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Vittorio Alfieri: Vita&Opere
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MessaggioInviato: Mer Ott 11, 2006 1:38 pm    Oggetto:  Vittorio Alfieri: Vita&Opere
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Vittorio Alfieri: Vita.

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«Bisogna sempre dare spontaneamente quello che non si può impedire ti venga tolto» (V. Alfieri)

Vittorio Amedeo Alfieri (Asti, 16 gennaio 1749 – Firenze, 8 ottobre 1803) è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo italiano.

«Nella città di Asti, in Piemonte, il dì 17 gennaio[1] dell'anno 1749, io nacqui di nobili, agiati ed onesti parenti».

Così Vittorio Alfieri - maggiore poeta tragico italiano del Settecento - presenta sé stesso nella Vita scritta da esso, autobiografia scritta intorno al 1790. Nel corso della sua breve quanto intensa esistenza lo scrittore del «Volli, e sempre volli, e fortissimamente volli» non trascurerà neppure questo genere letterario. Del resto, il suo carattere tormentato, oltre che a delineare la sua vita in senso avventuroso, lo renderà un precursore delle inquietudini romantiche.

Indice [in questa pagina]:

1 Biografia
2 Infanzia e educazione
3 I viaggi
4 Ritorno a Torino
5 La contessa d'Albany
6 La rivoluzione francese e Napoleone
7 Libertà ideale, titanismo e catarsi
8 L'eredità spirituale
9 Alfieri e la Massoneria
10 La piemontesità
11 Alfieri e la musica
12 Alfieri e l'arte
13 Alfieri nello sport
14 Alfieri nei francobolli italiani
15 Alfieri nelle monete italiane
16 Note

*****************

Biografia

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Ritratto di Giulia Alfieri.

-Infanzia e educazione-

«Rimasto dunque io solo di tutti i figli nella casa materna, fui dato in custodia ad un buon prete, chiamato don Ivaldi...»

(da Vita di V. Alfieri, Epoca prima, 1755, capitolo II)

Vittorio Alfieri nacque dal conte di Cortemilia Antonio Amedeo Alfieri e dalla savoiarda Monica Maillard de Tournon (già vedova del marchese Alessandro Cacherano Crivelli).

Il padre morì nel primo anno di vita di Vittorio e la madre si risposò nel 1754 con il cavaliere Carlo Giacinto Alfieri di Magliano.

Visse fino all'età di nove anni e mezzo ad Asti a Palazzo Alfieri (la residenza paterna), affidato ad un precettore, senza alcuna compagnia. Dei due fratelli che aveva, Giuseppe Maria morì dopo pochi mesi di vita e la sorella Giulia fu mandata presso un monastero astigiano.

Nel 1758, per volere del suo tutore, lo zio Pellegrino Alfieri, governatore di Cuneo e nel 1762 viceré di Sardegna, fu iscritto all'Accademia Reale di Torino.

Alfieri frequentò l'Accademia dove compì i suoi studi di grammatica, retorica, filosofia, legge. Venne a contatto con molti studenti stranieri, i loro racconti e le loro esperienze lo stimolarono facendogli sviluppare la passione per i viaggi.

Dopo la morte dello zio, nel 1766 lasciò l'Accademia non terminando il ciclo di studi che lo avrebbero portato all'avvocatura e si arruolò nell'Esercito, diventando "portinsegna" nel reggimento provinciale di Asti. Rimase nell'esercito fino al 1774 e si congedò col grado di luogotenente.

-I viaggi-

«A ogni conto voleva io assolutamente morire, ma non articolai però mai tal parola a nessuno; e fingendomi ammalato perché l'amico mio mi lasciasse, feci chiamare il chirurgo perché mi cavasse il sangue, venne e me lo cavò.»

(da Vita di V. Alfieri, Epoca terza,1768, capitolo VI)

Tra il 1766 ed il 1772, Alfieri cominciò un lungo vagabondare in vari stati dell'Europa. Visitò l'Italia da Milano a Napoli sostando a Firenze e a Roma, nel 1767 giunse a Parigi dove conobbe Luigi XV che gli parve un monarca tronfio e sprezzante. Deluso anche dalla città, a gennaio del 1768 giunse a Londra e dopo un lungo giro nelle province inglesi, andò in Olanda.

A L'Aia visse il suo primo amore con la moglie del barone Imhof, Cristina. Costretto a separarsene per evitare uno scandalo, tentò il suicidio, fallito per il pronto intervento di Elia, il suo fidato servo che lo seguiva in tutti i suoi viaggi.

Rientrò a Torino dove alloggiò in casa di sua sorella Giulia che nel frattempo aveva sposato il conte Giacinto Canalis di Cumiana. Vi rimase fino al compimento del ventesimo anno di età, quando entrando in possesso della sua cospicua eredità decise di lasciare nuovamente l'Italia.

Tra il 1769 ed il 1772, in compagnia del fidato Elia, compì il secondo viaggio in Europa: partendo da Vienna passò per Berlino, incontrando con fastidio e rabbia Federico II, toccò la Svezia e la Finlandia, giungendo in Russia, dove non volle neppure essere presentato a Caterina II, avendo sviluppato una profonda avversione al dispotismo.

Raggiunse Londra e nell'inverno del 1771, conobbe Penelope Pitt, moglie del visconte Edward Ligonier, con la quale instaurò una relazione amorosa. Il visconte, scoperta la tresca, sfidò a duello l'Alfieri. Lo scandalo che seguì ed il processo per adulterio, pregiudicarono una possibile carriera diplomatica dell'Alfieri, che in seguito a questi fatti fu costretto a lasciare la donna e la terra d'Albione.

Riprese così il suo girovagare prima in Olanda, poi in Francia, Spagna ed infine Portogallo, dove a Lisbona incontrò l'abate Valperga di Caluso che lo spronò a proseguire la sua carriera letteraria. Nel 1772 cominciò il viaggio di ritorno.

-Ritorno a Torino-

Il ventiquattrenne Alfieri rientrò nel capoluogo piemontese nel 1773 e si dedicò allo studio della letteratura, rinnegando in tal modo, secondo le sue stesse parole, «anni di viaggi e dissolutezze»; a Torino prese una casa in piazza San Carlo, la ammobiliò sontuosamente, ritrovò i suoi vecchi compagni di Accademia militare e di gioventù. Con loro istituì una piccola società che si riuniva settimanalmente in casa sua per «banchettare e ragionare su ogni cosa», la "Societé des Sansguignon", in questo periodo scrisse «cose miste di filosofia e d'impertinenza» per la maggior parte in lingua francese, tra cui l'Esquisse de Jugement Universél, ispirato agli scritti di Voltaire.

Ebbe anche una relazione con la marchesa Gabriella Falletti di Villafalletto, moglie di Giovanni Antonio Turinetti marchese di Priero. Tra il 1774 ed il 1775 portò a compimento la tragedia Antonio e Cleopatra, rappresentata a giugno di quello stesso anno a Palazzo Carignano, con successo.

Nel 1775 troncò definitivamente la liaison amorosa con la marchesa Falletti, e studiò e perfezionò la sua grammatica italiana riscrivendo le tragedie Filippo e Polinice, che in una prima stesura erano state scritte in francese.

Nell'aprile dell'anno seguente si recò a Pisa e Firenze per il primo dei suoi "viaggi letterari", dove iniziò la stesura dell'Antigone e del Don Garzia. Tornò in Toscana nel 1777, in particolare a Siena, dove conobbe quello che sarebbe diventato uno dei suoi più grandi amici, il mercante Francesco Gori Gandellini. Questi influenzò notevolmente le scelte letterarie dell'Alfieri, convincendolo ad accostarsi alle opere di Niccolò Machiavelli. Da queste nuove ispirazioni nacquero La congiura de' Pazzi, il trattato Della Tirannide, l' Agamennone, l' Oreste e la Virginia (che in seguito susciterà l'ammirazione del Monti).

