assidesi. Lina, quieti
I remi pendono: sali il naviglio.
Io, de gli eolii sacri poeti
Ultimo figlio,
Io meco traggoti per l'aure achive:
Odi le cetere tinnir: montiamo:
Fuggiam le occidue macchiate rive,
Dimentichiamo.

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MessaggioInviato: Mar Mag 15, 2007 3:05 pm    Oggetto:  Rime scelte di Giosuè Carducci
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Rispondi citando

Alessandrina

Gelido il vento pe' lunghi e candidi
Intercolonnii fería; su' tumuli
Di garzonetti e spose
Rabbrividian le rose
Sotto la pioggia, che, lenta, assidua,
Sottil, da un grigio cielo di maggio
Battea con faticoso
Metro il piano fangoso;
Quando, percossa d'un lieve tremito,
Ella il bel velo d'intorno a gli omeri
raccolto al seno avvinse
E tutta a me si strinse:
Voluttuosa ne l'atto languido
Tra i gotici archi, quale tra' larici
Gentil palma volgente
Al nativo oriente.
Guardò serena per entro i lugubri
Luoghi di morte; levò la tenue
Fronte, pallida e bella,
Tra le floride anella
Che a l'agil collo scendendo incaute
Tutta di molle fulgor la irradiano:
E piovvemi nel cuore
Sguardi e accenti d'amore
Lunghi, soavi, profondi: eolia
Cetra non rese piú dolci gemiti
Mai né sì molli spirti
Di Lesbo un dí tra i mirti.
Su i muti in tanto marmi la serica
Vesta strisciava con legger sibilo,
Spargéanmi al viso i venti
Le sue chiome fluenti.
Non mai le tombe sí belle apparvero
A me nei primi sogni di gloria
Oh amor, solenne e forte
Come il suggel di morte!
Oh delibato fra i sospir trepidi
Su i cari labri fiore de l'anima
E intraviste ne' baci
Interminate paci!
Oh favolosi prati d'Elisio,
Pieni di cetre, di ludi eroici
E del purpureo raggio
Di non fallace maggio,
Ove in disparte bisbigliando errano
(Né patto umano né destin ferreo
L'un da l'altra divelle)
I poeti e le belle!

**************

Il bove

T'amo, o pio bove; e mite un sentimento
Di vigore e di pace al cor m'infondi,
O che solenne come un monumento
Tu guardi i campi liberi e fecondi,
0 che al giogo inchinandoti contento
L'agil opra de l'uom grave secondi:
Ei t'esorta e ti punge, e tu co 'l lento
Giro de' pazienti occhi rispondi.
Da la larga narice umida e nera
Fuma il tuo spirto, e come un inno lieto
Il mugghio nel sereno aer si perde;
E del grave occhio glauco entro l'austera
Dolcezza si rispecchia ampio e quieto
Il divino del pian silenzio verde.

***************

Idillio Maremmano

Co 'l raggio de l'april nuovo che inonda
Roseo la stanza tu sorridi ancora
Improvvisa al mio cuore, o Maria bionda;
E il cuor che t'obliò, dopo tant'ora
Di tumulti oziosi in te riposa,
O amor mio primo, o d'amor dolce aurora.
Ove sei ? senza nozze e sospirosa
Non passasti già tu: certo il natio
Borgo ti accoglie lieta madre e sposa;
Ché il fianco baldanzoso ed il restio
Seno a i freni del vel promettean troppa
Gioia d'amplessi al marital desio.
Forti figli pendean da la tua poppa
Certo, ed or baldi un tuo sguardo cercando
Al mal domo caval saltano in groppa.
Com'eri bella, o giovinetta, quando
Tra l'ondeggiar de' lunghi solchi uscivi
Un tuo serto di fiori in man recando,
Alta e ridente, e sotto i cigli vivi
Di selvatico fuoco lampeggiante
Grande e profondo l'occhio azzurro aprivi!
Come 'l ciano seren tra 'l biondeggiante
Òr de le spiche, tra la chioma flava
Fioria quell'occhio azzurro; e a te d'avante
La grande estate, e intorno, fiammeggiava;
Sparso tra' verdi rami il sol ridea
Del melogran, che rosso scintillava.
Al tuo passar, siccome a la sua dea,
Il bel pavon l'occhiuta coda apria
Guardando, e un rauco grido a te mettea.
Oh come fredda indi la vita mia,
Come oscura e incresciosa è trapassata!
Meglio era sposar te, bionda Maria!
Meglio ir tracciando per la sconsolata
Boscaglia al piano il bufolo disperso,
Che salta fra la macchia e sosta e guata,
Che sudar dietro al piccioletto verso!
Meglio oprando obliar, senza indagarlo,
Questo enorme mister de l'universo!
Or freddo, assiduo, del pensiero il tarlo
Mi trafora il cervello, ond'io dolente
Misere cose scrivo e tristi parlo.
Guasti i muscoli e il cuor da la rea mente,
Corrose l'ossa dal malor civile,
Mi divincolo in van rabbiosamente.
Oh lunghe al vento sussurranti file
De' pioppi! oh a le bell'ombre in su 'l sacrato
Ne i dí solenni rustico sedile,
Onde bruno si mira il piano arato
E verdi quindi i colli e quindi il mare
Sparso di vele, e il campo santo è a lato!
Oh dolce tra gli eguali il novellare
Su 'l quieto meriggio, e a le rigenti
Sere accogliersi intorno al focolare!
Oh miglior gloria, a i figliuoletti intenti
Narrar le forti prove e le sudate
Cacce ed i perigliosi avvolgimenti
Ed a dito segnar le profondate
Oblique piaghe nel cignal supino,
Che proseguir con frottole rimate
I vigliacchi d'Italia e Trissottino.

*************

Nostalgia

Tra le nubi ecco il turchino
Cupo ed umido prevale:
Sale verso l'Apennino
Brontolando il temporale.
Oh se il turbine cortese
Sovra l'ala aquilonar
Mi volesse al bel paese
Di Toscana trasportar!
Non d'amici o di parenti
Là m'invita il cuore e il volto:
Chi m'arrise a i dí ridenti
Ora è savio od è sepolto.
Né di viti né d'ulivi
Bel desio mi chiama là:
Fuggirei da' lieti clivi
Benedetti d'ubertà.
De le mie cittadi i vanti
E le solite canzoni
Fuggirei: vecchie ciancianti
A marmorei balconi!
Dove raro ombreggia il bosco
Le maligne crete, e al pian
Di rei sugheri irto e fosco
I cavalli errando van.
Là in maremma ove fiorío
La mia triste primavera,
Là rivola il pensier mio
Con i tuoni e la bufera:
Là nel ciel nero librarmi
La mia patria a riguardar,
Poi co 'l tuon vo' sprofondarmi
Tra quei colli ed in quel mar.

