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Quinto Orazio Flacco: Vita&Opere
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Quinto Orazio Flacco
(LA)
«Dum loquimur fugerit invida aetas:
carpe diem, quam minimum credula postero.» (Orazio)
(IT)
«Mentre parliamo sarà già fuggito l'invidioso tempo:
afferra l'oggi, quanto meno possibile fiduciosa nel domani.»
****************
Quinto Orazio Flacco (Venosa, 8 dicembre 65 a.C. – Roma, 27 novembre 8 a.C.) è stato un poeta latino.
Maestro di eleganza stilistica e dotato di inusuale ironia, seppe affrontare le vicissitudini politiche e civili del suo tempo da placido epicureo amante dei piaceri della vita, dettando quelli che per molti sono ancora i canoni dell'ars vivendi.
Indice [in questa pagina]:
1 Biografia
2 Opere
3 Curiosità
***********
Biografia
Nato a Venosa l'8 Dicembre del 65 a.C., al confine tra Puglia e Lucania, figlio di un fattore liberto che si trasferì poi a Roma per fare l'esattore delle aste pubbliche (coactor), compito poco stimato ma redditizio. Il poeta era dunque di umili origini, ma di buona condizione economica. Orazio seguì perciò un regolare corso di studi a Roma e poi ad Atene, dove studiò greco e filosofia. Il poeta espresse la sua gratitudine verso il padre in un tributo nelle Satire, I, 6.
Quando scoppiò la guerra civile, Orazio si arruolò, dopo la morte di Cesare, nell'esercito di Bruto e combatté come tribuno militare nella battaglia di Filippi (42 a.C.). Nel 41 a.C. tornò in Italia grazie ad un'amnistia e, appresa la notizia della confisca del podere paterno, trasse sostentamento divenendo segretario di un questore (scriba quaestorius). Nel 38 a.C. venne presentato a Mecenate da Virgilio e Vario, probabilmente incontrati nel contesto delle scuole epicuree di Napoli ed Ercolano. Dopo nove mesi Mecenate lo ammise nel suo circolo. Da allora Orazio si dedicò interamente alla letteratura, tanto che non si sposò e non ebbe figli.
Mecenate gli donò una villa in Sabina, molto gradita al poeta, il quale, in perfetta osservanza del modus vivendi predicato da Epicuro, non amava la vita cittadina. Con la sua poesia fece spesso azioni di propaganda per l’imperatore Augusto, anche se, a dire il vero, in questo periodo Ottaviano lasciò una maggiore libertà compositiva ai suoi poeti (tendenza che sarebbe però stata invertita dalla scomparsa di Mecenate: lo testimonia la vicenda biografica di Ovidio). Esempi di propaganda augustea sono, ad ogni modo, le Odi ed il Carmen saeculare, composto nel 17 a.C. in occasione della ricorrenza dei Ludi Saeculares.
Morì nel Novembre dell'8 a.C. e fu sepolto sul colle Esquilino, accanto al suo amico Mecenate, morto solo due mesi prima.
Opere
Orazio è considerato dal classicismo uno dei più importanti poeti latini. Molte delle sue frasi sono diventate modi di dire ancora in uso: esempi sono carpe diem e aurea mediocritas.
Satire (Saturae o Sermones, come le definisce l'autore), in due libri che comprendono 18 satire, scritte tra il 41 e il 30 a.C.: il I libro (10 satire) fu dedicato a Mecenate e pubblicato tra il 35 e il 33 a.C., mentre il II libro (8 satire) fu pubblicato nel 30 a.C. insieme agli Epodi.
Epodi (Epodon libri), 17 componimenti, pubblicati nel 30 a.C.
Odi, in tre libri con 88 componimenti, pubblicati nel 23 a.C.. Un quarto libro con altri 15 componimenti venne pubblicato intorno al 13 a.C..
Epistole, in due libri. Il I libro comprende 20 lettere composte a partire dal 23 e pubblicate nel 20 a.C., con dedica a Mecenate, mentre il II libro, con tre lettere, scritto tra il 19 e il 13 a.C., comprende l'epistola ai Pisoni, o Ars Poetica in 476 esametri, che fu presa a canone per la composizione poetica nelle epoche successive.
Carme secolare (Carmen saeculare), del 17 a.C., scritto per incarico di Augusto e destinato alla cerimonia conclusiva dei ludi saeculares.
Curiosità
Ad Orazio è stato intitolato il cratere Orazio, sulla superficie di Mercurio.
"Orazio satiro" è citato nell'Inferno di Dante nel Limbo al verso 89 del canto IV.
***************
( Biografia tratta da Wikipedia, l'enciclopedia libera: Solo gli utenti registrati possono vedere i link! Registrati o Entra nel forum! | ) _________________ I Miei Siti On-Line: (profilo su FaceBook) Solo gli utenti registrati possono vedere i link! Registrati o Entra nel forum! | (pagina personale su FaceBook) Solo gli utenti registrati possono vedere i link! Registrati o Entra nel forum! | (gruppo Scritturalia su FaceBook) Solo gli utenti registrati possono vedere i link! Registrati o Entra nel forum! |
Ultima modifica di Monia Di Biagio il Ven Set 14, 2007 1:15 pm, modificato 1 volta in totale |
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Quinto Orazio Flacco: Opere.
Quinto Orazio FlaccoQuinto Orazio Flacco (8 dicembre 65 a.C. - 27 novembre 8 a.C.), poeta latino.
-Indice Opere:
-Satire
-Satire, libri I e II[1]
-Dal Libro I, satira 3, vv. 1-56[2]
-Libro I, Satira 9[3]
-Dal Libro I, satira IX, vv. 1-23[3]
-Epistole
-Odi
-Libro I, 11[3]
-Libro I, 31[3]
-Libro I, 38[3]
-Libro III, 13[3]
-Libro III, 18[3]
-Libro III, 28[3]
-Libro III, 30[3]
-Epodi
-Carmen Saeculare vv. 8-15[3]
-Note-
↑ Traduzione di Luca Antonio Pagnini
↑ Traduzione di Alessandro Manzoni
↑ 3,0 3,1 3,2 3,3 3,4 3,5 3,6 3,7 3,8 3,9 Traduzione di Giovanni Pascoli
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Quinto Orazio Flacco: Satire.
Traduzione di Luca Antonio Pagnini
Indice Libro I°:
-Satira I-
Mecenate, onde vien, che nessun pago
Sia del mestier, ch'elezione o caso
Gli offerse, e lodi chi professa altr'arti?