La contessa d'Albany

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Alfieri e la contessa d'Albany, F. X. Fabre, 1796, Torino, Museo Civico di arte antica.

«Un dolce foco negli occhi nerissimi accoppiato (che raro addiviene) a candidissima pelle e biondi capelli davano alla di lei bellezza un risalto, da cui difficile era di non rimanere colpito o conquisto.»

(da Vita di V. Alfieri, Epoca quarta, 1777, capitolo V)

Nell'ottobre del 1777, mentre terminava la stesura di Virginia, conobbe la donna che lo tenne a sé legato per tutto il resto della vita: Luisa Stolberg d'Albany, moglie di Carlo Edoardo Stuart, pretendente al trono d'Inghilterra. Nello stesso periodo l'Alfieri si dedicò alle opere di Virgilio e terminò il trattato Del Principe e delle lettere e il poema in ottave L'Etruria vendicata.

Nel 1780, con l'avallo del governo granducale, la contessa d'Albany riuscì ad abbandonare il marito rifugiandosi a Roma presso il convento delle Orsoline, con l'aiuto di suo cognato cardinale e duca di York.

Dopo qualche tempo l'Alfieri, che nel frattempo aveva donato tutti i beni e le proprietà feudali alla sorella Giulia riservandosi un vitalizio ed una parte del capitale[2], raggiunse a Roma la contessa e si recò poi a Napoli dove terminò la stesura dell' Ottavia ed ebbe modo di iscriversi alla loggia massonica della "Vittoria".

Tornò a Roma stabilendosi a Villa Strozzi presso le Terme di Diocleziano, con la contessa d'Albany, che nel frattempo ottenne una dispensa papale che le permise di lasciare il monastero. Nei due anni successivi di soggiorno romano lo scrittore portò a compimento le tragedie Merope e Saul.

Nel 1783, Alfieri fu accolto all'Accademia dell'Arcadia col nome di Filacrio Eratrastico. Nello stesso anno terminò anche l'Abele. Tra il 1783 ed il 1785 pubblicò in tre volumi la prima edizione delle sue tragedie stampate dai tipografi senesi Pazzini e Carli.

Ma questo periodo idilliaco fu bruscamente interrotto dal cardinale di York, il quale scoprendo la relazione dello scrittore con la cognata, gli intimò di abbandonare Roma.

Alfieri, con il pretesto di far conoscere le proprie tragedie ai maggiori letterati italiani, intraprese una serie di viaggi. Conobbe Ippolito Pindemonte a Venezia, Melchiorre Cesarotti a Padova, Pietro Verri e Giuseppe Parini a Milano. Ma le tragedie raccolsero per la maggior parte giudizi negativi. Solamente il critico Ranieri dé Calzabighi si complimentò con lo scrittore che con le sue opere aveva posto il teatro italiano sullo stesso piano di quello transalpino.

Nell'aprile del 1784, la contessa d'Albany, per intercessione di Gustavo III di Svezia, ottenne il divorzio dal marito ed il permesso di lasciare Roma e si ricongiunse all'Alfieri ad agosto, nel castello di Martinsbourg a Colmar, in segreto, per salvare le apparenze e la pensione della contessa. A Colmar, l'Alfieri scrisse l'Agide, la Sofonisba e la Mirra.

Costretti ad abbandonare l'Alsazia alla fine dell'anno, per l'obbligo della contessa di risiedere negli stati pontifici, l'Alfieri si sistemò a Pisa e la Stolberg a Bologna.

La già insostenibile situazione fu aggravata dalla improvvisa morte dell'amico Gori. Sono di quel periodo alcune rime tra cui il Panegirico di Plinio e Traiano e le Note, sorte in polemica risposta verso le critiche negative alle sue tragedie.

Nel 1785 portò a termine le tragedie Bruto primo e Bruto secondo. Nel dicembre del 1786, l'Alfieri e la Stolberg (che sarebbe divenuta vedova due anni dopo), si trasferirono a Parigi acquistando due case separate; in questo periodo furono ripubblicate le sue tragedie per opera dei famosi stampatori Didot. Nel salotto della Stolberg l'Alfieri conobbe molti letterati, in particolare fece la conoscenza di André Chénier, che ne rimase talmente colpito da dedicargli alcuni suoi scritti.

-La rivoluzione francese e Napoleone-

«Laonde io addolorato profondamente, sì perché vedo continuamente la sacra e sublime causa della libertà in tal modo tradita, scambiata e posta in discredito da questi semifilosofi.»

(da Vita di V. Alfieri, Epoca quarta, 1790, capitolo XIX)

Nel 1789, l'Alfieri e la sua compagna furono testimoni oculari dei moti rivoluzionari di Parigi. Gli avvenimenti, in un primo tempo fecero comporre al poeta l'ode a Parigi sbastigliato, ma che poi rinnegò e l'entusiasmo si trasformò in odio verso la rivoluzione materializzato nelle rime del Misogallo.

Nel 1792 l'arresto di Luigi XVI e le stragi del 10 agosto convinsero i due a lasciare definitivamente la città per tornare in Toscana e tra il 1792 ed il 1796, l'Alfieri si immerse totalmente nello studio dei classici greci traducendo Euripide, Sofocle, Eschilo, Aristofane. Proprio da queste ispirazioni nel 1798 nacque l'ultima tragedia alfieriana: l' Alceste seconda.

Tra il 1799 ed il 1801 le vittorie francesi sul suolo d'Italia costrinsero l'Alfieri a fuggire da Firenze per rifugiarsi in una villa presso Montughi. Il suo "misogallismo" gli impedì persino di accettare la nomina a membro dell'Accademia delle scienze di Torino nel 1801.

Tra il 1801 ed il 1802, compose sei commedie: L'uno, I pochi, I troppi, tre commedie sulla visione satirica dei governi dell'epoca; Tre veleni rimesta, avrai l'antidoto, sulla soluzione ai mali politici (quasi un testamento politico dell'Alfieri), La finestra, ispirata ad Aristofane ed Il divorzio frutto di riminiscenze giovanili.

Si spense l' 8 ottobre 1803, e venne sepolto nella basilica di Santa Croce. A sua memoria rimane lo splendido monumento funebre di Antonio Canova.

Libertà ideale, titanismo e catarsi

Fin da giovane Vittorio Alfieri dimostrò un energico accanimento contro la tirannide e tutto ciò che può impedire la libertà ideale. In realtà risulta che questo antagonismo fosse diretto contro qualsiasi forma di potere che gli appariva iniqua e oppressiva. Anche il concetto di libertà che egli esalta non possiede precise connotazioni politiche o sociali, ma resta un concetto astratto.

La libertà alfieriana, infatti, è espressione di un individualismo eroico e desiderio di una realizzazione totale di sé. Infatti Alfieri sembra presentarci, invece che due concetti politici (tirannide e libertà), due rappresentazioni mitiche: il bisogno di affermazione dell'io, desideroso di spezzare ogni limite e le "forze oscure" che ne ostacolano l'agire. Questa ricerca di forti passioni, quest'ansia di infinita grandezza, di illimitato è il tipico titanismo alfieriano, che caratterizza, in modo più o meno marcato, tutte le sue opere.

Ciò che viene tanto osteggiato da Alfieri è molto probabilmente la percezione di un limite che rende impossibile la grandezza, tanto da procurargli costante irrequietezza, angosce e incubi che lo costringono a cercare nei suoi innumerevoli viaggi ciò che può trovare soltanto all'interno di sé stesso.

Il sogno titanico è accompagnato da un costante pessimismo che ha le radici nella consapevolezzadell'effettiva impotenza umana. Inoltre la volontà di infinita affermazione dell'io porta con sé un senso di trasgressione che gli causerà un senso di colpa di fondo, che verrà proiettato appunto nelle sue opere per trovare un rimedio al proprio malessere; fenomeno, questo, che viene chiamato catarsi.