*******************

La sacra di Enrico V

Quando cadono le foglie, quando emigrano gli augelli
E fiorite a' cimiteri son le pietre de gli avelli,
Monta in sella Enrico quinto il delfin da' capei grigi,
E cavalca a grande onore per la sacra di Parigi.
Van con lui tutt'i fedeli, van gli abbati ed i baroni:
Quanta festa di colori, di cimieri e di pennoni!
Monta Enrico un caval bianco, presso ha il bianco suo stendardo
Che coprí morenti in campo San Luigi e il pro' Baiardo.
Viva il re! Ma il ciel di Francia non conosce il sacro segno;
E la seta vergognosa si ristringe intorno al legno.
Piú che mai su gli aurei gigli bigio il cielo e freddo appare:
Con la pace de gli scheltri stanno gli alberi a guardare;
E gli augelli, senza canto, senza rombo, tristi e neri,
Guizzan come frecce stanche tra i pennoni ed i cimieri.
Viva il re! Ma i lieti canti ne le trombe e ne le gole
Arrochiscono, ed aggelano su le bocche le parole.
Arrochiscono; ed un rantolo faticoso d'agonia
Par che salga su da' petti de l'allegra compagnia.
Cresce l'ombra de le nubi, si distende su la terra,
Ed un'umida tenebra quel corteggio avvolge e serra.
Dan di sprone i cavalieri, i cavalli springan salti:
Sotto l'ugne percotenti suon non rendono i basalti.
Manca l'aria; e, come attratti i cavalli e le persone
Ne la plumbea d'un sogno infinita regione,
Arrembando ed arrancando per gli spazi sordi e bigi
Marcian con le immote insegne per entrare a San Dionigi. Viva il re! Giú da i profondi sotterranei de la chiesa
Questa voce di saluto come un brontolo fu intesa:
E da l'ossa che in quei campi la repubblica disperse
Una nube di fumacchi si formava, e fuori emerse
Uno stuolo di fantasmi: donne, pargoli, vegliardi,
Conti, vescovi, marchesi, duchi, monache, bastardi;
Tutti principi del sangue: tronchi, mozzi, cincischiati,
In zendadi a fiordiligi stranamente avvoltolati.
Entro i teschi aguzzi e mondi che parean d'avorio fino
Luccicavano le occhiaie d'un sottil fuoco azzurrino.
Qual brandiva, salutando, un cappel bianco piumato,
Con un gracil moncherino che solo eragli avanzato;
Qual con una tibia sola disegnava un minuetto;
Qual con mezza una mascella digrignava un sorrisetto.
Tutt'a un tratto quel movente di maligni ossami stuolo
Scricchiolando e sgretolando si levò per l'aria a volo;
Ed intorno a l'orifiamma dispiegante i gigli gialli
Sgambettando e cianchettando intessea carole e balli,
Ed intorno a l'orifiamma sventolante i gigli d'oro
Sibilando e bofonchiando intonava questo coro.
— Ben ne venga il delfin grigio nel reame ove a' Borboni
Né pur morte guarentisce fide o pie le sue magioni.
Passerem dal Ponte Nuovo. Venga a scior la sua promessa
Co 'l re grande che Parigi guadagnò per una messa,
E nel marmo anche par senta co' mustacchi intirizziti
Caldo il colpo e freddo il ghiaccio del pugnal de' gesuiti.
Marceremo a Nostra Donna. Mitriati e porporati
Tre arcivescovi i loro sonni per accoglierne han lasciati.
Su l'entrata sta solenne con l'asperges d'oro in pugno
Quel che tinse del suo sangue gli arsi lastrici di giugno.
In disparte ginocchioni veglia a dire le secrete
Quel che spento fu in sacrato per le mani d'un suo prete.
Benedice la corona del figliuol di San Luigi
Quel che giacque sotto il piombo del comune di Parigi.
Tristi cose. Al men tuo padre (son cortesi i giacobini)
Nel palchetto d'un teatro morì al suon de' violini.
Coprì l'onda de l'orchestra la real confessione,
Salí Cristo in sacramento tra le maschere al veglione.
Farem gala a quel teatro noi borbonica tregenda:
Da quel palco (Iddio ti salvi!) move, o re, la tua leggenda. —
Cosí strilla sghignazzando via pe 'l grigio aere la scorta.
Ma cavalca il quinto Enrico dritto e fermo in vèr' la porta.
Su la porta di Parigi co 'l bacile d'oro in mano
A l'omaggio de le chiavi sta parato un castellano.
Ei non guarda, non fa cenno di saluto, non procede:
Un'antica e fatal noia su le grosse membra siede.
Erto il capo e 'l guardo teso, ma l'orgoglio non vi raggia:
Una tenue per il collo striscia rossa gli viaggia.
Non pare ordine o collare che il re doni al suo fedele:
Non è quel di San Luigi, non è quel di San Michele.
Al passar d'Enrico, ei move a test'alta e regalmente;
Fende in mezzo il gran corteggio: ciascun vede e niun lo sente.
È a la staffa già d'Enrico; ma non piega ad atto umíle,
E tien dritto e fermo il collo mentre leva su il bacile.
— Ben ne venga mio nipote, l'ultim'uom de la famiglia!
Queste chiavi ch'io ti porgo fur catene a la Bastiglia.
Tali al Tempio io le temprava. — Con l'offerta fa l'inchino.
Ed il capo de l'offrente rotolava nel bacino;
Ed il capo di Luigi con l'immobile occhio estinto
Boccheggiante nel bacino riguardava Enrico quinto.

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Monia Di Biagio

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SCRITTURALI


Età: 49
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Monia Di Biagio is offline 

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Impiego: Scrittrice & Giornalista (Free Lancer)
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MessaggioInviato: Mar Mag 15, 2007 3:13 pm    Oggetto:  Rime scelte di Giosuè Carducci
Descrizione:
Rispondi citando

Davanti a San Guido

I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardar.
Mi riconobbero, e— Ben torni omai —
Bisbigliaron vèr' me co 'l capo chino —
Perché non scendi ? Perché non ristai ?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.
Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d'una volta: oh non facean già male!
Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido cosí ?
Le passere la sera intreccian voli
A noi d'intorno ancora. Oh resta qui! —
— Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d'un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei—
Guardando lor rispondeva — oh di che cuore !
Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire:
Or non è piú quel tempo e quell'età.
Se voi sapeste!... via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.
E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:
Non son piú, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro piú.
E massime a le piante. — Un mormorio
Pe' dubitanti vertici ondeggiò
E il dí cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.
Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe' parole:
— Ben lo sappiamo: un pover uom tu se'.
Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.
A le querce ed a noi qui puoi contare
L'umana tua tristezza e il vostro duol.
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!
E come questo occaso è pien di voli,
Com'è allegro de' passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;
I rei fantasmi che da' fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.
Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l'ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l'ardente pian,
Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co 'l lor bianco velo;
E Pan l'eterno che su l'erme alture
A quell'ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà. —
Ed io—Lontano, oltre Apennin, m'aspetta
La Tittí — rispondea; — lasciatem'ire.
È la Tittí come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.
E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! —
— Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? —
E fuggíano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.
Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giú de' cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia:
La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l'ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch'è sí sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,
Canora discendea, co 'l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità.
O nonna, o nonna! deh com'era bella
Quand'ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest'uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!
— Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:
Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.
— Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio cosí.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,
Sotto questi cipressi, ove non spero,
Ove non penso di posarmi piú:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.
Ansimando fuggía la vaporiera
Mentr'io cosí piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.
Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.

****************

Tedio invernale

Ma ci fu dunque un giorno
Su questa terra il sole?
Ci fur rose e viole,
Luce, sorriso, ardor?
Ma ci fu dunque un giorno
La dolce giovinezza,
La gloria e la bellezza,
Fede, virtude, amor ?
Ciò forse avvenne a i tempi
D'Omero e di Valmichi:
Ma quei son tempi antichi,
Il sole or non è piú.
E questa ov'io m'avvolgo
Nebbia di verno immondo
È il cenere d'un mondo
Che forse un giorno fu.

**************

Fantasia

Tu parli; e, de la voce a la molle aura
lenta cedendo, si abbandona l'anima
del tuo parlar su l'onde carezzevoli,
e a strane plaghe naviga.
Naviga in un tepor di sole occiduo
ridente a le cerulee solitudini:
tra cielo e mar candidi augelli volano,
isole verdi passano,
e i templi su le cime ardui lampeggiano
di candor pario ne l'occaso roseo,
ed i cipressi de la riva fremono,
e i mirti densi odorano.
Erra lungi l'odor su le salse aure
e si mesce al cantar lento de' nauti,
mentre una nave in vista al porto ammaina
le rosse vele placida.
Veggo fanciulle scender da l'acropoli
in ordin lungo; ed han bei pepli candidi,
serti hanno al capo, in man rami di lauro,
tendon le braccia e cantano.
Piantata l'asta in su l'arena patria,
a terra salta un uom ne l'armi splendido:
è forse Alceo da le battaglie reduce
a le vergini lesbie?