O fortunati mercatanti, esclama
5Carco d'età il soldato, a cui le membra
Fiaccò lunga fatica; e 'l mercatante,
Quando squassar dagli Austri sente il legno:
Migliore è la milizia. E chi n'ha dubbio?
Vassi al conflitto, e in un istante o pronta
10Morta ti viene o lieta palma incontro.
Quando il giurista sul cantar del gallo
Picchiare ode i clienti alla sua porta,
Colma di lodi il campagnuol. Chi dati
Mallevadori è dalla villa a Roma
15Citato a comparir, quelli soltanto
Che vivono in Città, felici appella,
Ma tanto innanzi va questa materia,
Che Fabio seccator ne avrìa soverchio.
Per non tenerti a bada ecco ove vanno
20I miei detti a parar. Se un Dio dicesse:
I'son qui pronto a far vostro desio:
Tu già soldato, in avvenir sarai
Mercante, e tu legal vivrai ne'campi.
Su via cangiati impieghi ognun si parta.
25Che state a far? Se così lor parlasse,
Nessuno il patto accetterebbe. Eppure
In vostra mano sta l'esser beati.
Forse che Giove non avria ragione
Di gonfiare adirato ambe le gote,
30E dir che per lo innanzi esso non fia
Sì buon di dare agli uman voti orecchio?
Ma per non far come chi scherza e ride
Per baloccar la gente (eppur chi mai
Ne proibisce il dir ridendo il vero?
35Così blando maestro al fanciullino
Perchè impari abbiccì, dona le offelle)
Or dismesso il burlar battiam sul sodo.
Quei che il terren col duro vomer fende,
Il furbo oste, il soldato, il navigante
40Che ardito solca il mar, vanno dicendo
Che volte son le lor fatiche e stenti
A procacciarsi il pan per la vecchiaja,
E assicurarsi un placid'ozio, come
La piccola formica, a noi di molta
45Fatica esempio, quanto può col rostro
Dietro si tragge, e del futuro accorta
Via via l'abbica, ed il suo mucchio accresce.
Sì, ma costei, quando l'Aquario attrista
L'anno cadente, fuor non mette piede,
50E l'ammassato gran si gode in pace.
Ma te non verno, o sollion, non fuoco
Nè mar nè ferro da lucrar distoglie,
Per non vedere alcun di te più ricco.
Che val sotterra por furtivamente
55Con paurosa mano immenso pondo
D'argento e d'or? Perchè non si riduca,
S'io lo vada scemando, a un vil bajocco.
Ma se tu non lo spendi, e che ha di bello
La ragunata massa? or via poniamo,
60Che tu nell'aja battut'abbia cento
Mila moggia di gran. Non la tu pancia
Per questo ne terrà più che la mia.
Qual se tra'servi su le spalle un sacco
Di pan portassi, non ne avresti poi
65Di chi scarco ne andò più largo pasto.
A chi sta di Natura entro a'confini
Che mai vale arar cento o mille campi?
= Bel gusto è provvedersi a una gran massa.
= Purch'io dalla mia picciola altrettanto
70Ne possa aver, qual di lodar motivo
Hai più delle mie corbe i tuoi granai?
Egli è come se un fiasco od una tazza
Bisognandoti d'acqua, i'non vo'torla,
Dicessi, a un fonticel, ma ad un gran fiume.
75Quinci avviene a chi più del giusto agogna
Che insieme con la sponda il rovinoso
Offanto se l'assorba entro i suoi gorghi.
Ma chi ciò sol desia che a lui fa d'uopo
Nè a limacciosa pozza attigne l'acqua,
80Nè a rischio d'affogar sua vita espone.
Ma da insana avarizia una gran parte
Degli uomini accecata ognor ripete:
Non evvi mai tanto che basti, ognuno
Tanto vale quant'ha. - Che vuoi tu farvi?
85Lasciali star col lor malanno in pace.
Fuvvi in Atene un tal ricco spilorcio,
Che sprezzava i motteggi della gente
Fra se dicendo: Il popolo mi fischia,
Ma in casa io mi fo plauso allorch'i'prendo
90A contemplare i miei danar nell'arca.
Tantalo sitibondo anela all'acqua,
Che gli fugge dal labbro... E che? tu ridi?
La favola è di te sotto altro nome.
Su que'sacchi ammontati t'addormenti
95A bocca aperta, nè tastargli ardisci
Qual se fossero sacri, e di lor godi
Non altramente che d'un pinto volto.
Tu no non sai qual giovamento ed uso
Abbia il danar. Si compri pane e vino,
100Ortaggio, e quel di più che nostra frale
Natura sdegna che le sia negato.
Forse a te piace il vegghiar notte e giorno
Col batticuor, temendo ladri, incendj,
E schiavi che ti lascino in farsetto?
105Io non curo tai ben punto ne poco.
Ma tu dirai: se le mie membra assale
Ria febbre, o s'altro mal m'inchioda in letto,
Ho chi m'assista, chi i fomenti appresti,
Che al medico ricorra, affinchè sano
110E salvo mi ridoni alla mia gente.
Ah non la moglie e non il figlio brama
Che tu risani. A tutti in odio sei
Conoscenti e vicin, servi e fantesche.
Che maraviglia, se qualor posponi
115Ogni cosa al danar, nessuno in petto
Nutre per te quel che non merti, amore?
Se i parenti che a te Natura diede,
Senz'opra alcuna vuoi serbarti amici,
Tu sciagurato il tempo getti invano
120Qual chi insegnasse a un asinello in campo
Ir di galoppo, ed ubbidire al freno.
Se non altro abbia fin la tua ingordigia,
E quanto hai più, tanto minor paura
Ti faccia povertà; quando se'giunto
125A posseder quanto bramasti, allora
Almen ti metti in calma, e non far come
Un certo Uvidio (la novella è breve).
Ei ricco sì che misurar potea
Danari a staja, era sì sconcio e lordo,
130Ch'iva peggio vestito d'uno schiavo,
Sempre temendo di morir di fame.
Una sua serva, nuova Clitennestra,
Con un'accetta lo segò per mezzo!
= Ehi qual consiglio mi vuoi dar? Ch'io viva
135Qual Nevio, o Nomentano? = E tu pur segui
Cose discordi ad accozzar tra loro.