L'eredità spirituale

«Il seme che hai piantato, o Alfieri, fruttò ed ora l'Italia combatte e sarà grande»

(da una dedica sul libro delle firme in Palazzo Alfieri, 1849)

Alfieri ha fortemente ispirato la letteratura ed il pensiero italiano del XIX secolo.

Foscolo lo ha cantato nei "Sepolcri", Leopardi lo ha immaginato suo maestro nella canzone "Ad Angelo Mai", Manzoni si è ispirato ai suoi saldi principi e così Gioberti, Oriani,Carducci.

I primi uomini del Risorgimento italiano, da Santorre di Santarosa a Cesare Balbo, si riconobbero nei suoi ideali e la casa natale di Asti fu meta di moltissimi uomini che combatterono per l'unità d'Italia.

Alfieri e la Massoneria

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Assemblea massonica, Vienna 1791.

Nel capitolo della Vita riferito al 1775, l'Alfieri narra come durante un banchetto di liberi muratori declamò alcune rimerie :

«Egli ti additi il murator primiero,

Del grande Ordine infin l'origo estrema
E se poi ti svelasse un tanto arcano,
Avresti tu sì nobili concetti
E ad inalzare il vol bastante mano?
Ah, scusatela si, fratei diletti;
Non ragiona l'insana, oppur delira.

Quando canta di voi con versi inetti.»


Egli chiede scusa ai fratelli se la sua musa inesperta osa cantare i segreti della loggia. Poi il sonetto prosegue menzionando il Venerabile, il primo Vigilante, l'Oratore, il Segretario.

Anche se negli elenchi della massoneria piemontese il nome dell'Alfieri non è mai comparso, Roberto Marchetti suppone che egli fosse stato iniziato in Germania o Inghilterra, nel corso di uno dei suoi viaggi giovanili.

È assodato che moltissimi suoi amici furono massoni e dall'elenco, posseduto dal centro alfieriano di Asti, che menziona i personaggi ai quali il Poeta inviò la prima edizione delle sue tragedie (1783), compaiono i fratelli von Kaunitz, di Torino, Giovanni Pindemonte e Gerolamo Zulian a Venezia, Annibale Beccaria (fratello di Cesare), Luigi Visconte Arese e Gioacchino Pallavicini di Milano, Carlo Gastone Rezzonico a Parma, Saveur Grimaldi a Genova, Ludovico Savioli a Bologna, Kiliano Caraccioli Maestro venerabile a Napoli, Giuseppe Guasco a Roma.

L'Alfieri compare alcuni anni dopo, al numero 63 dell'elenco nel "Tableu des Membres de la Respectable Loge de la Victoire à l'Orient de Naples" in data 27 agosto 1782, con il nome di "Comte Alfieri, Gentilhomme de Turin".

La sua affiliazione alla loggia di Napoli fu sicuramente favorita dai frequenti soggiorni in quella città e soprattutto dall'importanza che Napoli accrebbe nei confronti della Massoneria, dal momento che i Savoia,di lì a poco chiusero ogni attività massonica in Piemonte (1783), costringendo il conte Asinari di Bernezzo, capo della massoneria italiana di rito scozzese, a cedere la carica proprio al principe Diego Naselli di Napoli.

Durante il periodo dell'affiliazione, Alfieri si cela per la sua corrispondenza ai confratelli sotto lo pseudonimo di conte Rifiela.

Con il sopraggiungere in Europa dei venti rivoluzionari che sfoceranno poi nella rivoluzione francese, l'Alfieri prese le distanze dalla setta, forse perché essa accentuò l'impegno giacobino, antimonarchico, anticlericale, o forse anche per quel suo aspetto caratteriale indipendente fino all'ossessione. Nella satira di Le imposture (1797) si scaglierà contro i suoi vecchi confratelli apostrofandoli come "fratocci" che imbambolavano gli adepti per farne creature proprie, ingenuo piedistallo per i furbi.

La piemontesità

Giosuè Carducci affermò che l'Alfieri, insieme all'Alighieri e a Machiavelli: «è il nume indigete d'Italia».

Secondo Pietro Cazzani, direttore del Centro studi Alfieriani tra il 1939 ed il 1957, la differenza di fondo (oltre a quelle ben più evidenti): «è la "toscanità" del fiorentino, i cui umori si trasformano in aggressive ironiche fantasie, contrapposta al "piemontesismo" dell'astigiano, la cui seria moralità prende toni cupi con impensabili estri».

Per Umberto Calosso, ne L'Anarchia di Vittorio Alfieri, (Bari 1924) il poeta non dimenticò mai le sue origini, con quel «misto di ferocia e generosità, che non si potrà mai capire da chi non ha esperienza dei costumi e del sangue piemontese».

Alfieri scrisse poi due sonetti (gli unici) in lingua piemontese datati aprile e giugno 1783.

Ecco il testo del primo:

(Pms)

« on dur, lo seu, son dur, ma i parlo a gent
ch'ha l'ànima tant mola e dëslavà
ch'a l'é pa da stupì se 'd costa nià
i-j piaso apen-a apen-a a l'un për sent.

Tuti s'amparo 'l Metastasio a ment
e a n'han j'orije, 'l cheur e j'euj fodrà:
j'eròj a-j veulo vëdde, ma castrà,
ël tràgich a lo veulo, ma imponent.

Pure im dogn nen për vint fin ch'as decida
s'as dev troné sul palch o solfegé,
strassé 'l cheur o gatié marlàit l'orìa.

Già ch'ant cost mond l'un l'àutr bzògna ch'as rida,
l'è un mè dubiet ch'i veui ben ben rumié:
s'l'é mi ch'son 'd fer o j'italian 'd potìa.»

(IT)

«Sono duro, lo so, sono duro, ma parlo a gente
che ha l'anima tanto fiacca e sporca
che non c'è da stupirsi se a questa cricca
io piaccio appena all'uno per cento.

Tutti si imparano a memoria il Metastasio
e ne hanno piene le orecchie, il cuore e gli occhi:
gli eroi li vogliono vedere sì, ma castrati,
il tragico lo vogliono ma imponente.

Eppure io non mi do per vinto finché non si decida
se sul palco si deve tuonare o solfeggiare,
agitare i cuori o accarezzarsi un poco l'orecchia.

Giàcche in questo mondo bisogna che si rida l'uno dell'altro,
io ho un piccolo dubbio che voglio ben bene rimirare:
se sono io che sono di ferro o gli italiani di fango. »

Alfieri e la musica

Umberto Calosso accosta l'opera di Alfieri «illuminista in fervido movimento» a quella di Beethoven, per il critico i motivi profondi dell'Alfieri risuonano «nei precipizi abissali della sinfonia di Beethoven».

Anche per il Cazzani, in molte tragedie alfieriane, ci troviamo davanti alla stessa solitudine cosmica del maestro di Bonn.

Nella sua autobiografia il poeta racconta di come la musica suscitava nel suo animo grande commozione. L'Alfieri più volte raccontò come quasi tutte le tragedie siano state ideate o durante l'ascolto di musica o poche ore dopo averla ascoltata.

Alcuni manoscritti contengono anche le indicazioni delle musiche da eseguirsi durante le rappresentazioni teatrali (per esempio il Bruto secondo).

Il Cazzani ipotizza anche che tra i musicisti prediletti dell'Alfieri ci sia il piemontese Giovanni Battista Viotti, che fu presente a Torino, Parigi e Londra negli stessi anni dei soggiorni alfieriani.

Alfieri e l'arte

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Perseo e Andromeda, Anton Raphael Mengs,1776, Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo.

Il poeta che più di una volta confessò di essere sensibile alle bellezze naturali, davanti alle opere artistiche manifestava una certa «ottusità d'intelletto».