*****************

Alla stazione in una mattina d'Autunno

Oh quei fanali come s'inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su 'l fango!
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d'autunno
come un grande fantasma n'è intorno.
Dove e a che move questa, che affrettasi
a' carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl'istanti gioiti e i ricordi.
Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili
com'ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati rendono un lugubre
rintocco lungo: di fondo a l'anima
un'eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l'ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su' vetri la pioggia.
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe 'l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
Va l'empio mostro; con traino orribile
sbattendo l'ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e 'l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.
O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra' floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!
Fremea la vita nel tepid'aere,
fremea l'estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso
in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un'aureola
piú belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.
Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com'ebro, e mi tocco,
non anch'io fossi dunque un fantasma.
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l'anima!
Io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.
Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere,
meglio quest'ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.

*************

Alle fonti del Clitumno

Ancor dal monte, che di foschi ondeggia
frassini al vento mormoranti e lunge
per l'aure odora fresco di silvestri
salvie e di timi,
scendon nel vespero umido, o Clitumno,
a te le greggi: a te l'umbro fanciullo
la riluttante pecora ne l'onda
immerge, mentre
vèr' lui dal seno de la madre adusta,
che scalza siede al casolare e canta,
una poppante volgesi e dal viso
tondo sorride:
pensoso il padre, di caprine pelli
l'anche ravvolto come i fauni antichi,
regge il dipinto plaustro e la forza
de' bei giovenchi,
de' bei giovenchi dal quadrato petto,
erti su 'l capo le lunate corna,
dolci ne gli occhi, nivei, che il mite
Virgilio amava.
Oscure intanto fumano le nubi
su l'Apennino: grande, austera, verde
da le montagne digradanti in cerchio
l'Umbria guarda.
Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte
nume Clitumno! Sento in cuor l'antica
patria e aleggiarmi su l'accesa fronte
gl'itali iddii.
Chi l'ombre indusse del piangente salcio
su' rivi sacri ? ti rapisca il vento
de l'Apennino, o molle pianta, amore
d'umili tempi!
Qui pugni a' verni e arcane istorie frema
co 'l palpitante maggio ilice nera,
a cui d'allegra giovinezza il tronco
l'edera veste:
qui folti a torno l'emergente nume
stieno, giganti vigili, i cipressi;
e tu fra l'ombre, tu fatali canta
carmi, o Clitumno.
0 testimone di tre imperi, dinne
come il grave umbro ne' duelli atroce
cesse a l'astato velite e la forte
Etruria crebbe:
di' come sovra le congiunte ville
dal superato Cimino a gran passi
calò Gradivo poi, piantando i segni
fieri di Roma.
Ma tu placavi, indigete comune
italo nume, i vincitori a i vinti,
e, quando tonò il punico furore
dal Trasimeno, (52)
per gli antri tuoi salì grido, e la torta
lo ripercosse buccina da i monti:
— O tu che pasci i buoi presso Mevania
caliginosa,
e tu che i proni colli ari a la sponda
del Nar sinistra, e tu che i boschi abbatti
sovra Spoleto verdi o ne la marzia
Todi fai nozze,
lascia il bue grasso tra le canne, lascia
il torel fulvo a mezzo solco, lascia
ne l'inclinata quercia il cuneo, lascia
la sposa a l'ara;
e corri, corri, corri! con la scure
corri e co' dardi, con la clava e l'asta!
corri! minaccia gl'itali penati
Annibal diro. —
Deh come rise d'alma luce il sole
per questa chiostra di bei monti, quando
urlanti vide e ruinanti in fuga
l'alta Spoleto
i Mauri immani e i numídi cavalli
con mischia oscena, e, sovra loro, nembi
di ferro, flutti d'olio ardente, e i canti
de la vittoria!
Tutto ora tace. Nel sereno gorgo
la tenue miro saliente vena:
trema, e d'un lieve pullular lo specchio
segna de l'acque.
Ride sepolta a l'imo una foresta
breve, e rameggia immobile: il diaspro
par che si mischi in flessuosi amori
con l'ametista.
E di zaffiro i fior paiono, ed hanno
de l'adamante rigido i riflessi,
e splendon freddi e chiamano a i silenzi
del verde fondo.
A piè de i monti e de le querce a l'ombra
co' fiumi, o Italia, è de' tuoi carmi il fonte.
Visser le ninfe, vissero: e un divino
talamo è questo.
Emergean lunghe ne' fluenti veli
naiadi azzurre, e per la cheta sera
chiamavan alto le sorelle brune
da le montagne,
e danze sotto l'imminente luna
guidavan, liete ricantando in coro
di Giano eterno e quanto amor lo vinse
di Camesena.
Egli dal cielo, autoctona virago
ella: fu letto l'Apennin fumante:
velaro i nembi il grande amplesso, e nacque
l'itala gente.
Tutto ora tace, o vedovo Clitumno,
tutto: de' vaghi tuoi delúbri un solo
t'avanza, e dentro pretestato nume
tu non vi siedi.
Non più perfusi del tuo fiume sacro
menano i tori, vittime orgogliose,
trofei romani a i templi aviti: Roma
più non trionfa.
Più non trionfa, poi che un galileo
di rosse chiome il Campidoglio ascese,
gittolle in braccio una sua croce, e disse
— Portala, e servi. —
Fuggir le ninfe a piangere ne' fiumi
occulte e dentro i cortici materni,
od ululando dileguaron come
nuvole a i monti,
quando una strana compagnia, tra i bianchi
templi spogliati e i colonnati infranti,
procedé lenta, in neri sacchi avvolta,
litaniando,
e sovra i campi del lavoro umano
sonanti e i clivi memori d'impero
fece deserto, et il deserto disse
regno di Dio.
Strappar le turbe a i santi aratri, a i vecchi
padri aspettanti, a le fiorenti mogli;
ovunque il divo sol benedicea,
maledicenti.
Maledicenti a l'opre de la vita
e de l'amore, ei deliraro atroci
congiugnimenti di dolor con Dio
su rupi e in grotte;
discesero ebri di dissolvimento
a le cittadi, e in ridde paurose
al crocefisso supplicarono, empi,
d'essere abietti.
Salve, o serena de l'Ilisso in riva,
o intera e dritta a i lidi almi del Tebro
anima umana! i foschi dí passaro,
risorgi e regna.
E tu, pia madre di giovenchi invitti
a franger glebe e rintegrar maggesi
e d'annitrenti in guerra aspri polledri
Italia madre,
madre di biade e viti e leggi eterne
ed inclite arti a raddolcir la vita,
salve! a te i canti de l'antica lode
io rinnovello.
Plaudono i monti al carme e i boschi e l'acque
de l'Umbria verde: in faccia a noi fumando
ed anelando nuove industrie in corsa
fischia il vapore.

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Monia Di Biagio

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MessaggioInviato: Mar Mag 15, 2007 3:18 pm    Oggetto:  Rime scelte di Giosuè Carducci
Descrizione:
Rispondi citando

Nella piazza di San Petronio

Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna,
e il colle sopra bianco di neve ride.
È l'ora soave che il sol morituro saluta
le torri e 'l tempio, divo Petronio, tuo;
le torri i cui merli tant'ala di secolo lambe,
e del solenne tempio la solitaria cima.
Il cielo in freddo fulgore adamàntino brilla;
e l'aer come velo d'argento giace
su 'l foro, lieve sfumando a torno le moli
che levò cupe il braccio clipeato de gli avi.
Su gli alti fastigi s'indugia il sole guardando
con un sorriso languido di viola,
che ne la bigia pietra nel fosco vermiglio mattone
par che risvegli l'anima de i secoli,
e un desio mesto pe 'l rigido aere sveglia
di rossi maggi, di calde aulenti sere,
quando le donne gentili danzavano in piazza
e co' i re vinti i consoli tornavano.
Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema
un desiderio vano de la bellezza antica.