Non io, qualor ti vieto essere avaro,
Vo'che tu mi diventi un gocciolone
Ed uno sprecator. Qualche divario
140Tra 'l suocer di Visello e Tanai passa.
Tutto ha le sue misure, oltra le quali
Nè di quà, nè di là risiede il retto.
Torniamo onde partimmo. E nessun dunque
Pago è di sè, come l'avaro, e quei
145Che han preso altro cammin, colma di lodi?
E perchè la capretta del vicino
Più gonfio porta il sen, si va struggendo,
Nè alla turba maggior si paragona
De'meno facoltosi, e questo e quello
150Di trapassar s'affanna, ond'è che sempre
Altro più ricco fa al suo corso intoppo.
Quando son dalle mosse usciti i cocchi,
Di stare al pelo il carrettier si sforza
A'corridor che vede innanzi a'suoi,
155E quei che addietro si lasciò non cura.
Quinci è che rado noi troviam chi dica
D'aver condotto i dì felici, e parta
Di qua contento, come chi si leva
Da tavola satollo; e tanto basti.
160Perchè non abbi a dir che di Crispino
Lippo involai gli scrigni, io qui m'arresto.
**********************
-Satira II-
Sgualdrine a truppe, profumier, pitocchi,
Stufajoli, buffon, questa genia
Tutta in pena ed affanno è per la morte
Del musico Tigellio, e ciò perch'esso
5Donava a larga mano... Altri per tema
D'esser chiamato sprecator, neppure
A un meschinello amico un pane, un cencio
Darebbe per cacciar la fame e il freddo.
Se chiedi a un altro, ond'è, che i ricchi fondi
10Dilapidando va per far contenta
L'ingrata gola, e denar prende a usura
Per comperar tutti i boccon più ghiotti,
Ei ti risponde che non vuol la taccia
D'uomo spilorcio, e di cuor gretto e vile.
15Ei ne ottien da chi biasmo e da chi lode.
Fusidio ricco di poderi e censi
Paventa di milenso e sciupatore
La brutta infamia, e però vuol di frutto
Cinque per cento il mese anticipato,
20E più s'accana addosso a'più spiantati.
I nomi cerca di color che sotto
Austero genitor la viril toga
Vestita hanno di fresco. Ahi sommo Giove!
Chi non esclama all'udir ciò? Ma spese
25Almen costui farà pari al guadagno.
Anzi potresti a pena immaginarti
Quanto nemico di se stesso ei sia;
Tal che strazio minor di sè facea
Quel tapin vecchio da Terenzio esposto,
30Poichè scacciato ebbe di casa il figlio.
Se alcun cercasse, che vuoi dir con questo?
Vo'dire, che fuggendo i pazzi un vizio
A dar di petto van nel vizio opposto.
Maltin porta il sottano penzolone
35Fino a'talloni, ed altri move il riso
Col rivoltarlo in su fino alla pancia.
Rufillo è tutto odor, Gorgonio ammorba.
In somma nessun tien la via di mezzo. ec. ec.
**************************
-Satira III-
A'musici è comun questo difetto,
Che pregiati a cantare infra gli amici,
Mai non fan grazia; se nessun gli cerca,
Costor non danno mai più fine al canto.
5Tal fu Tigellio il Sardo. A lui potea
Fare Augusto medesmo istanze e preghi
Del suo gran padre e di se stesso in grazia,
Tutto era van; se gli saltava il grillo,
Dal suo primo cenar sino alle frutta
10Trillava, evviva Bacco, ora in soprano,
Or nel più basso tuono. Ei non fu mai
A sè medesmo ugual. Correa sovente
Qual chi fugge il nemico, e spesso andava
Lento come chi porta in giro i sacri
15Cesti di Giuno. Or ei dugento servi,
Or n'avea dieci a pena. A bocca gonfia
Parlamentava di tetrarchi e regi;
Poi detto avria, d'un qualsivoglia desco,
D'un salin puro, d'una grossa vesta,
20Che dal freddo mi pari, io son contento.
Ma se a quest'uom sì moderato e parco
Donavi un milion, tra cinque giorni
Non gli restava nello scrigno un soldo.
Vegghiar solea la notte infino all'alba,
25Poi russar fino a sera. Un incostante
Pari a costui non mai si vide in terra.
Talun dirammi: e tu non hai difetti?
Altri ne ho forse non minor di questi.
Menio tagliando i panni a Novio assente,
30Uno gli disse: Bada a te: non sai
Che ti conosco? e di gabbarne intendi?
Menio rispose: A me medesmo poi
Amo e so perdonare. O d'ogni biasmo
Degno amor proprio, e dissennato e ingiusto!
35Se cispo guati con l'impiastro agli occhi
Le colpe tue, perchè la vista aguzzi
Più d'aquila o serpente a'vizj altrui?
De'tuoi difetti ancor registro tiensi.
Colui, dice taluno, è sdegnosetto,
40Non regge all'altrui frizzo. È messo in burla,
Perch'è tosato mal, perchè la toga
Non ben gli quadra al dosso, al piè la scarpa,
Ma per bontà va innanzi a tutti, è amico,
E chiude in rozzo corpo un alto ingegno.
45Or tu scandaglia te medesmo, e mira,
Se inserito abbia in te vizj Natura,
O mal costume. Che ne'campi incolti
Germinar felce suol degna del foco.
Poniam mente allo stil de'ciechi amanti,
50Cui delle amiche le più sozze mende,
Non che disgusto, recano diletto,
Come fa d'Agna il polipo a Balbino.
Vorrei che un tale error nelle amicizie
Avesse luogo, e che si fosse a quello
55Dalla viertù trovato un nome onesto.
Del figlio il padre non aborre, e noi
Aborrir dell'amico non dovremmo
Qual ch'ei s'abbia difetto. Un padre appella
Luschetto un figlio che ha stravolti gli occhi,
60Piccin quel ch'è pimmeo come a'di nostri
Era Sisifo aborto di natura;
Bilenco chi stravolte ha le ginocchia,
E strambin chiama balbettando quello
Che mal si regge su i calcagni storti.
65Così da noi chi troppo il suo risparmia
Si nomini frugale, e chi ventoso
Mena di se jattanza un uom garbato
Che figura vuol far presso gli amici.
Se alcuno è truce e franco oltre il dovere,
70Di schietto e coraggioso abbiasi il nome;
S'è troppo caldo, risoluto il chiama.
Quest'è che le amistà lega, e conserva.