A Firenze, per la prima volta nel 1766, dichiarò che le visite alla Galleria e a Palazzo Pitti, si svolgevano forzatamente, con molta nausea, senza nessun senso del bello.

Di Bologna scrisse: «...dei suoi quadri non ne seppi nulla».

Quando visse a Roma nascevano i primi fermenti del movimento archeologico che precedette il Neoclassicismo, non fece nessuna menzione degli artisti che ne presero parte,ed anche il salotto della contessa d'Albany, a Parigi frequentato dagli artisti più noti dell'epoca (tra cui Jacques-Louis David) non era per lui di alcun interesse, e del Louvre gli interessò «solo la facciata».

Questo spiega perché, fatta eccezione dei ritratti di Fabre, nessuna tela di un certo valore adornò le pareti degli appartamenti abitati da Alfieri nel corso della vita.

L'Alfieri e la contessa d'Albany, nell'agosto 1792, dovettero abbandonare precipitosamente Parigi per l'insurrezione repubblicana. Dall'inventario degli oggetti d'arte della casa di Parigi (Maison de Thélusson, rue de Provence n°18), stilato dal governo rivoluzionario dopo la confisca degli immobili e contenuto negli Archives nationales di Parigi si è potuto risalire ai quadri presenti negli appartamenti.

Anche in questo caso l'elenco è deludente: si tratta più che altro di riproduzioni incise per lo più dei Carracci, della Cappella Sistina, della Scuola di Atene, della galleria di Palazzo Farnese, con qualche incisione riproducente opere di Elisabeth Vigée-Lebrun, di Angelika Kauffman, di Anton Raphael Mengs.

Alfieri nello sport

Ad Asti è presente dal 1953 una società di atletica che prende il nome dal grande poeta: la Società sportiva Vittorio Alfieri.

Alfieri nei francobolli italiani

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Emissione del 2003.

Tre francoboli commemorativi sono stati emessi dalle poste italiane per ricordare la figura del trageda astigiano.

-Il primo, da 25 centesimi, disegnato da F. Chiappelli ed emesso il 14 marzo 1932 per la società Dante Alighieri per la corrispondenza nazionale, ed una seconda tiratura per le emissioni generali delle colonie italiane in versione sovrastampata (tiratura 60.000 esemplari).

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Emissione per le colonie del 1932.

-Il secondo emesso il 4 giugno 1949 (tiratura 2.812.000 esemplari), opera del disegnatore E. Pizzi, in occasione del bicentenario della nascita.

-Il terzo l'8 ottobre 2003, con tiratura di 3.500.000 esemplari, è stato emesso in occasioni delle commemorazioni per il bicentenario della sua morte. Il ritratto opera della bozzettista Rita Fantini è liberamente ispirato ad un dipinto di François Xavier Fabre, attualmente esposto presso Palazzo Alfieri di Asti, mentre sullo sfondo si vede la facciata interna del palazzo, sede sia del Centro nazionale di studi alfieriani che del Museo alfieriano.

Alfieri nelle monete italiane

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Emissione del 1999.

Nel 1999, la Zecca dello Stato, in occasione del 250° anniversario della nascita del poeta, ha emesso una moneta in argento 835/1000, del peso di gr 14,60, diametro mm. 31,40, con l'effige di Vittorio Alfieri ed al verso il celebre motto "volli sempre volli fortissimamente volli" (tiratura 51.800 pezzi).

Note

^ Anche se può sembrare strano il dato è corretto. Vittorio Alfieri nasce il 16 gennaio, ma nella sua biografia scrive 17 gennaio.

^ Nell'atto di donazione del 1778, nel quale Vittorio cedette alla sorella Giulia tutte le proprietà in cambio di un vitalizio, accanto ai campi, prati, orti, vigne,boschi, gerbidi e ai coltivi che egli possedeva in Asti, Vigliano d'Asti, Costigliole d'Asti, Montegrosso d'Asti, Cavallermaggiore, Ruffia, ci sono anche dei mulini in quella zona della città che ora è denominata via dei mulini. Inoltre l'Alfieri cedette anche il palazzo natio (Palazzo Alfieri), che venne messo in affitto: alla contessa Giulia rendeva 910 lire piemontesi all'anno, ed il palazzo di Piazza San Secondo in Asti comprendente cinque botteghe sotto i portici e quattro in legno fuori dai medesimi, il quale rendeva 1000 lire piemontesi annue.

^ le Opere Postume uscirono con la falsa indicazione della pubblicazione a Londra.

*************

( Biografia tratta da Wikipedia, l'enciclopedia libera:
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Ultima modifica di Monia Di Biagio il Gio Set 13, 2007 12:24 pm, modificato 5 volte in totale
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MessaggioInviato: Mer Ott 11, 2006 1:42 pm    Oggetto:  Vittorio Alfieri: Opere.
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Vittorio Alfieri: Opere.

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Vittorio Alfieri dipinto da François-Xavier Fabre, Firenze 1793.

INDICE [in questa pagina]:

1 Il pensiero letterario
2 Opere
2.1 Le tragedie
2.2 Tramelogedia
2.3 Le prose politiche
2.4 Le odi politiche
2.5 L'odio antirivoluzionario: il Misogallo
2.6 Satire
2.7 Le commedie
2.8 Autobiografia
2.9 Rime
2.10 Traduzioni
2.11 Lettere

***********

Il pensiero letterario

Le influenze letterarie di Alfieri provengono dagli scritti di Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Helvétius, che l'astigiano conobbe nei suoi molteplici viaggi in Europa, durante il processo di "spiemontesizzazione".

Lo studio ed il perfezionamento della lingua italiana avvennero con la lettura dei classici italiani e latini (Dante e Petrarca per la poesia, Virgilio per il verso tragico).

Il suo interesse per lo studio dell'uomo, per la concezione meccanicistica del mondo, per l'assoluta libertà e l'avversione verso il dispotismo, collegano Alfieri alla dottrina illuminista.

Sublime specchio di veraci detti...

Sublime specchio di veraci detti,
mostrami in corpo e in anima qual sono:
capelli, or radi in fronte, e rossi pretti;
lunga statura, e capo a terra prono;

sottil persona in su due stinchi schietti;
bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono;
giusto naso, bel labro, e denti eletti;
pallido in volto, più che un re sul trono:

or duro, acerbo, ora pieghevol, mite;
irato sempre, e non maligno mai;
la mente e il cor meco in perpetua lite:

per lo più mesto, e talor lieto assai,
or stimandomi Achille, ed or Tersite:
uom, se' tu grande, o vil? Muori, e il saprai.


I temi letterari illuministici, volti a chiarificare le coscienze e ad apportare il progresso sociale e civile, sono affrontati dal poeta non in modo distaccato, ma con l'emotività e le inquietudini del pensiero Romantico.

Alfieri è considerato dalla critica letteraria come l'anello di congiunzione di queste due correnti ideologiche, ma l'astigiano al contrario dei più importanti scrittori illuministi dell'epoca, quale Parini, Verri, Beccaria, Voltaire, che sono disposti a collaborare con i monarchi "illuminati" (Federico di Prussia, Caterina II di Russia, Maria Teresa d'Austria) e ad esporre le proprie idee nei salotti europei, rimane indipendente e reputa umiliante questo genere di compromesso.

Solo, fra i mesti miei pensieri.

Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva
al mar là dove il tosco fiume ha foce,
con Fido il mio destrier pian pian men giva;
e muggìan l'onde irate in suon feroce.

Quell'ermo lido, e il gran fragor mi empiva
il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce)
d'alta malinconia; ma grata, e priva
di quel suo pianger, che pur tanto nuoce.

Dolce oblio di mie pene e di me stesso
nella pacata fantasia piovea;
e senza affanno sospirava io spesso:

quella, ch'io sempre bramo, anco parea
cavalcando venirne a me dappresso...
Nullo error mai felice al par mi fea.