******************

Dinanzi alle terme di Caracalla

Corron tra 'l Celio fosche e l'Aventino
le nubi: il vento dal pian tristo move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di neve.
A le cineree trecce alzato il velo
verde, nel libro una britanna cerca
queste minacce di romane mura
al cielo e al tempo.
Continui, densi, neri, crocidanti
versansi i corvi come fluttuando
contro i due muri ch'a più ardua sfida
levansi enormi.
— Vecchi giganti, — par che insista irato
l'augure stormo — a che tentare il cielo? —
Grave per l'aure vien da Laterano
suon di campane.
Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
grave fischiando tra la folta barba,
passa e non guarda. Febbre, io qui t'invoco,
nume presente.
Se ti fur cari i grandi occhi piangenti
e de le madri le protese braccia
te deprecanti, o dea, dal reclinato
capo de i figli:
se ti fu cara su 'l Palazio eccelso
l'ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
l'evandrio colle, e veleggiando a sera
tra 'l Campidoglio
e l'Aventino il reduce quirite
guardava in alto la città quadrata
dal sole arrisa, e mormorava un lento
saturnio carme);
Febbre, m'ascolta. Gli uomini novelli
quinci respingi e lor picciole cose;
religioso è questo orror: la dea
Roma qui dorme.
Poggiata il capo al Palatino augusto,
tra 'l Celio aperte e l'Aventin le braccia,
per la Capena i forti omeri stende
a l'Appia via.

*****************

Il canto dell'amore

Oh bella a' suoi be' dí Rocca Paolina
Co' baluardi lunghi e i sproni a sghembo!
La pensò Paol terzo una mattina
Tra il latin del messale e quel del Bembo.
— Quel gregge perugino in tra i burroni
Troppo volentier— disse — mi si svia.
Per ammonire, il padre eterno ha i tuoni
Io suo vicario avrò l'artiglieria.
Coelo tonantem canta Orazio, e Dio
Parla tra i nembi sovra l'aquilon.
Io dirò co' i cannoni: O gregge mio,
Torna a i paschi d'Engaddi e di Saron.
Ma, poi che noi rinnovelliamo Augusto,
Odi, Sangallo: fammi tu un lavoro
Degno di Roma, degno del tuo gusto,
E del ponteficato nostro d'oro. —
Disse: e il Sangallo a la fortezza i fianchi
Arrotondò qual di fiorente sposa:
Gittolle attorno un vel di marmi bianchi,
Cinse di torri un serto a l'orgogliosa.
La cantò il Molza in distici latini;
E il paracleto ne la sua virtú
Con più che sette doni a i perugini
In bombe e da' mortai pioveva giú.
Ma il popolo è, ben lo sapete, un cane,
E i sassi addenta che non può scagliare,
E specialmente le sue ferree zane
Gode ne le fortezze esercitare;
E le sgretola; e poi lieto si stende
Latrando su le pietre ruinate,
Fin che si leva e a correr via riprende
Verso altri sassi ed altre bastonate.
Cosí fece in Perugia. Ove l'altera
Mole ingombrava di vasta ombra il suol
Or ride amore e ride primavera,
Ciancian le donne ed i fanciulli al sol.
E il sol nel radiante azzurro immenso
Fin de gli Abruzzi al biancheggiar lontano
Folgora, e con desío d'amor piú intenso
Ride a' monti de l'Umbria e al verde piano.
Nel roseo lume placidi sorgenti
I monti si rincorrono tra loro,
Sin che sfumano in dolci ondeggiamenti
Entro vapori di viola e d'oro.
Forse, Italia, è la tua chioma fragrante
Nel talamo, tra' due mari, seren,
Che sotto i baci de l'eterno amante
Ti freme effusa in lunghe anella al sen ?
Io non so che si sia, ma di zaffiro
Sento ch'ogni pensiero oggi mi splende,
Sento per ogni vena irmi il sospiro
Che fra la terra e il ciel sale e discende.
Ogni aspetto novel con una scossa
D'antico affetto mi saluta il core,
E la mia lingua per sé stessa mossa
Dice a la terra e al cielo, Amore, Amore.
Son io che il cielo abbraccio, o da l'interno
Mi riassorbe l'universo in sé?...
Ahi, fu una nota del poema eterno
Quel ch'io sentiva e picciol verso or è.
Da i vichi umbri che foschi tra le gole
De l'Apennino s'amano appiattare;
Da le tirrene acròpoli che sole
Stan su i fioriti clivi a contemplare;
Da i campi onde tra l'armi e l'ossa arate
La sventura di Roma ancor minaccia;
Da le rocche tedesche appollaiate
Sí come falchi a meditar la caccia;
Da i palagi del popol che sfidando
Surgon neri e turriti incontro a lor;
Da le chiese che al ciel lunghe levando
Marmoree braccia pregano il Signor;
Da i borghi che s'affrettan di salire
Allegri verso la cittade oscura,
Come villani c'hanno da partire
Un buon raccolto dopo mietitura;
Da i conventi tra i borghi e le cittadi
Cupi sedenti al suon de le campane,
Come cuculi tra gli alberi radi
Cantanti noie ed allegrezze strane;
Da le vie, da le piazze gloriose,
Ove, come del maggio ilare a i dì
Boschi di querce e cespiti di rose,
La libera de' padri arte fiorì;
Per le tenere verdi messi al piano,
Pe' vigneti su l'erte arrampicati,
Pe' laghi e' fiumi argentei lontano,
Pe' boschi sopra i vertici nevati,
Pe' casolari al sol lieti fumanti
Tra stridor di mulini e di gualchiere,
Sale un cantico solo in mille canti,
Un inno in voce di mille preghiere:
— Salute, o genti umane affaticate!
Tutto trapassa e nulla può morir.
Noi troppo odiammo e sofferimmo. Amate.
Il mondo è bello e santo è l'avvenir. —
Che è che splende su da' monti, e in faccia
Al sole appar come novella aurora?
Di questi monti per la rosea traccia
Passeggian dunque le madonne ancora?
Le madonne che vide il Perugino
Scender ne' puri occasi de l'aprile,
E le braccia, adorando, in su 'l bambino
Aprir con deità cosí gentile?
Ell'è un'altra madonna, ell'è un'idea
Fulgente di giustizia e di pietà:
Io benedico chi per lei cadea,
Io benedico chi per lei vivrà.
Che m'importa di preti e di tiranni?
Ei son più vecchi de' lor vecchi dei.
Io maledissi al papa or son dieci anni,
Oggi co 'l papa mi concilierei.
Povero vecchio, chi sa non l'assaglia
Una deserta volontà d'amare!
Forse, ei ripensa la sua Sinigaglia
Sí bella a specchio de l'adriaco mare.
Aprite il Vaticano. Io piglio a braccio
Quel di sé stesso antico prigionier.
Vieni: a la libertà brindisi io faccio:
Cittadino Mastai, bevi un bicchier!

************

Miramar

O Miramare, a le tue bianche torri
attediate per lo ciel piovorno
fosche con volo di sinistri augelli
vengon le nubi.
Miramare, contro i tuoi graniti
grige dal torvo pelago salendo
con un rimbrotto d'anime crucciose
battono l'onde.
Meste ne l'ombra de le nubi a' golfi
stanno guardando le città turrite,
Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo,
gemme del mare;
e tutte il mare spinge le mugghianti
collere a questo bastion di scogli
onde t'affacci a le due viste d'Adria,
rocca d'Absburgo;
e tona il cielo a Nabresina lungo
la ferrugigna costa, e di baleni
Trieste in fondo coronata il capo
leva tra' nembi.
Deh come tutto sorridea quel dolce
mattin d'aprile, quando usciva il biondo
imperatore, con la bella donna,
a navigare!
A lui dal volto placida raggiava
la maschia possa de l'impero: l'occhio
de la sua donna cerulo e superbo
iva su 'l mare.
Addio, castello pe' felici giorni
nido d'amore costruito in vano!
Altra su gli ermi oceani rapisce
aura gli sposi.
Lascian le sale con accesa speme
istoriate di trionfi e incise
di sapienza. Dante e Goethe al sire
parlano in vano
da le animose tavole: una sfinge
l'attrae con vista mobile su l'onde:
ei cede, e lascia aperto a mezzo il libro
del romanziero.
Oh non d'amore e d'avventura il canto
fia che l'accolga e suono di chitarre
là ne la Spagna de gli Aztechi! Quale
lunga su l'aure
vien da la trista punta di Salvore
nenia tra 'l roco piangere de' flutti ?
Cantano i morti veneti o le vecchie
fate istriane ?
— Ahi! mal tu sali sopra il mare nostro
figlio d'Absburgo, la fatal Novara.
Teco l'Erinni sale oscura e al vento
apre la vela.
Vedi la sfinge tramutar sembiante
a te d'avanti perfida arretrando!
il viso bianco di Giovanna pazza
contro tua moglie.
È il teschio mozzo contro te ghignante
d'Antonietta. Con i putridi occhi
in te fermati è l'irta faccia gialla
di Montezuma.
Tra boschi immani d'agavi non mai
mobili ad aura di benigno vento,
sta ne la sua piramide, vampante
livide fiamme
per la tenebra tropicale, il dio
Huitzilopotli, che il tuo sangue fiuta,
e navigando il pelago co 'l guardo
ulula. Vieni.
Quant'è che aspetto! La ferocia bianca
strussemi il regno ed i miei templi infranse:
vieni, devota vittima, o nepote
di Carlo quinto.
Non io gl'infami avoli tuoi di tabe
marcenti o arsi di regal furore;
te io voleva, io colgo te, rinato
fiore d'Absburgo;
e a la grand'alma di Guatimozino
regnante sotto il padiglion del sole
ti mando inferia, o puro, o forte, o bello
Massimiliano.