Ma noi siam usi alle virtù medesme
Cangiar sembiante, e intonacar vogliamo
75Con rea vernice un vaso puro e netto.
Uno è di buon costume? è abbietto e vile.
Quegli è tardo a parlare? è uno stordito.
Questi ogni agguato schiva, e il fianco inerme
A'maligni non offre, (e ciò in un tempo
80Che l'invidia imperversa, e in ogni banda
Trionfa la calunnia), anzichè il nome
D'accorto e destro, ha quel d'astuto e finto.
Se alcun va schietto e in quella foggia, ond'io
Spesso a te godo, o Mecenate, offrirmi,
85Tal che interrompa con parlar molesto
Chi medita o chi legge, a lui, diciamo,
Manca il senso comune. Oh quanto sciocca
Formiam contro noi stessi e iniqua legge!
Poichè nessuno è senza vizj al mondo,
90Ottimo è que' che n'ha la minor soma.
Un dolce amico i vizj miei ragguagli,
Com'è ben giusto, alle virtudi, e a queste
Di numero maggior, se pur son tali,
L'affetto inchini. S'egli vuol che a lui
95Io risponda in amor, con questa legge
Appo me troverà stadera uguale.
Se non vuoi che l'amico si disgusti
Delle tue natte, i suoi bitorzi escusa:
Chi per se vuol perdon, perdoni altrui.
100In somma giacchè in tutto sradicarsi
Non può nè l'ira, nè quant'altri vizj
S'attaccano agli stolti, e perchè dunque
Ragion non usa le misure e i pesi
Convenienti, nè a ciascun delitto
105Secondo il merto lor fissa il gastigo?
Se taluno mettesse in croce un servo,
Perch'egli nel levar di mensa i piatti
Trangugiò qualche pesce smozzicato,
E un po' di salsa, tra i cervelli sani
110E' si dirìa di Labeon più pazzo.
E pur quanto è maggior tua frenesia?
Fa un lieve error l'amico, a cui se nieghi
Compatimento, ognun ti tien per aspro
E per rubesto, e tu l'abborri e sfuggi,
115Come fanno Drusone i debitori,
Che se al primo del mese i cattivelli
Pronti non son a snocciolargli il frutto
O il capital, quai servi a collo teso
Le scipide sue storie a udir gli astrigne.
120Un pien di vino scompisciommi il letto,
O fe cadere in terra una scodella
Già stata fra le man del vecchio Evandro,
O la fame gli fe torre un pollastro
Che stava nel taglier dalla mia parte,
125Per questo ho da pigliar l'amico in urto?
Che farei, se m'avesse svaligiato,
Rotto il segreto, oppur la fè tradita!
Chi vuol che uguali sien tutte le colpe,
Quando al fatto si viene è in grande intrico.
130Il senso e l'uso vi s'oppone, ed anche
L'utilità, che quasi al giusto è madre.
Quando gli uomini primi usciro al mondo
Muti e sozzi animali ebbero insieme
Per le ghiande e le tane ad azzuffarsi
135Con unghie e pugni, co'baston dipoi,
Indi con l'armi che foggiò il bisogno,
Finchè inventate fur parole e nomi
A dinotar gl'interni sensi; e allora
Cessaron le battaglie, e alzate furo
140Città munite, e con le leggi esclusi
I furti, gli adulterj e le rapine.
Perocchè prima ancor d'Elena al mondo
Donne impudiche fur cagion di guerra,
Ma ignoti son que'che di fere in guisa
145Cercando pasto alla lussuria ingorda
Spense la mano di rival più forte,
Come toro che sventra i men gagliardi.
Se a scorrer prendi d'ogni età gli annali,
Vedrai che incontro all'oprar fello e ingiusto
150Fur le leggi dagli uomini inventate;
Nè Natura scevrar dal torto il dritto
Può come il ben dal male, il pro dal danno.
Nè ragion mai ti proverà che fallo
Commetta ugual chi pochi fusti infranga
155Nell'altrui campo, e chi di notte involi
Con sacrilega man gli arredi a i numi.
Regola v'abbia che delitto e pena
Tra lor pareggi; nè flagello atroce
Solchi le spalle a chi di sferza è degno;
160Ch'io già non ho timor che tu alla frusta
Danni chi meritò maggior gastigo,
Poichè tu di che l'assassinio e 'l furto
Son cose uguali, e di tagliar minacci
Con falce indifferente il poco e il molto,
165Qualor tu giunga a conseguire un regno.
So chi è saggio tuttinsieme è ricco,
Buon calzolajo, ei solo è bello ed anche
Re, perchè brami aver ciò che possiedi?
Ei mi dirà, Tu non sai quel che insegna
170Il gran padre Crisippo. Il saggio mai
Fatto non si ha nè sandali nè scarpe,
Eppure il saggio è calzolajo. Come?
In quel modo ch'Ermogene è cantore
E musico eccellente ancorch'ei taccia;
175In quel modo che dopo aver gittato
Via gli stromenti e chiusa la bottega,
Era cordovanier lo scaltro Alfeno;
Così di tutto il saggio è gran maestro,
E così re. - Sta in guardia che una turba
180Di ragazzi insolenti, o re maggiore
Di tutti i re, la barba non ti peli,
E se col nerbo non la tieni indietro,
Non ti s'affolli addosso, e tu frattanto,
O meschinello, invan ti sfiati urlando.
185Ma per finirla, mentre al bagno vai
Tu re con pochi soldi, e nessun altro
Che lo scempio Crispin ti fa la corte,
Io dolci amici avrò che alle mie colpe
D'inavvertenza accorderan perdono,
190Ed io del par compatirò lor falli
Ben volentieri, e tuttoche privato
Più di te, che re sei, vivrò contento.
**********************
-Satira IV-
Eupoli ed Aristofane e Cratino
E gli altri autor della commedia antica,
Se degno v'era alcun d'esser marcato
Perchè adultero, ladro, empio o sicario,
5O per qualc'altra reitade infame,
Con molta libertà metteanlo in gogna.
Su l'orme di costor Lucilio corre
Nel metro sol diverso, uom fino e arguto;
Nel verseggiar duretto; ecco il suo male.
10Spesso in un'ora ben dugento versi
(E gli parea gran cosa) avria dettati
Poggiato sur un piè. Tra quel suo fango
Menava cose di raccorsi degne,
Loquace, e mal reggente alla fatica
15Del comporre; i'vo'dir, del compor bene,
Chè quanto al molto io nol valuto un frullo.