D'altronde Alfieri fu un precursore del pensiero romantico anche nel suo stile di vita, sempre alla ricerca dell'autonomia ideologica (non a caso lasciò tutti i suoi beni alla sorella Giulia per poter abbandonare la sudditanza dai Savoia) e nel non accettare la netta distinzione settecentesca fra vita e letteratura, nel nome di valori etico-morali superiori.

S'io t'amo? Oh donna!

S'io t'amo? Oh donna! Io nol diria volendo.
Voce esprimer può mai quanta m'inspiri
dolcezza al cor, quando pietosa giri
ver me tue luci, ove altri sensi apprendo?

S'io t'amo? E il chiedi? e nol dich'io tacendo?
e non tel dicon miei lunghi sospiri,
e l'alma afflitta mia, che par che spiri,
mentre dal tuo bel ciglio immobil pendo?

E non tel dice ad ogni istante il pianto,
cui di speranza e di temenza misto,
versare un tempo, e raffrenare io bramo?

Tutto tel dice in me: mia lingua intanto
sola tel tace, perché il cor s'è avvisto,
ch'a quel ch'ei sente, è un nulla il dirti: Io t'amo.


****************

Opere

-Le tragedie-

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Egisto sollecita Clitennestra esitante prima di uccidere Agamennone, nel dipinto Morte di Agamennone di Pierre-Narcisse Guérin 1818, Louvre, Parigi.

Terminata l'Accademia militare a Torino, e dopo un lungo giovanile vagabondare in vari stati dell'Europa, nel 1775 (l'anno della conversione) rientra nel capoluogo piemontese e si dedica allo studio della letteratura, rinnegando in tal modo - secondo le sue stesse parole - anni di viaggi e dissolutezze; completa così la sua prima tragedia, Antonio e Cleopatra, che registra un grande successo; seguiranno poi Antigone, Filippo, Oreste, Saul, Maria Stuarda, Mirra.

La fama delle sue tragedie è legata alla centralità del rapporto libertà-potere e all'affermazione dell'individuo sulla tirannia. Una profonda e sofferta riflessione sulla vita umana arricchisce la tematica quando il poeta si sofferma sui sentimenti più intimi e sulla società che lo circonda.

Le sue tragedie furono rappresentate quando il poeta era ancora in vita ed ebbero un notevole successo nel periodo giacobino.

A Bologna vennero rappresentate tra il 1796 e il 1798 ben quattro tragedie (Bruto II, Saul, Virginia, Antigone).

Le reazioni negli spettatori erano spesso molto singolari, ne parla anche il Leopardi nel suo Zibaldone (1823), che citando la rappresentazione a Bologna dell'Agamennone racconta che:

«Destò vivissimo interesse negli uditori, e fra l'altro tanto odio verso Egisto, che quando Clitenestra esce dalla stanza del marito col pugnale insanguinato, e trova Egisto, la platea gridava furiosamente all'attrice che l'ammazzasse.»

Anche Stendhal in Roma, Napoli, Firenze scrive:

«27 febbraio 1817. Esco ora dal Saul al Teatro Nuovo...Il pubblico va in visibilio.»

Le tragedie sono ventidue, compresa la Cleopatra (o Antonio e Cleopatra) poi in seguito da lui ripudiata. L'Alfieri le scrive in endecasillabi sciolti, seguendo il concetto di unità aristotelica. Ecco l'elenco completo:

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I littori riportano a Bruto i corpi dei suoi figli,1789 Jacques-Louis David, Parigi, Louvre.

-Saul (1782)
-Filippo (1781, pubblicata nel 1783)
-Rosmunda (1783)
-Ottavia (1783, ripubblicata nel 1788)
-Merope (1785)
-Maria Stuarda (1788)
-Agide (1788)
-Bruto primo (1789)
-Bruto secondo (1789)
-Don Garzia (1789)
-Sofonisba

Tragedie greche:

-Polinice (1781)
-Agamennone (1783)
-Antigone (1783)
-Oreste (1783)
-Mirra (1789)

Tragedie definite della libertà:

-La congiura de' Pazzi (1788)
-Virginia (1781, 1783, rielaborata nel 1789)
-Timoleone (1783, rielaborata nel 1789)

Tragedie pubblicate postume:

-Cleopatra (da lui stesso poi rinnegata, 1774 - 1775, pubblicata postuma)
-Alceste prima (1798)
-Alceste seconda (1798)

Tramelogedia

Alfieri volle coniugare il melodramma, molto in auge in quel periodo, con i temi più ostici della tragedia. Nacque così l'Abele (1786), un'opera che egli stesso definì tramelogedia.

Le prose politiche

L'odio per la tirannia e l'amore viscerale per la libertà, vennero sviluppati in due trattati:

-Della tirannide (1777-1790), di tema interamente politico, scritto durante il suo soggiorno a Siena dove conobbe il suo più grande amico, il mercante Francesco Gori-Gandellini. L'Alfieri fa una disamina del dispotismo, considerandolo la rappresentazione più mostruosa di tutti i tipi di governo

-Del principe e delle lettere (1778-1786), di tema politico-letterario, dove l'Alfieri giunge alla conclusione che il binomio monarchia e lettere sia dannoso per lo sviluppo di queste ultime. Il poeta prende in esame anche le opere di Virgilio, Orazio, Ariosto, Racine, nate con il benestare di principi o monarchi munifici e le considera il frutto di uomini "mediocri", contrapponendoli a Dante.

-Panegirico di Plinio a Trajano (1787), è il panegirico di Plinio, riveduto dall'Alfieri , senza servili adulazioni, come dovrebbe comportarsi un libero scrittore

-La Virtù sconosciuta (1789), il poeta in un dialogo immaginario con l'amico defunto Gori Gandellini, lo paragona a fulgido esempio di virtù cittadina ed indipendenza morale

Le odi politiche

-L'Etruria vendicata, poema in quattro canti e in ottave progettato nel maggio 1778, inizialmente con il titolo Il Tirannicidio, narra l'uccisione di Alessandro de' Medici ad opera di Lorenzino che l'Alfieri celebra come un eroe di libertà.

-L'America libera, un componimento di cinque odi, in cui Alfieri esalta la generosità disinteressata di La Fayette, che aiutò i ribelli e celebra l'eroismo di Washington, che Alfieri paragona a quello degli antichi eroi.
Parigi sbastigliato, ode composta da Alfieri dopo la distruzione della Bastiglia.

L'odio antirivoluzionario: il Misogallo

«Io aveva riposto la mia vendetta e quella della mia Italia; e porto tuttavia ferma speranza, che quel libricciuolo col tempo gioverà all'Italia, e nuocerà alla Francia non poco.»

(da Vita di V. Alfieri, Epoca quarta, 1795, capitolo XXIV)

Il Misogallo è un opera che aggrega generi diversi: prose, sonetti, epigrammi ed un'ode. Questi componimenti si riferiscono al periodo compreso tra l'insurrezione di Parigi nel luglio 1789 e l'occupazione francese di Roma nel febbraio 1798.

È una feroce critica di Alfieri, sulla Francia e sulla Rivoluzione, ma egli rivolge l'invettiva anche verso il quadro politico e sociale europeo, verso i molti tiranni antichi e recenti, che dominarono e dominano l'Europa. Per l'Alfieri, «i francesi non possono essere liberi, ma potranno esserlo gli italiani», mitizzando così un'ipotetica Italia futura, «virtuosa, magnanima, libera ed una».