*************

Sogno d'Estate

Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti
la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra 'l sonno
in riva di Scamandro, ma il cor mi fuggì su 'l Tirreno.
Sognai, placide cose de' miei novelli anni sognai.
Non più libri: la stanza da 'l sole di luglio affocata,
rintronata da i carri rotolanti su 'l ciottolato
de la città, slargossi: sorgeanmi intorno i miei colli,
cari selvaggi colli che il giovane april rifioría.
Scendeva per la piaggia con mormorii freschi un zampillo
pur divenendo rio: su 'l rio passeggiava mia madre
florida ancor ne gli anni, traendosi un pargolo a mano
cui per le spalle bianche splendevano i riccioli d'oro.
Andava il fanciulletto con piccolo passo di gloria,
superbo de l'amore materno, percosso nel core
da quella festa immensa che l'alma natura intonava.
Però che le campane sonavano su da 'l castello
annunziando Cristo tornante dimane a' suoi cieli;
e su le cime e al piano, per l'aure, pe' rami, per l'acque,
correa la melodia spiritale di primavera;
ed i peschi ed i meli tutti eran fior' bianchi e vermigli,
e fior' gialli e turchini ridea tutta l'erba al di sotto,
ed il trifoglio rosso vestiva i declivii de' prati,
e molli d'auree ginestre si paravano i colli,
e un'aura dolce movendo quei fiori e gli odori
veniva giú dal mare; nel mar quattro candide vele
andavano andavano cullandosi lente nel sole,
che mare e terra e cielo sfolgorante circonfondeva.
La giovine madre guardava beata nel sole.
Io guardava la madre, guardava pensoso il fratello,
questo che or giace lungi su 'l poggio d'Arno fiorito,
quella che dorme presso ne l'erma solenne Certosa;
pensoso e dubitoso s'ancora ei spirassero l'aure
o ritornasser pii del dolor mio da una plaga
ove tra note forme rivivono gli anni felici.
Passar le care imagini, disparvero lievi co 'l sonno.
Lauretta empieva intanto di gioia canora le stanze,
Bice china al telaio seguía cheta l'opra de l'ago.

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Monia Di Biagio

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MessaggioInviato: Mar Mag 15, 2007 3:28 pm    Oggetto:  Rime scelte di Giosuè Carducci
Descrizione:
Rispondi citando

Nevicata

Lenta fiocca la neve pe 'l cielo cinereo: gridi,
suoni di vita più non salgon da la città,
non d'erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d'amor la canzon ilare e di gioventú.
Da la torre di piazza roche per l'aere le ore
gemon, come sospir d'un mondo lungi dal dí.
Picchiano uccelli raminghi a' vetri appannati:
gli amici spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.
In breve, o cari, in breve—tu calmati, indomito cuore—
giú al silenzio verrò, ne l'ombra riposerò.

************

Sul Monte Mario

Solenni in vetta a Monte Mario stanno
nel luminoso cheto aere i cipressi,
e scorrer muto per i grigi campi
mirano il Tebro,
mirano al basso nel silenzio Roma
stendersi, e, in atto di pastor gigante
su grande armento vigile, davanti
sorger San Pietro.
Mescete in vetta al luminoso colle,
mescete, amici, il biondo vino, e il sole
vi si rifranga: sorridete, o belle:
diman morremo.
Lalage, intatto a l'odorato bosco
lascia l'alloro che si gloria eterno,
0 a te passando per la bruna chioma
splenda minore.
A me tra 'l verso che pensoso vola
venga l'allegra coppa ed il soave
fior de la rosa che fugace il verno
consola e muore.
Diman morremo, come ier moriro
quelli che amammo: via da le memorie,
via da gli affetti, tenui ombre lievi
dilegueremo.
Morremo; e sempre faticosa intorno
de l'almo sole volgerà la terra,
mille sprizzando ad ogni istante vite
come scintille;
vite in cui nuovi fremeranno amori,
vite che a pugne nuove fremeranno,
e a nuovi numi canteranno gl'inni
de l'avvenire.
E voi non nati, a le cui man' la face
verrà che scorse da le nostre, e voi
disparirete, radiose schiere,
ne l'infinito.
Addio, tu madre del pensier mio breve,
terra, e de l'alma fuggitiva! quanta
d'intorno al sole aggirerai perenne
gloria e dolore!
fin che ristretta sotto l'equatore
dietro i richiami del calor fuggente
l'estenuata prole abbia una sola
femina, un uomo,
che ritti in mezzo a' ruderi de' monti,
tra i morti boschi, lividi, con gli occhi
vitrei te veggan su l'immane ghiaccia,
sole, calare.

************

Il poeta

Il poeta, o vulgo sciocco,
Un pitocco
Non è già, che a l'altrui mensa
Via con lazzi turpi e matti
Porta i piatti
Ed il pan ruba in dispensa.
E né meno è un perdigiorno
Che va intorno
Dando il capo ne' cantoni,
E co 'l naso sempre a l'aria
Gli occhi svaria
Dietro gli angeli e i rondoni.
E né meno è un giardiniero
Che il sentiero
De la vita co 'l letame
Utilizza, e cavolfiori
Pe' signori
E viole ha per le dame.
Il poeta è un grande artiere,
Che al mestiere
Fece i muscoli d'acciaio:
Capo ha fier, collo robusto,
Nudo il busto,
Duro il braccio, e l'occhio gaio.
Non a pena l'augel pia
E giulía
Ride l'alba a la collina,
Ei co 'l mantice ridesta
Fiamma e festa
E lavor ne la fucina:
E la fiamma guizza e brilla
E sfavilla
E rosseggia balda audace,
E poi sibila e poi rugge
E poi fugge
Scoppiettando da la brace.
Che sia ciò, non lo so io;
Lo sa Dio
Che sorride al grande artiero.
Ne le fiamme cosí ardenti
Gli elementi
De l'amore e del pensiero
Egli gitta, e le memorie
E le glorie
De' suoi padri e di sua gente.
Il passato e l'avvenire
A fluire
Va nel masso incandescente.
Ei l'afferra, e poi del maglio
Co 'l travaglio
Ei lo doma su l'incude.
Picchia e canta. Il sole ascende,
E risplende
Su la fronte e l'opra rude.
Picchia. E per la libertade
Ecco spade,
Ecco scudi di fortezza:
Ecco serti di vittoria
Per la gloria,
E diademi a la bellezza.
Picchia. Ed ecco istoriati
A i penati
Tabernacoli ed al rito:
Ecco tripodi ed altari,
Ecco rari
Fregi e vasi pe 'l convito.
Per sé il pover manuale
Fa uno strale
D'oro, e il lancia contro 'l sole:
Guarda come in alto ascenda
E risplenda,
Guarda e gode, e più non vuole.

**************

San Martino

La nebbia a gl'irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;
Ma per le vie del borgo
Dal ribollir de' tini
Va l'aspro odor de i vini
L'anime a rallegrar.
Gira su' ceppi accesi
Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l'uscio a rimirar
Tra le rossastre nubi
Stormi d'uccelli neri,
Com'esuli pensieri,
Nel vespero migrar.