Ecco Crispin col mignolo mi sfida:
Via, se ti piace, prendi il tuo quaderno,
Si fissino le guardie, il luogo e il tempo.
20Vedrem chi sia a compor di noi più lesto.
Ringrazio il Ciel che mi formò d'ingegno
Scarso e meschin, che raro parlo e poco.
Ma tu imita a tuo senno il vento chiuso
Ne'mantici che soffia senza cessa,
25Finchè nel foco s'ammollisca il ferro.
Felice Fannio, a cui spontaneo venne
L'onor dello scaffale e del ritratto:
Mentr'io non ho chi legga i versi miei,
E a recitargli in pubblico ho paura,
30Perchè questo mio stil dispiace, essendo
Molti al mondo, anzi i più, degni di biasmo.
Prendi un qual vuoi d'infra la turba, è desso
O di fausto macchiato, o d'avarizia.
Altri invescato è ne'più sozzi amori.
35Dal fulgor dell'argento altri è rapito.
Albio stordisce su i lavor di bronzo:
Chi dal levante va cangiando merci
Sino a'lidi che scalda il sol cadente.
E qual polve da turbine aggirata
40Precipitoso va tra mille rischi
Per timor di scemare il capitale
O per desio di vantaggiarlo. Tutti
Costor temono i versi, odiano i vati.
Fuggi lontan: Costui sul corno ha il fieno.
45Purchè di canzonar la voglia sfoghi,
Non guarda amici in viso, e quel che in carta
Schiccherò giù una volta, a tutti quanti
Ritornano dal forno, o dalla fonte
Ragazzi e vecchie di far noto agogna,
50Breve risposta udite in grazia. Io prima
Dal numero di quegli, a'quai comparto
Di poeta l'onor, levo me stesso.
Chè a ciò non basta l'accozzar due versi;
Nè s'altri imiti il favellare comune
55Scrivendo, com'io fo, questi è poeta.
Mente e ingegno divino, alto sonante
Bocca d'un tanto nome altrui fa degno
Perciò se fosse o no, cercaro alcuni,
Poema la Commedia, perchè in essa
60Nè cose nè parole han lena e brio,
Sennonchè il metro dal comun discorso
La differenzia. Ma in Commedia un padre
Monta in furor, perchè un suo figlio pazzo
Scialaquator va dietro a una bagascia,
65Nè prender moglie vuol con ricca dote,
Ed ubbriaco va con grave scorno
A torchi accesi innanzi sera in giro.
Forse minor rabbuffi udrìa Pomponio,
Se gli vivesse il padre? Or via non basta
70Versi formar con pure voci e schiette,
I quai non puoi scompor, che tu non senta
Qualunque altro sbuffare in tuon simìle
A quel che faccia in palco un finto padre.
Tal è se togli aquesti versi miei
75E a quegli ancora di Lucilio i tempi
E le misure fisse, e se turbando
L'ordine metti i primi accenti in fine,
Ed al principio fai passar gli estremi.
Ma se prendi a disfar questi altri versi:
80= Poichè discordia tetra ebbe le sbarre
= Di Giano infrante, e le ferrate porte,
Tu sempre ravvisar puoi brani e pezzi
Di poetico stile; e fin quì basti.
Se la Commedia tra i poemi ha loco,
85Vedremo in altro tempo. Or io sol cerco,
Se di buona ragion questa mia foggia
Di scriver sia da te presa in sospetto.
Bruschi e affiocati van con que'lor fogli
Girando Sulcio e Caprio, ambo spavento
90Degli assassin; ma chi le mani ha nette
Può sprezzar l'uno e l'altro allegramente.
Se a'ladron Celio e Birrio hai somiglianza
Io non son Caprio o Sulcio. E perc'hai dunque
Timor di me? Nè banco nè bottega
95Tiene in vendita esposti i libri miei,
Cui si stanchi a sfogliar Tigellio e il volgo.
Io non gli leggo salvo che agli amici,
Se non forzato, e non in tutti i luoghi,
E non in faccia di qualunque e'sia.
100Gente non manca che i suoi scritti legga
Nel bel mezzo del foro e sin ne'bagni,
U'la stanza alla voce ben risponde,
Vezzo di teste vote, a cui non cale
Oprare a caso e fuor di tempo e loco.
105Tu ferir godi e scaltramente il fai.
Or chi ti diè lo stral che tu m'avventi?
Forse alcuno di lor, co'quai converso?
Chi l'amico lontan morde, e non anzi
Dagli altrui morsi lo difende, e gode
110Di far rider la gente, e al vanto aspira
Di schernitor, chi false cose inventa,
Nè tacer sa i segreti a lui commessi,
Egli è un cor negro, e tu, Romano, il fuggi.
Spesso a un convito vedrai quattro insieme,
115Un de'quai copre d'insolenze tutti
Fuor che il padron, poi questo ancora, ov'abbia
Bacco sincero il petto a lui dischiuso.
E a te de'negri cor tanto nemico
Sembra costui gentile, urbano e schietto.
120Ed io se rido un pò perchè l'insulso
Rufillo è tutto odor, Gorgonio ammorba,
Pien di livor ti sembro e maldicente?
Se alcun farà de'furti di Petillo
Capitolin ricordo in tua presenza,
125Tu lo difendi alla tua bella usanza,
Dicendo: io fui suo commensale e amico
Sin da fanciullo, e a mio riguardo feo
Molte cose e poi molte. Or mi consola
Ch'egli sen viva sano e salvo in Roma.
130Maraviglio però com'ei potesse
Dal giudizio scampare. E quì sta il sugo
Della nera loligine, qui tutta
La ruggine s'accoglie. Or da un tal vizio
Che scevre sian mie carte, e più il mio cuore,
135Se di me protestar cosa veruna
Altra poss'io, con verità il protesto.
Se franco parlo alcuna volta e scherzo,
Vuolsi a me condonar questa licenza.
A ciò fare avvezzommi il mio buon padre,
140Che per farmi fuggir qualsiasi vizio
Me ne ponea gli esempli innanzi agli occhi.
Allorchè m'esortava a viver pareo,
Frugale e pago de'paterni acquisti,
Dicea: non vedi, come d'Albio il figlio
145Mal vive, e Barro stenta? Un grande avviso
Per non gettar le sue sostanze al vento.