Satire

Pensate fin dal 1777 e riprese più volte nell'arco della sua vita, sono componimenti sui "mali" che afflissero l'epoca del poeta. Sono diciassette:

Satira prima

-I re, ridicolizzazione della monarchia assoluta
-I grandi, in cui sono presi di mira i grandi di corte
-La plebe
-La sesquiplebe, che tratta della ricca borghesia
-Le leggi, con una critica sul poco rispetto delle leggi in Italia
-L'educazione
-L'antireligioneria, in cui l'Alfieri critica Voltaire, nell'aver superficializzato il cristianesimo
-I pedanti, contro la critica letteraria
-Il duello
-La filantropineria, riferito ai teorici della rivoluzione francese
-Il commercio
-I debiti, a proposito del malgoverno delle nazioni
-La milizia, una critica agli stati militaristi come la Prussia di Federico II
-Le imposture, sulle "fasulle" filosofie nate nel XVIII secolo, in particolare quella illuministica , adulatrice della rivoluzione francese
-Le donne, in cui l'Alfieri considera il "gentil sesso" sostanzialmente migliore degli uomini, ma imitatore dei loro difetti
-I viaggi

Le commedie

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Frontespizio della "Vita" del 1848.

Scritte nell'ultima parte della sua vita:

-L'uno
-I pochi
-I troppi
-L'antidoto, queste quattro sono una specie di tetralogia politica
-La finestrina, a carattere etico universale
-Il divorzio, tratta dei costumi italiani contemporanei.

-Autobiografia-

Alfieri cominciò a scrivere la propria biografia (la "Vita scritta da esso" ) dopo la pubblicazione delle sue tragedie. La prima parte fu scritta tra il 3 aprile ed il 27 maggio 1790 e giunge fino a quell'anno, la seconda fu scritta tra il 4 maggio ed il 14 maggio 1803 (anno della sua morte).
"La vita" è universalmente considerata un capolavoro letterario, se non il più importante, sicuramente il più conosciuto, infatti, secondo M. Fubini, l'Alfieri fu per molto tempo l'autore della "Vita", che ancora inedita, madame de Staël leggeva rapita in casa della contessa d'Albany e ne scriveva entusiasta al Monti.

Non a caso l'opera all'inizio del XIX secolo venne tradotta in francese (1809), inglese (1810) tedesco (1812), e parzialmente in svedese (1820).

-Rime-

Alfieri scrisse le Rime tra il 1776 ed il 1779. Stampò le prime ( quelle scritte fino al 1789) a Kehl , tra il 1788 e il 1790.

Preparò a Firenze nel 1799 la stampa della seconda parte, che costituì l'undicesimo volume delle Opere Postume, pubblicato per la prima volta a Firenze nel 1804 per l'editore Piatti.[3]

Alfieri considerava le rime come esercizi tecnici e ne conservò pochissime. La maggior parte delle rime stampate o destinate alla stampa sono componimenti amorosi per l'Albany.

-Traduzioni-

Alfieri passò molto tempo allo studio dei classici latini e greci. Questo portò ad alcune traduzioni pubblicate postume :

-la Congiura di Catilina e La Guerra di Giugurta di Sallustio
-l'Eneide di Virgilio
-i Persiani di Eschilo
-il Filottete di Sofocle
-l'Alcesti di Euripide
-le Rane di Aristofane

-Lettere-

La raccolta più completa delle sue lettere è quella pubblicata nel 1890 dal Mazzantini, intitolata " Lettere edite e inedite di Vittorio Alfieri", considerata da molti studiosi di non particolare importanza letteraria.

********************

( Biografia tratta da Wikipedia, l'enciclopedia libera:
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MessaggioInviato: Gio Set 13, 2007 12:35 pm    Oggetto:  Vittorio Alfieri: Prefazione alle Chiacchiere.
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Vittorio Alfieri: Prefazione alle Chiacchiere[1]

Far tacere un vecchio è cosa difficile. Far poi tacere un vecchio autore è cosa impossibile. Ma per altra parte lasciarlo parlare senza ascoltarlo è inurbanità. Dunque pur ch'egli non iscriva ma chiacchieri, siccome dee pure aver visto, e osservato, e conosciuto pienamente assai cose, se gli può a ore perdute dar qualche minuto di retta, per ridere poi o a spese sue, o a spese di chi toccherà; e tanto qualche cosetta, lasciandogli dire mille inutilità, si viene forse a raccogliere, vagliando il suo molto tritume. Così ho dunque pensato di far io, dacchè non fo più nè versi, nè prose, nè scritti di nessuna sorte che stiano da sè. Le chiacchiere mi son elette per ultimo sfogo; elle son vecchie quanto il mondo; e camminano sempre appoggiate su più d'un bastone. Onde anderò così buttando giù quel che viene nei giorni che sarò di buon umore; e sarò forse meno noioso chiacchierando con la penna, che colla lingua; poichè almeno non affaticherò niun orecchio, colla tremula stuonatura dei vecchi; e le chiacchiere in carta non danno fastidio a nessuno, che non se le rechi in mano per leggerle; e se lo danno si butta il foglio; ma non si può già così buttare il vecchio in persona, quando vi s'inacappa; che anzi per compassione, civiltà o riguardi bisogna spesso asciugarselo. Ti ho dunque prevenuto, o Lettore: se ti tedierai, l'hai voluto; se ti divertirai, non ci ho colpa; se c'imparerai, non son dunque ancora morto del tutto.

Note

↑ L'autografo di questa curiosa pagina si trova nella Biblioteca Nazionale di Firenze con la segnatura Banco Rari, n. 214. È un volumetto di 80 carte, non numerate e, tranne 4, tutte bianche, che reca sul dorso "Alfieri Chiacchiere". In mezzo alla seconda carta si legge: "Chiacchiere". La terza carta ha di nuovo il titolo: "Chiacchiere / di / Vittorio Alfieri / da Asti"; e, in fondo, "Londra". Segue sulla c. 4 r., la Prefazione. - Tutto questo prova che l'Alfieri pensò seriamente e lungamente a quest'opera della sua vecchiaia fino a preparare i fogli che avrebbero dovuto accoglierla in pulito, indicando anche, per i futuri editori, il finto luogo di stampa. (Che è per l'appunto quello adottato dalla D'Albany e da Caluso per la Vita). Ma la morte prematura non gli concesse di stendere e ricopiare altro che la Prefazione.

*************

( Prefazione tratta da Wikisource:
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MessaggioInviato: Gio Set 13, 2007 12:45 pm    Oggetto:  Vittorio Alfieri: Annali.
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Rispondi citando

Vittorio Alfieri: Annali.

Anno 1790. L'uom propone e Dio dispone.

Anno 1790. Finite intieramente le stampe, scriver la vita. Balocco di traduzioni di Virgilio e Terenzio. Riposo. Schizzi di tramelogedie e di commedie e di satire.

Anno 1791. Dar corpo e versi a due tramelogedie. Tentare l'abbozzo di una commedia. Proseguire le due traduzioni in versi. Scriver due satire. Tentare due altre tramelogedie.

Anno 1792. Se la commedia riesce e regge all'esame, verseggiarla; abbozzarne due altre. Le traduzioni in versi. Scrivere due satire. Versificare le due tramelogedie, se reggono.

Anno 1793. Verseggiar le due commedie: abbozzarne due altre. Proseguir le traduzioni in versi. Scrivere due satire.

Anno 1794. Abbozzar due altre commedie. Verseggiar le abbozzate nel 93. Proseguir le due traduzioni. Scrivere due satire.

Anno 1795. Verseggiar le due commedie del 94: abbozzarne due altre. Finir le due traduzioni. Scrivere due satire.

Anno 1796. Verseggiar le due commedie del 95: abbozzarne due altre. Riprendere, limare, e porre in ordine il Sallustio. Cominciar la vita d'Agricola. Scrivere due satire.

Anno 1797. Verseggiar le due commedie del 96. Abbozzar le due ultime. Finir la vita d'Agricola e ridettare il Sallustio. Finir le satire.

Anno 1798. Verseggiar le due ultime commedie. Correggere e dettare tutte le satire. Dettar la vita d'Agricola.

Anno 1799. Riposo e traduzione del trattato della Vecchiaia. E lima delle due traduzioni in versi.