**************

La leggenda di Teodorico

Su 'l castello di Verona
Batte il sole a mezzogiorno,
Da la Chiusa al pian rintrona
Solitario un suon di corno,
Mormorando per l'aprico
Verde il grande Adige va;
Ed il re Teodorico
Vecchio e triste al bagno sta.
Pensa il dí che a Tulna ei venne
Di Crimilde nel conspetto
E il cozzar di mille antenne
Ne la sala del banchetto,
Quando il ferro d'Ildebrando
Su la donna si calò
E dal funere nefando
Egli solo ritornò.
Guarda il sole sfolgorante
E il chiaro Adige che corre,
Guarda un falco roteante
Sovra i merli de la torre;
Guarda i monti da cui scese
La sua forte gioventú,
Ed il bel verde paese
Che da lui conquiso fu.
Il gridar d'un damigello
Risonò fuor de la chiostra:
— Sire, un cervo mai sí bello
Non si vide a l'età nostra.
Egli ha i pié d'acciaro a smalto,
Ha le corna tutte d'òr.
— Fuor de l'acque diede un salto
Il vegliardo cacciator.
— I miei cani, il mio morello,
Il mio spiedo — egli chiedea;
E il lenzuol quasi un mantello
A le membra si avvolgea.
I donzelli ivano. In tanto
Il bel cervo disparí,
E d'un tratto al re da canto
Un corsier nero nitrí.
Nero come un corbo vecchio,
E ne gli occhi avea carboni.
Era pronto l'apparecchio,
Ed il re balzò in arcioni.
Ma i suoi veltri ebber timore
E si misero a guair,
E guardarono il signore
E no 'l vollero seguir.
In quel mezzo il caval nero
Spiccò via come uno strale
E lontan d'ogni sentiero
Ora scende e ora sale:
Via e via e via e via,
Valli e monti esso varcò.
Il re scendere vorría,
Ma staccar non se ne può.
Il più vecchio ed il più fido
Lo seguía de' suoi scudieri,
E mettea d'angoscia un grido
Per gl'incogniti sentieri:
— O gentil re de gli Amali,
Ti seguii ne' tuoi be' dí,
Ti seguii tra lance e strali,
Ma non corsi mai cosí.
Teodorico di Verona,
Dove vai tanto di fretta?
Tornerem, sacra corona,
A la casa che ci aspetta? —
— Mala bestia è questa mia,
Mal cavallo mi toccò:
Sol la Vergine Maria
Sa quand'io ritornerò. —
Altre cure su nel cielo
Ha la Vergine Maria:
Sotto il grande azzurro velo
Ella i martiri covría,
Ella i martiri accoglieva
De la patria e de la fé;
E terribile scendeva
Dio su 'l capo al goto re.
Via e via su balzi e grotte
Va il cavallo al fren ribelle:
Ei s'immerge ne la notte,
Ei s'aderge in vèr' le stelle.
Ecco, il dorso d'Appennino
Fra le tenebre scompar,
E nel pallido mattino
Mugghia a basso il tosco mar.
Ecco Lipari, la reggia
Di Vulcano ardua che fuma
E tra i bòmbiti lampeggia
De l'ardor che la consuma:
Quivi giunto il caval nero
Contro il ciel forte springò
Annitrendo; e il cavaliero
Nel cratere inabissò.
Ma dal calabro confine
Che mai sorge in vetta al monte?
Non è il sole, è un bianco crine;
Non è il sole, è un'ampia fronte
Sanguinosa, in un sorriso
Di martirio e di splendor:
Di Boezio è il santo viso,
Del romano senator.

******************

Traversando la Maremma Toscana

Dolce paese, onde portai conforme
L'abito fiero e lo sdegnoso canto
E il petto ov'odio e amor mai non s'addorme,
Pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.
Ben riconosco in te le usate forme
Con gli occhi incerti tra 'l sorriso e il pianto,
E in quelle seguo de' miei sogni l'orme
Erranti dietro il giovenile incanto.
Oh, quel che amai, quel che sognai, fu invano;
E sempre corsi, e mai non giunsi il fine;
E dimani cadrò. Ma di lontano
Pace dicono al cuor le tue colline
Con le nebbie sfumanti e il verde piano
Ridente ne le pioggie mattutine.

*****************

Il comune rustico

O che tra faggi e abeti erma su i campi
Smeraldini la fredda ombra si stampi
Al sole del mattin puro e leggero,
O che foscheggi immobile nel giorno
Morente su le sparse ville intorno
A la chiesa che prega o al cimitero
Che tace, o noci de la Carnia, addio!
Erra tra i vostri rami il pensier mio
Sognando l'ombre d'un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
Diavoli goffi con bizzarre streghe,
Ma del comun la rustica virtú
Accampata a l'opaca ampia frescura
Veggo ne la stagion de la pastura
Dopo la messa il giorno de la festa.
Il consol dice, e poste ha pria le mani
Sopra i santi segnacoli cristiani:
— Ecco, io parto fra voi quella foresta
D'abeti e pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
E la belante a quelle cime là.
E voi, se l'unno o se lo slavo invade,
Eccovi, o figli, l'aste, ecco le spade,
Morrete per la nostra libertà. —
Un fremito d'orgoglio empieva i petti,
Ergea le bionde teste; e de gli eletti
In su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
Invocavan la madre alma de' cieli.
Con la man tesa il console seguiva:
— Questo, al nome di Cristo e di Maria,
Ordino e voglio che nel popol sia. —
A man levata il popol dicea, Sí.
E le rosse giovenche di su 'l prato
Vedean passare il piccolo senato,
Brillando su gli abeti il mezzodí.

***************

In una villa

O tra i placidi olivi, tra i cedri e le palme sedente
bella Arenzano al riso de la ligure piaggia;
operosa vecchiezza t'illustra, serena t'adorna
signoril grazia e il dolce di giovinezza lume;
facil corre in te l'ora tra liete aspettanze e ricordi
calmi, sì come l'aura tra la collina e il mare.