Per tenermi lontan da'sozzi amori
E' mi dicea: non somigliar Settano.
Giacchè lecite nozze acquistar puoi,
150Tu lascia star le donne altrui. Trebonio
Colto in fallo ha perduto il suo buon nome,
Un dotto ti saprà dir le ragioni,
Ond'altro dee seguirsi, altro schifarsi.
A me basta tener l'uso mostrato
155Da'nostri antichi, e la tua vita e fama,
Finchè tu avrai di reggitor mestiero,
Assicurar. Quando t'avrà l'etade
Invigorito l'animo e le membra,
Allor potrai nuotar senza corteccia.
160Tal co'suoi detti mi venia formando
Nella tenera età. Se alcuna cosa
M'ordinava di far. Tu n'hai l'esempio,
E mi ponea dinanzi alcun soggetto,
D'infra i giudici scelti; e se vietava:
165Puoi tu dubbiar s'è ciò dannoso e turpe,
Quando tanto disnor n'ha questi e quegli?
Il funeral vicin tiene i malati
Golosi in freno, e col timor di morte
Gli sforza a star di sè medesmi in guardia.
170Così l'infama altrui spesso da'vizj
Giova a distor le tenerelle menti.
Perciò sano da quegli, onde a noi viene
Scorno e rovina a'mediocri vizj
Degni di venia, i'sono ancor suggetto.
175Forse da questi pure appien distormi
Saprà più lunga età, gli schietti amici,
E i miei stessi consigli. E veramente
Quando in letto mi trovo, o su la loggia,
A me non manco, e vo fra me dicendo:
180Più giusto è far così: così fia meglio;
E agli amici vivrò più accetto e grato.
Quel tale oprò non troppo ben. Fors'io
Il simile farò per impudenza?
Tai cose ruminando a chiuse labbra
185Va tra me stesso, e se m'avanza tempo
Le reco in carta, e questo un di que'vizj
Mezzani, a cui se negherai perdono,
Di poeti una turba in mio soccorso
Verrà (siam molti), e come tanti Ebrei
190Ti forzeremo a entrar nel nostro ghetto.
*****************************
-Satira V-
Della gran Roma uscito entro umil tetto
Fui dalla Riccia accolto in un col greco
Arcidotto maestro Eliodoro.
Passammo al foro d'Appio, ov'è gran turma
5Di barcaioli e ostier, maligna gente,
Noi movendo a bell'agio in due giornate
Spartimmo quel cammin, che da'più lesti
Di noi si compie in un sol dì. Men grave
A chi viaggia lento è l'Appia via.
10Quivi a cagion della pestifer'acqua
Costringo il ventre a digiunare, e aspetto
Di mal umor che la brigata ceni.
Già la notte s'appresta a coprir d'ombre
La terra e 'l Cielo a seminar di stelle,
15Quand'ecco servi e navicchier l'un l'altro
Si strapazzano urlando: A noi la barca,
Mille persone vuoi cacciarvi. Ohe basta.
Tra l'esigere il nolo, e tra 'l legare
La mula al navicel si perde un'ora.
20Le insolenti zanzare e le ranocchie
Ci sturbano il dormir. Di grosso vino
Ciurmati vanno le lor belle assenti
Barcajuolo e pedon cantando a gara.
Questo alfin lasso s'addormenta, e quello
25Impoltronito al pascolo abbandona
La mula, e lega la cavezza a un sasso:
Poi si mette a russar col ventre all'aria.
Giorno era omai quando ci fummo accorti
Che la barca non va. Saltato a terra
30Un bizzarro cervel concia ben bene
Alla mula e al padron la testa e i lombi
Con un randel di salcio. Alle quattr'ore
Di sole usciti fuor le mani e il viso,
Feronia, ci lavammo al tuo bel fonte
35Dopo pranzo tre miglia rampicando
Giugnemmo a Terracina alto locata
Su bianchi massi. Là venir dovea
L'egregio Mecenate a in un Cocceo
Di grandi affari incaricati entrambo,
40Bravi a comporre i dissidenti amici.
Mentr'ivi stommi gli occhi cispi ungendo
Con nero empiastro, l'uno e l'altro arriva
Con Fonteo Capitone, uom veramente
Fatto a pennello, e sì d'Antonio amico
45Che nessun altro più. Fummo contenti
Di torci via da Fondi, ov'è pretore
Aufidio Lusco, motteggiando assai
D'un pazzo scrivanello il fasto vano,
Pretesta, laticlavo e profumiera.
50Quindi a noi stanchi fu grata dimora
La Città de'Mamursi ove la casa
Murena dienne e Capiton la cena.
Il giorno appresso a me giocondo e lieto
Più che altro mai spuntò, che in Sinoessa
55Plozio, Vario, e Maron recommi innante.
Più candid'alme unqua non ebbe il mondo,
E a cui più forte amor mi leghi e stringa.
Oh quai furo gli amplessi e il gioir nostro!
Finchè sana ho la mente, a un dolce amico
60Io nulla mai pareggerò. Poi dienne
Alloggio una villetta che dal ponte
Campan poco è discosta, e i commissarj,
Qual'è obbligo lor, le legna e il sale.
Di là per tempo a scaricarsi in Capoa
65Giunsero i muli. A Mecenate piacque
Di giocare alla palla. Io con Virgilio
N'andammo a letto: che non è tal gioco
Per chi pate mal d'occhi o mal di pancia.
Quinci partiti oltre all'ostel di Caudio
70La ricca villa di Cocceo m'accolse.
Or tu in breve Sermon, Musa, rammenta
A me qual surse tra Cicerro Messio
E Sarmento buffon fiero contrasto,
E qual d'ambo costor fusse la schiatta.
75Messio dagli Osci trasse il nobil sangue;
Sarmento ha viva ancor la sua padrona.
A rissa vien l'illustre coppia; e primo
Sarmento dice all'altro: veramente
Tu somigli un indomito rozzone.
80Noi sorridiam. Messio risponde, ho inteso,
Crollando il capo, e l'altro, o se non fosse
Stato reciso alla tua fronte un corno,
Che mai faresti, se scornato ancora
Ardischi minacciar? Cicerro avea
85Da sozza circatrice a man sinistra
Sformato il ceffo setoloso ed irto.
Dopo molto burlar sul mal campano
E su la brutta faccia, il prega a fare
Il ballo del Ciclopo, non avendo
90Di maschera mestier nè di coturno.