Anni 1801, 1802, 1803. Ultima lima, dettatura e stampa delle tramelogedie prima, poi commedie, poi satire, poi traduzioni in versi, poi in prosa.

Anno 1800. Dettatura e stampa delle 4 tramelogedie: e di due commedie. Trar la Vita fino al presente anno.

Anno 1801. Dettatura e stampa di sei commedie.

Anno 1802. Dettatura e stampa di 5 commedie e d'alcune satire.

Anno 1803. Dettatura e stampa delle satire rimanenti e del Virgilio.

Anno 1804. Dettatura e stampa del Terenzio, e parte del Sallustio.

Anno 1805. Stampa del Sallustio, vita d'Agricola e Vecchiaja. Trarre la Vita fino al presente.

Anno 1806. Dettatura e stampa della Vita.

Dall'anno 1807 in poi vegetare e pedantizzare sui classici.

Disegnato in Parigi 23 settembre 1790. Presente pria, e sarà poi quel che a Dio piacerà.

*************

( Annali tratti da Wikisource:
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MessaggioInviato: Gio Set 13, 2007 1:01 pm    Oggetto:  Vittorio Alfieri: Tragedie.
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Vittorio Alfieri: Tragedie.

Tragedie

-Filippo (1776)
-Oreste (1783)
-Bruto Primo (1789)
-Bruto Secondo (1789)
-Mirra (1789)

**************

Vittorio Alfieri - Filippo - Atto primo - Scena prima

ISABELLA

Desio, timor, dubbia ed iniqua speme,
fuor del mio petto omai. - Consorte infida
io di Filippo, di Filippo il figlio
oso amar, io?... Ma chi 'l vede, e non l'ama?
Ardito umano cor, nobil fierezza,
sublime ingegno, e in avvenenti spoglie
bellissim'alma; ah! perché tal ti fero
natura e il cielo?... Oimè! che dico? imprendo
cosí a strapparmi la sua dolce immago
dal cor profondo? Oh! se palese mai
fosse tal fiamma ad uom vivente! Oh! s'egli
ne sospettasse! Mesta ognor mi vede...
Mesta, è vero, ma in un dal suo cospetto
fuggir mi vede; e sa che in bando è posta
da ispana reggia ogni letizia. In core
chi legger puommi? Ah! nol sapess'io, come
altri nol sa! Cosí ingannar potessi,
sfuggir cosí me stessa, come altrui!...
Misera me! sollievo a me non resta
altro che il pianto; ed il pianto è delitto. -
Ma, riportare alle piú interne stanze
vo' il dolor mio; piú libera... Che veggio?
Carlo? Ah! si sfugga: ogni mio detto o sguardo
tradir potriami: oh ciel! sfuggasi.

************

Vittorio Alfieri - Oreste - Atto primo - Scena prima

Elettra

Notte! funesta, atroce, orribil notte,
presente ognora al mio pensiero! ogni anno,
oggi ha due lustri, ritornar ti veggio
vestita d'atre tenebre di sangue;
eppur quel sangue, ch'espiar ti debbe,
finor non scorre. - Oh rimembranza! Oh vista!
Agamennón, misero padre! in queste
soglie svenato io ti vedea; svenato;
e per qual mano! - O notte, almen mi scorgi
non vista, al sacro avello. Ah! pur ch'Egisto,
pria che raggiorni, a disturbar non venga
il mio pianto, che al cenere paterno
misera reco in annual tributo!
Tributo, il sol ch'io dar per or ti possa,
di pianto, o padre, e di non morta speme
di possibil vendetta. Ah! sí: tel giuro:
se in Argo io vivo, entro tua reggia, al fianco
d'iniqua madre, e d'un Egisto io schiava,
null'altro fammi ancor soffrir tal vita,
che la speranza di vendetta. È lungi,
ma vivo, Oreste. Io ti salvai, fratello;
a te mi serbo; infin che sorga il giorno,
che tu, non pianto, ma sangue nemico
scorrer farai sulla paterna tomba.

************

Vittorio Alfieri - Bruto Primo - Dedica

AL CHIARISSIMO E LIBERO UOMO IL GENERALE WASHINGTON.

Il Solo nome del liberator dell'America può stare in fronte della tragedia del liberatore di Roma.

A voi, egregio e rarissimo cittadino, la intitolo io perciò; senza mentovare né una pure delle tante lodi a voi debite, che tutte oramai nel sol nominarvi ristrette esser reputo. Né questo mio brevissimo dire potrá a voi parere di adulazione contaminato; poiché non conoscendovi io di persona, e vivendo noi dall'immenso oceano disgiunti, niuna cosa pur troppo abbiamo comune fra noi, che l'amor della gloria.

Felice voi, che alla tanta vostra avete potuto dar base sublime ed eterna! l'amor della patria dimostrato coi fatti. Io, benché nato non libero, avendo pure abbandonato in tempo i miei Lari; e non per altra cagione, che per potere altamente scrivere di libertá; spero di avere almeno per tal via dimostrato quale avrebbe potuto essere il mio amor per la patria, se una verace me ne fosse in sorte toccata. In questo solo aspetto, io non mi credo indegno del tutto di mescere al vostro il mio nome.

Parigi, 31 Decembre 1788.

VITTORIO ALFIERI.


************

Vittorio Alfieri - Bruto Primo - Atto primo - Scena prima

COLLATINO

Dove, deh! dove, a forza trarmi, o Bruto,
teco vuoi tu? Rendimi, or via, mel rendi
quel mio pugnal, che dell'amato sangue
gronda pur anco... Entro al mio petto...

BRUTO

Ah! pria questo ferro, omai sacro, ad altri in petto
immergerassi, io 'l giuro. - Agli occhi intanto
di Roma intera, in questo foro, è d'uopo
che intero scoppi e il tuo dolore immenso,
ed il furor mio giusto.

COLLATINO

Ah! no: sottrarmi
ad ogni vista io voglio. Al fero atroce
mio caso, è vano ogni sollievo: il ferro,
quel ferro sol fia del mio pianger fine.

BRUTO

Ampia vendetta, o Collatin, ti fora
sollievo pure: e tu l'avrai; tel giuro. -
O casto sangue d'innocente e forte
Romana donna, alto principio a Roma
oggi sarai.

COLLATINO

Deh! tanto io pur potessi
sperare ancora! universal vendetta
pria di morir...

BRUTO

Sperare? omai certezza
abbine. Il giorno, il sospirato istante
ecco al fin giunge: aver può corpo e vita
oggi al fin l'alto mio disegno antico.
Tu, d'infelice offeso sposo, or farti
puoi cittadin vendicator: tu stesso
benedirai questo innocente sangue:
e, se allor dare il tuo vorrai, fia almeno
non sparso indarno per la patria vera...
Patria, sí; cui creare oggi vuol teco,
o morir teco in tanta impresa Bruto.

COLLATINO

Oh! qual pronunzi sacrosanto nome?
Sol per la patria vera, alla svenata
moglie mia sopravvivere potrei.

BRUTO

Deh! vivi dunque; e in ciò con me ti adopra.
Un Dio m'ispira; ardir mi presta un Dio,
che in cor mi grida: «A Collatino, e a Bruto,
spetta il dar vita e libertade a Roma».

COLLATINO

Degna di Bruto, alta è tua speme: io vile
sarei, se la tradissi. O appien sottratta
la patria nostra dai Tarquinj iniqui,
abbia or da noi vita novella; o noi
(ma vendicati pria) cadiam con essa.