14 luglio 1889

*************

Piemonte

Su le dentate scintillanti vette
salta il camoscio, tuona la valanga
da' ghiacci immani rotolando per le
selve croscianti :
ma da i silenzi de l'effuso azzurro
esce nel sole l'aquila, e distende
in tarde ruote digradanti il nero
volo solenne.
Salve, Piemonte! A te con melodia
mesta da lungi risonante, come
gli epici canti del tuo popol bravo,
scendono i fiumi.
Scendono pieni, rapidi, gagliardi,
come i tuoi cento battaglioni, e a valle
cercan le deste a ragionar di gloria
ville e cittadi:
la vecchia Aosta di cesaree mura
ammantellata, che nel varco alpino
èleva sopra i barbari manieri
l'arco d'Augusto:
Ivrea la bella che le rosse torri
specchia sognando a la cerulea Dora
nel largo seno, fosca intorno è l'ombra
di re Arduino :
Biella tra 'I monte e il verdeggiar de' piani
lieta guardante l'ubere convalle,
ch'armi ed aratri e a l'opera fumanti
camini ostenta :
Cuneo possente e pazïente, e al vago
declivio il dolce Mondoví ridente,
e l'esultante di castella e vigne
suol d'Aleramo;
e da Superga nel festante coro
de le grandi Alpi la regal Torino
incoronata di vittoria, ed Asti
repubblicana.
Fiera di strage gotica e de l'ira
di Federico, dal sonante fiume
ella, o Piemonte, ti donava il carme
novo d'Alfieri.
Venne quel grande, come il grande augello
ond'ebbe nome, e a l'umile paese
sopra volando, fulvo, irrequïeto,
—Italia, Italia—
egli gridava a' dissueti orecchi,
a i pigri cuori, a gli animi giacenti.
—Italia, Italia—rispondeano l'urne
d'Arquà e Ravenna :
e sotto il volo scricchiolaron l'ossa
sé ricercanti lungo il cimitero
de la fatal penisola a vestirsi
d'ira e di ferro.
— Italia, Italia!—E il popolo de' morti
surse cantando a chiedere la guerra;
e un re a la morte nel pallor del viso
sacro e nel cuore
trasse la spada. Oh anno de' portenti,
oh primavera de la patria, oh giorni,
ultimi giorni del fiorente maggio,
oh trionfante
suon de la prima italica vittoria
che mi percosse il cuor fanciullo! Ond'io,
vate d'Italia a la stagion più bella,
in grige chiome
oggi ti canto, o re de' miei verd'anni,
re per tant'anni bestemmiato e pianto,
che via passasti con la spada in pugno
ed il cilicio
al cristian petto, italo Amleto. Sotto
il ferro e il fuoco del Piemonte, sotto
di Cuneo 'I nerbo e l'impeto d'Aosta
sparve il nemico.
Languido il tuon de l'ultimo cannone
dietro la fuga austrïaca moría:
il re a cavallo discendeva contra
il sol cadente:
a gli accorrenti cavalieri in mezzo,
di fumo e polve e di vittoria allegri,
trasse, ed, un foglio dispiegato, disse
resa Peschiera.
Oh qual da i petti, memori de gli avi,
alte ondeggiando le sabaude insegne,
surse fremente un solo grido: Viva
il re d'Italia!
Arse di gloria, rossa nel tramonto.
I'ampia distesa del lombardo piano;
palpitò il lago di Virgilio, come
velo di sposa
che s'apre al bacio del promesso amore:
pallido, dritto su l'arcione, immoto,
gli occhi fissava il re: vedeva l'ombra
del Trocadero.
E lo aspettava la brumal Novara
e a' tristi errori mèta ultima Oporto.
Oh sola e cheta in mezzo de' castagni
villa del Douro,
che in faccia il grande Atlantico sonante
a i lati ha il fiume fresco di camelie,
e albergò ne la indifferente calma
tanto dolore!
Sfaceasi; e nel crepuscolo de i sensi
tra le due vite al re davanti corse
una miranda visïon: di Nizza
il marinaro
biondo che dal Gianicolo spronava
contro l'oltraggio gallico : d'intorno
splendeagli, fiamma di piropo al sole,
I'italo sangue.
Su gli occhi spenti scese al re una stilla,
lenta errò l'ombra d'un sorriso. Allora
venne da l'alto un vol di spirti, e cinse
del re la morte.
Innanzi a tutti, o nobile Piemonte,
quei che a Sfacteria dorme e in Alessandria
diè a l'aure primo il tricolor, Santorre
di Santarosa.
E tutti insieme a Dio scortaron l'alma
di Carl'Alberto.—Eccoti il re, Signore,
che ne disperse, il re che ne percosse.
Ora, o Signore,
anch'egli è morto, come noi morimmo,
Dio, per l'Italia. Rendine la patria.
A i morti, a i vivi, pe 'I fumante sangue
da tutt'i campi,
per il dolore che le regge agguaglia
a le capanne, per la gloria, Dio,
che fu ne gli anni, pe 'I martirio, Dio,
che è ne l'ora,
a quella polve eroïca fremente,
a questa luce angelica esultante,
rendi la patria, Dio; rendi l'Italia
a gl'italiani.

Ceresole reale, 27 luglio 1890

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MessaggioInviato: Mar Mag 15, 2007 3:36 pm    Oggetto:  Rime scelte di Giosuè Carducci
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Rispondi citando

Ad Annie

Batto a la chiusa imposta con un ramicello di fiori
glauchi ed azzurri, come i tuoi occhi, o Annie
Vedi: il sole co 'I riso d'un tremulo raggio ha baciato
la nube, e ha detto—Nuvola bianca, t'apri. —
Senti: il vento de l'alpe con fresco susurro saluta
la vela, e dice—Candida vela, vai. —
Mira: I'augel discende da l'umido cielo su 'l pèsco
in fiore, e trilla — Vermiglia pianta, odora. —
Scende da' miei pensieri l'eterna dea poesia
su 'I cuore, e grida — O vecchio cuore, batti. —
E docile il cuore ne' tuoi grandi occhi di fata
s'affisa, e chiama—Dolce fanciulla, canta.

26 marzo 1890

************

A Scandiano

De la prona stagion ne i dí più tardi
Che le rose sfioriro e i laureti,
Quando cavalleria cinge i codardi
E al valor civiltà mette divieti,
A te, Scandian, faro gentil che ardi
Ne l'immensa al pensiero epica Teti,
O rocca de' Fogliani e de' Boiardi,
Terra di sapïenti e di poeti,
Io vengo: a tergo mi lasciai la grama
Che il mondo dice poesia, lasciai
I deliri a cui par che dietro agogni
L'età malata. Io sento che mi chiama
De' secoli la voce, e risognai
La verità de i grandi antichi sogni.

16 decembre 1894

************

Mezzogiorno Alpino

Nel gran cerchio de l'alpi, su 'I granito
Squallido e scialbo, su' ghiacciai candenti,
Regna sereno intenso ed infinito
Nel suo grande silenzio il mezzodí.
Pini ed abeti senza aura di venti
Si drizzano nel sol che gli penètra,
Sola garrisce in picciol suon di cetra
L'acqua che tenue tra i sassi fluí.

27 agosto 1895

*************

L'ostessa di Gaby

E verde e fosca l'alpe, e limpido e fresco è il mattino,
e traverso gli abeti tremola d'oro il sole.
Cantan gli uccelli a prova, stormiscono le cascatelle,
precipita la scesa nel vallone di Niel.
Ecco le bianche case. La giovine ostessa a la soglia
ride, saluta e mesce lo scintillante vino.
Per le fórre de l'alpe trasvolan figure ch'io vidi
certo nel sogno d'una canzon d'arme e d'amori.

Gaby (Issime), 27 agosto 1895

*************

La mietitura del turco

Il Turco miete. Eran le teste armene
Che ier cadean sotto il ricurvo acciar:
Ei le offeriva boccheggianti e oscene
A i pianti de l'Europa a imbalsamar.
Il Turco miete. In sangue la Tessaglia
Ch'ei non arava or or gli biondeggiò :
—Aia—diss'ei—m'è il campo di battaglia,
E frustando i giaurri io trebbierò.—
Il Turco miete. E al morbido tiranno
Manda il fior de l'elleniche beltà.
I monarchi di Cristo assisteranno
Bianchi eunuchi a l'arèm del Padiscià.