Messio all'incontro il ricercò se appesa
Avesse in voto la catena a i Lari.
Bench'ei tenesse di scrivan l'ufficio,
Non i suoi dritti la padrona avea
95Su lui perduti; e domandògli in fine
Perch'ei fosse fuggito, essendo assai
Per lui gracile e nano una ogni giorno
Libra di farro a disfamarsi. In somma
Con gran piacer si prolungò la cena.
100Tirammo diviato a Benevento,
Dove l'oste a girare una spiedata
di magri tordi affaccendato, corse
Gran rischio di bruciar; poichè la fiamma
Per la vecchia cucina alto vagando
105S'affrettava a lambir le travi e il tetto.
Veduto avresti allor padroni e servi
Tutti affannati per salvar la cena,
E in un bramosi d'ammorzar l'incendio.
Qui comincia a scoprir Puglia le sue
110Riarse da Garbin note montagne,
Dalle quai non avremmo unqua potuto
Trar fuori il piè se alloggio non ne dava
La prossimana villa di Trevico,
Ove a noi fè lagrimar gli occhi il fumo
115D'accesi rami e foglie umide e verdi.
Qui fino a mezza notte una ragazza
Che mi mancò di fè, sciocco balordo
Mi stetti ad aspettar tanto che scese
Da'desir vani a liberarmi il sonno.
120Fummo di là per ventiquattro miglia
In biroccio condotti a un picciol borgo
Che non ha luogo in latin verso; a'segni
È facile indicarlo. Ivi si vende
Quel che per tutto è sì comun, fin l'acqua,
125Ma vi si trova un eccellente pane,
Tal che in uso ha l'accorto viaggiante
Di caricarne il dorso, e ha ben ragione,
Perchè il pan di Canosa è tutto arena;
Nè d'acqua meglio sta benchè sue mura
130Vanti fondate da Diomede il forte.
Lì Vario mesto abbandonò gli amici
In doglia e pianto. Di là poscia a Ruva
Giugnemmo stanchi d'una lunga strada
E rotta dalle piogge. Il dì seguente
135Miglior fu il tempo, ma peggior la via
Fino a Bari città di pesciajuoli.
Poi Gnazia fabbricata in ira a'fiumi
Sollazzo e riso ne recò volendo
Mostrar che su la soglia d'un suo tempio
140L'incenso senza foco arde e si squaglia.
Se 'l creda pur Barue Abbà, se il vuole,
Io no, perchè imparato ho che gli Dii
Scevra da cure godonsi la vita,
Nè, se qualche prodigio opra Natura,
145Quei briga d'ordinarlo han da'superni
Balcon del cielo. A Brindisi, ov'io sono,
Finisce il lungo mio viaggio e 'l foglio.
********************
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Giovanni Pascoli - Traduzioni e riduzioni - Da Quinto Orazio Flacco
-Pensiamo a vivere-
Non cercare così — chè non si può — quale a me, quale a te
sorte, o Candida, sia data da Dio; lascia di leggere
quelle cifre Caldee. Prenditi su quel che viene, e via!
O che abbiamo più verni anche, oppur sia l'ultimo questo, che
ora il mare tirreno urta ed infrange alle scogliere, tu
spoglia il vino nel filtro, e, s'è così breve la nostra via,
lunga non la voler tu la speranza Ecco, parliamo e un po'
questa vita fuggì. L'oggi lo sai: non il domani, oh! no.
***********************
-Il voto del poeta-
Che mai nel nuovo tempio il poeta al dio
domanda, mentre versa il vin nuovo dalla tazza, e prega?
Non le messi fertili della Sardegna opima,
e non le ricche mandre dell'arsa mia
Calabria, non l'oro indo e l'avorio, non
i campi cui con placid'acqua il tacito fiume del Liri rode.
A cui le diè la sorte, si poti le
Calene viti; il ricco mercante in suoi
bicchieri d'oro beva il vino
ch'egli cambiò con le droghe Syre;
persino al cielo caro, ch'ogni anno ei va
più volte incolume a rivedere il mar
d'Atlante. Io ceno con le olive
mangio radicchio e leggiere malve.
O della Notte figlio, a me dà godere il poco bene mio, con le forze mie,
con tutta, prego, la mia mente,
vecchio, ma sano; e poeta sempre!
******************
-Convito semplice-
Io non voglio aromi di Persia; sdegno
le ghirlande unite con fil di tiglio:
non andarmi in caccia di rose, ancora
vive sul bronco.
Basta il mirto! nulla v'aggiunsi! Troppo
vuoi, ragazzo, tu. Non il mirto è cosa
che disdica a te che mi porgi, a me che
vuoto, la coppa.
***************
-Il fonte di Bandusia-
Fonte di Bandusia, puro cristallo, che
vino meriti e fiori, ecco domani a te
d'un capretto vuo' fare
dono: ha già le prime corna, e già
Egli sogna l'amore e le battaglie, e no;
ché la gelida tua acqua colorirà
col purpureo sangue il
figlio del gregge mio.
Te la canicola fiera toccar non sa,
un soave tu dai freddo meridiano
ai buoi sazi d'arare ed
alla mandra che pascola.
Ancor tu diverrai delle fontane che
sono in grido, mentr'io canti quel leccio sui
massi di dove il fil d'acqua
tuo col suo chioccolìo vien giù.
********************
-Fauno-
Fauno ch'ami le fuggitive ninfe,
dal mio regno, dai solatii miei campi
tu senz'ira, senza guastarmi i redi
piccoli passa;
se un capretto nato nell'anno uccido,
se il boccale empisco per te del vino
ch'è compagno a Venere, e lìara antica
fuma d'incenso.
Tutto il branco è là nella piana e ruzza,
per la festa tua decembrina, e torno
torno ha scioperio con gli sfaccendati
bovi il villaggio.
Erra tra gli agnelli sicuri il lupo; ed
ogni selva sparge per te le foglie e,
con un odio allegro, il villan la terra
picchia in tre tempi.
***************
-La festa di Nettuno-
Di Nettuno è la festa: e che
debbo fare? Tu via, Lide, quel Cècubo,
riserbato per questo dì,
spilla, e sforza la tua dura severità.
Senti che il mezzogiorno passa
e tu, come se stia fermo l'alato dì,
non ancor dal celliere hai giù
tolta l'anfora ch'ha gli anni di Bibulo?