Giugno 1897

************

La chiesa di Polenta

Agile e solo vien di colle in colle
quasi accennando l'ardüo cipresso.
Forse Francesca temprò qui li ardenti
occhi al sorriso?
Sta l'erta rupe, e non minaccia :
in alto guarda, e ripensa, il barcaiol, torcendo
l'ala de' remi in fretta dal notturno
Adrïa: sopra
fuma il comignol del villan, che giallo
mesce frumento nel fervente rame
là dove torva I'aquila del vecchio
Guido covava.
Ombra d'un fiore è la beltà, su cui
bianca farfalla poesia volteggia:
eco di tromba che si perde a valle
è la potenza.
Fuga di tempi e barbari silenzi
vince e dal flutto de le cose emerge
sola, di luce a' secoli affluenti
faro, I'idea.
Ecco la chiesa. E surse ella che ignoti
servi morian tra la romana plebe
quei che fûr poscia i Polentani e Dante
fecegli eterni.
Forse qui Dante inginocchiossi?
L'alta fronte che Dio mirò da presso chiusa
entro le palme, ei lacrimava il suo
bel San Giovanni;
e folgorante il sol rompea da' vasti
boschi su 'I mar. Del profugo a la mente
ospiti batton lucidi fantasmi
dal paradiso:
mentre, dal giro de' brevi archi l'ala
candida schiusa verso l'orïente,
giubila il salmo In exitu cantando
Israel de Aegypto.
Itala gente da le molte vite,
dove che albeggi la tua notte e un'ombra
vagoli spersa de' vecchi anni, vedi
ivi il poeta.
Ma su' dischiusi tumuli per quelle
chiese prostesi in grigio sago i padri,
sparsi di turpe cenere le chiome
nere fluenti,
al bizantino crocefisso, atroce
ne gli occhi bianchi livida magrezza,
chieser mercé de l'alta stirpe e de la
gloria di Roma.
Da i capitelli orride forme intruse
a le memorie di scalpelli argivi,
sogni efferati e spasimi del bieco
settentrïone,
imbestïati degeneramenti
de l'oriente, al guizzo de la fioca
lampada, in turpe abbracciamento attorti,
zolfo ed inferno
goffi sputavan su la prosternata
gregge: di dietro al battistero un fulvo
picciol cornuto diavolo guardava
e subsannava.
Fuori stridea per monti e piani il verno
de la barbarie. Rapido saetta
nero vascello, con i venti e un dio
ch'ulula a poppa,
fuoco saetta ed il furor d'Odino
su le arridenti di due mari a specchio
moli e cittadi a Enogiseo le braccia
bianche porgenti.
Ahi, ahi ! Procella d'ispide polledre
àvare ed unne e cavalier tremendi
sfilano: dietro spigolando allegra
ride la morte.
Gesú, Gesú! Spalancano la tetra
bocca i sepolcri: a' venti a' nembi al sole
piangono rese anch'esse de' beati
màrtiri l'ossa.
E quel che avanza il Vínilo barbuto,
ridiscendendo da i castelli immuni,
sparte —reliquie, cenere, deserto —
con l'alabarda.
Schiavi percossi e dispogliati, a voi
oggi la chiesa, patria, casa, tomba,
unica avanza : qui dimenticate,
qui non vedete.
E qui percossi e dispogliati anch'essi
i percussori e spogliatori un giorno
vengano. Come ne la spumeggiante
vendemmia il tino
ferve, e de' colli italici la bianca
uva e la nera calpestata e franta
sé disfacendo il forte e redolente
vino matura;
qui, nel conspetto a Dio vendicatore
e perdonante, vincitori e vinti,
quei che al Signor pacificò, pregando,
Teodolinda, (96)
quei che Gregorio invidïava a' servi
ceppi tonando nel tuo verbo, o Roma,
memore forza e amor novo spiranti
fanno il Comune.
Salve, affacciata al tuo balcon di poggi
tra Bertinoro alto ridente e il dolce
pian cui sovrasta fino al mar Cesena
donna di prodi,
salve, chiesetta del mio canto! A questa
madre vegliarda, o tu rinnovellata
itala gente da le molte vite,
rendi la voce
de la preghiera: la campana squilli
ammonitrice : il campanil risorto
canti di clivo in clivo a la campagna
Ave Maria.
Ave Maria! Quando su l'aure corre
I'umil saluto, i piccioli mortali
scovrono il capo, curvano la fronte
Dante ed Aroldo.
Una di flauti lenta melodia
passa invisibil fra la terra e il cielo:
spiriti forse che furon, che sono
e che saranno?
Un oblio lene de la faticosa
vita, un pensoso sospirar quïete,
una soave volontà di pianto
I'anime invade.
Taccion le fiere e gli uomini e le cose,
roseo 'I tramonto ne l'azzurro sfuma,
mormoran gli alti vertici ondeggianti
Ave Maria.

Luglio 1897

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Sabato Santo

Per il natalizio di M. G.

Che giovinezza nova, che lucidi giorni di gioia
per la cerula effusa chiarità de l'aprile
cantano le campane con onde e volate di suoni
da la città su' poggi lontanamente verdi!
Da i superati inferni, redimito il crin di vittoria,
candido, radïante, Cristo risorge al cielo:
svolgesi da l'inverno il novello anno, e al suo fiore
già in presagio la messe già la vendemmia ride.
Ospite nova al mondo, son oggi vent'anni, Maria,
tu t'affacciasti; e i primi tuoi vagiti coverse
doppio il suon de le sciolte campane sonanti a la gloria:
ora e tu ne la gloria de l'età bella stai,
stai com'uno di questi arboscelli schietti d'aprile
che a l'aura dolce dànno il bianco roseo fiore.
Volgasi intorno al capo tuo giovin, deh, I'augure suono
de le campane anch'oggi di primavera e pasqua!
cacci il verno ed il freddo, cacci l'odio tristo e I'accidia,
cacci tutte le forme de la discorde vita!

14 aprile 1898

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Eligia del Monte Spluga

No, forme non eran d'aer colorato né piante
garrule e mosse al vento: ninfe eran tutte e dee.
E quale iva salendo volubile e cerula come
velata emerse Teti da l'Egeo grande a Giove:
e qual balzava da la palpitante scorza de' pini
rosea, I'agil donando florida chioma a l'aure:
e qual da la cintura d'in cima a' ghiacci diasprati
sciogliea, nastri d'argento, le cascatelle allegre.
Sola in vett' a un gran masso di quarzo brillante al meriggio
in disparte sedevi, Lorely pellegrina :
solcavi l'aurea chioma con l'aureo pettine, lunga
la chioma iva per l'alpe, vi ridea dentro il sole.
In un tempio a larghe ombre di larici acuti le Fate
stavan, occhi fiammanti ne la gemma de' visi:
serti di quercia al crine su le nere clamidi nero,
scettri avean d'oro in mano: riguardavano me.
— Orco umano, che sali da' piani fumanti di tedio,
noi la ti demmo : aveva gli occhi color del mare.
Or tu ne vieni solo. Che festi di nostra sorella?
I'hai divorata?—E fise riguardavan pur me.
—No, temibili Fate, no, soavi ninfe, lo giuro:
ella è volata fuori de la veduta mia.
Ma la sua forma vive, ma palpita l'alma sua vita
ne le mie vene, in cima de la mia mente siede.
Con la imagine sua dinanzi da gli occhi tuttora
che mi arde, con la voce che dentro il cor mi ammalia,
suono di primavera su 'I tepido aprile dormente,
erro soletto il mondo, tutto di lei l'impronto.
Ecco, voi Fate e ninfe, paretemi, e siete, lei sola:
anzi in mia visïone v'ho create io di lei.
Ma ella dove esiste?—Lamenti scoppiarono, e via
sparver le ninfe in aria, via sotterra le Fate.
E vidi su gli abeti danzar li scoiattoli, e udii
sprigionate co' musi le marmotte fischiare.
E mi trovai soletto là dove perdevasi un piano
brullo tra calve rupi: quasi un anfiteatro
ove elementi un giorno lottarono e secoli. Or tace
tutto: da' pigri stagni pigro si svolve un fiume :
erran cavalli magri su le magre acque: aconíto,
perfido azzurro fiore, veste la grigia riva.

Spluga, 1-4 settembre 1898

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Sant'Abbondio (XXVI)

Nitido il cielo come in adamante
D'un lume del di là trasfuso fosse,
Scintillan le nevate alpi in sembiante
D'anime umane da l'amor percosse.
Sale da i casolari il fumo ondante
Bianco e turchino fra le piante mosse
Da lieve aura: il Madesimo cascante
Passa tra gli smeraldi. In vesti rosse
Traggono le alpigiane, Abbondio santo,
A la tua festa: ed è mite e giocondo
Di lor, del fiume e de gli abeti il canto.
Laggiù che ride de la valle in fondo?
Pace, mio cuor; pace, mio cuore. Oh tanto
Breve la vita ed è sì bello il mondo!

Madesimo, 1 settembre 1898

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Presso una certosa

Da quel verde, mestamente pertinace tra le foglie
Gialle e rosse de l'acacia, senza vento una si toglie:
E con fremito leggero
Par che passi un'anima.
Velo argenteo par la nebbia su 'I ruscello che gorgoglia,
Tra la nebbia nel ruscello cade a perdersi la foglia.
Che sospira il cimitero,
Da' cipressi, fievole?
Improvviso rompe il sole sopra l'umido mattino,
Navigando tra le bianche nubi l'aere azzurrino :
Si rallegra il bosco austero
Già del verno prèsago.
A me, prima che l'inverno stringa pur l'anima mia
Il tuo riso, o sacra luce, o divina poesia!
Il tuo canto, o padre Omero,'
Pria che l'ombra avvolgami!

16 novembre 1895

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