Io Nettuno poi canterò
con le verdi chiomate onde di nereo:
sulla cetra Latona tu
con la rapida sua vergine canterai;
con l'estrema canzone noi
canteremo la dea Gnidia, che a Pafo va
sopra candidi cigni, ma
poi la Notte la nota ultima (è giusto) avrà.
******************
-Il vanto del poeta-
Forte più che di bronzo il monumento mio!
Alto più delle regie alte piramidi!
Non la pioggia che rode, il tramontano ch'urta,
il succedersi d'anni, il fuggir via di tempo,
altro può sopra lui. Tutto non morirò.
Molta parte di me sfugge al sepolcro.
Sempre io moderno sarò tra la posterità
gloriante, finché salga il Pontefice
con la tacita Gran Vergine il sacro colle.
E di me si dirà: «Dove spumeggia e va
l'Aufido, ove regnò povero d'acqua, re
Dauno di campagnoli, egli si sublimò:
primo le melodie greche egli fece nostre
ed agli Itali diè gl'inni di Lesbo».
Fa dunque il vanto che devi, o fiera dea del canto:
alla chioma l'allor cingimi del tuo re.
*******************
-Invito a Phyllide-
D'un Albano più che novenne ho pieno
pieno un caratello, ne l'orto ho l'appio
buono, o Phylli, per intrecciare i serti;
edera ho molta
che sol d'essa adorna i capelli, brilli;
e argenti ride la casa; e l'ara
di verbene pie coronata, il sangue
vuol d'un agnello;
ha la sua faccenda ogni mano; attorno
vanno in fretta misti a le ancelle i servi;
la fiammata trema rotando in nero
vortice il fumo.
***************
-Dal Carme Secolare-
Sol di vita che con il fiammeo carro
porti e celi il giorno, che sempre un altro e
sempre quello sei, non veder di Roma.
Nulla più grande!...
Fede e Pace, Onore e Costume antico ed
osa le negletta Virtù tornare e
già si mostra l'universal Ricchezza
piena di doni...
*******************
-Casa mia-
Questo è il sogno che feci: un poderetto , con l'orto
ch'abbia a du' passi da casa un'acqua perenne di polla,
ch'abbia, per giunta, un poco di selva...
Sai tu luogo che vinca nell'abbondanza la villa?
dove ci sia più caldo nel verno? e dove la brezza
mitighi più l'arsura del Cane, e ti ventili quando
tocco il Leon ruggì scotendo le freccie del sole?
dove le cure ti limino meno e ti tolgano il sonno?
Peggio t'odora un prato ed è men bello che i marmi?
Limpida più, in città, è l'acqua costretta nel piombo,
forse, che quella che giù per il rio, va, scivola e canta?...
far lungh'esso, merenda, e un sonnellino sull'erba...
Monti e poi monti di fila, se non che ombrosa una valle
s'apre, ma sì che il sol crescente la illumina a destra:
tramontando, la scalda a sinistra con gli ultimi raggi...
Niuno costì quel poco di bene con gli occhi mi lima
lividi, non mi ci mette l'oscuro veleno dell'odio...
*****************
-Lucilio-
Già che l'ho detto: i versi di Lucilio
vanno a vanvera. Quale è sì arrabbiato
luciliano che anche lui nol dica?
E sì che lodo in quella stessa carta
ch'abbia di molto su Roma frizzato;
ma con ciò io non lodo anche il restante;
chè allor, de' mimi di Laberio, come
fior di poemi, strabiliar dovrei.
Però non basta fare ismascellare
gli spettatori (e pur c'entra un che d'arte):
Brevità vuolsi, se il pensier dee correre
e non incespicar nelle parole
pesanti che affaticano l'orecchio:
ci vuole un far più spesso da burletta;
anche serio, ogni tanto; che ci paia
l'oratore a sua volta ed il poeta,
e il cittadin di spirito a sua volta,
ma che poi non lo sprechi, anzi lo smorzi
a bella posta. Grandi questïoni
più netto e bene te le taglia un motto
festevole, che tante sfurïate.
Con questi avvisi si teneano in gamba
nella vecchia commedia gli scrittori;
quelli sì ch'eran uomini; ed in questo
son da imitare; e non li ha letti mica
quel bel tipo d'Ermogene e codesto
scimmiotto che non sa cantilenare
se non le baie di Catullo e Calvo. —
Ma gran cosa egli fece a mescolare
quelle greche parole alle latine. —
morto che fu, bastassero le scara-
battole de' suoi scritti al capannuccio.
Sia Lucilio, diciamolo, Faceto
e spiritoso; pulizia di lima
abbia me' di colui che s'è provato
prima in cotale poesia di villa,
che i Greci non toccarono, e di tutti
quanti sono i poeti antichi; ma
se il fato non avesse atteso il nostro tempo
per farlo nascer oh! molto di dosso
si scrollerebbe, e tutto mozzerebbe
quel che il pensiero strascica di coda;
si gratterebbe per trovare un verso,
sovente il capo, e sino al vivo l'ugne
si roderebbe. Lo stil volgi e frega
e frega, o tu che scrivi, se lo scritto
vuoi che si legga la seconda volta.
Non t'allarmare acciò t'ammiri il volgo:
sta contento a pochini che ti leggano
e rileggano. Pazzo! ami piuttosto
che il pedante li porti alla scoletta,
i tuoi versi, e li compiti? Non io:
che mi basta l'applauso dell'orchestra,
come uscì a dire Arbuscula, la volta
che fu fischiato, non badando agli altri.
M'ho a risenire se mi pinza quella
cimice di Pantilio? M'ho a crucciare
se Demetrio mi stuzzica, alle spalle?
se di me taglia lo scioccon di Fannio
parassita d'Ermogene Tigellio?
Gàrbino queste mie scritture a Plozio
e a Vario; a Virgilio e Mecenate;
a Valgio e Ottavio, ed al mio bravo Fusco;
Non fo per dar la soia, ma potrei
te, Pollïon, contare e te, Messala
con tuo fratello, e voi Bibulo e Servio,
e te con loro, Furnio mio sincero;
e ce n'è parecchi altri, amici, gente
che sa, che taccio per non farla lunga;
ai quali, oh! se vorrei che le mie cose
andasser, come che le sian, a sangue;
e mi dorrei se le piacesser meno
della nostra speranza. Tu, Demetrio,
e tu, Tigellio... andate tra le vostre
scolare a gagnolare e sbietolare.
Lesto, ragazzo, e aggiungi questo al libro.
******************
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