BRUTO

Liberi, o no, noi vendicati e grandi
cadremo omai. Tu ben udito forse
il giuramento orribil mio non hai;
quel ch'io fea nell'estrar dal palpitante
cor di Lucrezia il ferro, che ancor stringo.
Pel gran dolor tu sordo, mal l'udisti
in tua magion; qui rinnovarlo udrai
piú forte ancor, per bocca mia, di tutta
Roma al cospetto, e su l'estinto corpo
della infelice moglie tua. - Giá il foro,
col sol nascente, riempiendo vassi
di cittadini attoniti; giá corso
è per via di Valerio ai molti il grido
della orrenda catastrofe: ben altro
sará nei cor l'effetto, in veder morta
di propria man la giovin bella e casta.
Nel lor furor, quanto nel mio mi affido. -
Ma tu piú ch'uomo oggi esser dei: la vista
ritrar potrai dallo spettacol crudo;
ciò si concede al dolor tuo: ma pure
qui rimanerti dei: la immensa e muta
doglia tua, piú che il mio infiammato dire,
atta a destar compassionevol rabbia
fia nella plebe oppressa...

COLLATINO

Oh Bruto! il Dio
che parla in te, giá il mio dolore in alta
feroce ira cangiò. Gli estremi detti
di Lucrezia magnanima mi vanno
ripercotendo in piú terribil suono
l'orecchio e il core. Esser poss'io men forte
al vendicarla, che all'uccidersi ella?
Nel sangue solo dei Tarquinj infami
lavar poss'io la macchia anco del nome,
cui comune ho con essi.

BRUTO

Ah! nasco io pure
dell'impuro tirannico lor sangue:
ma, il vedrá Roma, ch'io di lei son figlio,
non della suora de' Tarquinj: e quanto
di non romano sangue entro mie vene
trascorre ancor, tutto cangiarlo io giuro,
per la patria versandolo. - Ma, cresce
giá del popolo folla: eccone stuolo
venir ver noi: di favellare è il tempo.

************

Vittorio Alfieri - Bruto Secondo - Dedica

AL POPOLO ITALIANO FUTURO.

Da voi, o generosi e liberi Italiani, spero che mi verrá perdonato l'oltraggio che io stava innocentemente facendo ai vostri avi, o bisavi, nell'attentarmi di presentar loro due Bruti; tragedie, nelle quali, in vece di donne, interlocutore e attore, fra molti altissimi personaggi, era il popolo. Ben sento anch'io, quanto era grave l'offesa, di attribuire e lingua, e mano, e intelletto, a chi (per essersi interamente scordato d'aver avuto questi tre doni dalla natura) credeva impossibile quasi, che altri fosse per riacquistarli giammai.

Ma, se le mie parole esser den seme, che frutti onore a chi da morte io desto; io mi lusingo che da voi mi sará forse retribuita giustizia, e non scevra di qualche laude. Cosí pure ho certezza, che se dai vostri bisavi mi veniva di ciò dato biasimo, non potea egli però essere scevro dei tutto di stima: perché tutti non poteano mai odiare o sprezzare colui, che nessuno individuo odiava; e che manifestamente sforzavasi (per quanto era in lui) di giovare a tutti, od ai piú.

Parigi, 17 Gennaio 1789.

VITTORIO ALFIERI.


************

Vittorio Alfieri - Bruto Secondo - Atto primo - Scena prima

CESARE, ANTONIO, CICERONE, BRUTO, CASSIO, CIMBRO, SENATORI. Tutti seduti.

CESARE

Padri illustri, a consesso oggi vi appella
il dittator di Roma. È ver, che rade
volte adunovvi Cesare: ma soli
n'eran cagione i miei nemici e vostri,
che depor mai non mi lasciavan l'armi,
se prima io ratto infaticabilmente
a debellargli appien dal Nilo al Beti
non trascorrea. Ma al fin, concesso viemmi,
ciò che bramai sovra ogni cosa io sempre,
giovarmi in Roma del romano senno;
e, ridonata pria Roma a se stessa,
consultarne con voi. - Dal civil sangue
respira or ella; e tempo è omai, che al Tebro
ogni uom riabbia ogni suo dritto, e quindi
taccia il livor della calunnia atroce.
Non è, non è (qual grido stolto il suona)
Roma in nulla scemata: al sol suo nome,
infra il Tago, e l'Eufrate; infra l'adusta
Siene, e la divisa ultima ignota
boreale Albione; al sol suo nome,
trema ogni gente: e vie piú trema il Parto,
da ch'ei di Crasso è vincitore; il Parto,
che sta di sua vittoria inopinata
stupidamente attonito; e ne aspetta
il gastigo da voi. Null'altro manca
alla gloria di Roma; ai Parti e al mondo
mostrar, che lá cadean morti, e non vinti,
quei romani soldati, a cui fea d'uopo
romano duce, che non d'auro avesse,
ma di vittoria, sete. A tor tal onta,
a darvi in Roma il re dei Parti avvinto,
io mi appresto; o a perir nell'alta impresa.
A trattar di tal guerra, ho scelto io questo
tempio di fausto nome: augurio lieto
per noi sen tragga: ah! sí; concordia piena
infra noi tutti, omai fia sola il certo
pegno del vincer nostro. Ad essa io dunque
e vi esorto, e vi prego. - Ivi ci appella
l'onor di Roma, ove l'oltraggio immenso
ebber l'aquile invitte: a ogni altro affetto
silenzio impon l'onor per ora. In folla
arde il popol nel foro; udir sue grida
di qui possiam; che a noi vendetta ei pure
chiede (e la vuol) dei temerarj Parti.
Risolver dunque oggi dobbiam dell'alta
vendetta noi, pria d'ogni cosa. Io chieggo
dal fior di Roma (e, con romana gioja,
chiesto a un tempo e ottenuto, io giá l'ascolto)
quell'unanime assenso, al cui rimbombo
sperso fia tosto ogni nemico, o spento.

CIMBRO

Di maraviglia tanta il cor m'inonda
l'udir parlar di unanime consenso,
ch'io qui primo rispondo; ancor che a tanti
minor, tacer me faccia uso di legge.
Oggi a noi dunque, a noi, giá da tanti anni
muti a forza, il parlare oggi si rende?
Io primier dunque, favellar mi attento:
io, che il gran Cato infra mie braccia vidi
in Utica spirare. Ah! fosser pari
mie' sensi a' suoi! Ma in brevitá fien pari,
se in altezza nol sono. - Altri nemici,
altri obbrobrj, altre offese, e assai piú gravi,
Roma punire e vendicar de' pria
che pur pensare ai Parti. Istoria lunga,
dai Gracchi in poi, fian le romane stragi.
Il foro, i templi suoi, le non men sacre
case, inondar vedea di sangue Roma:
n'è tutta Italia, e n'è il suo mar cosperso:
qual parte omai v'ha del romano impero,
che non sia pingue di romano sangue?
Sparso è forse dai Parti? - In rei soldati
conversi tutti i cittadin giá buoni;
in crudi brandi, i necessarj aratri;
in mannaje, le leggi; in re feroci
i capitani: altro a patir ne resta?
Altro a temer? - Pria d'ogni cosa, io dunque
dico, che il tutto nel primier suo stato
tornar si debba; e pria rifarsi Roma,
poi vendicarla. Il che ai Romani è lieve.

ANTONIO

Io, consol, parlo; e spetta a me: non parla
chi orgogliose stoltezze al vento spande;
né alcun lo ascolta. - È mio parere, o padri,
che quanto il nostro dittatore invitto
chiede or da noi, (benché eseguire il possa
ei per se stesso omai) non pure intende
a tutta render la sua gloria a Roma,
ma che di Roma l'esser, la possanza,
la securtá ne pende. Invendicato
cadde in battaglia un roman duce mai?
Di vinta pugna i lor nemici mai
impuniti ne andar presso ai nostri avi?
Per ogni busto di roman guerriero,
nemiche teste a mille a mille poscia
cadean recise dai romani brandi.
Or, ciò che Roma, entro al confin ristretta
d'Italia sola, assentir mai non volle,
il soffrirebbe or che i confin del mondo
di Roma il sono? E, sorda fosse anch'ella
a sue glorie; poniam, che il Parto andarne
impunito lasciasse; a lei qual danno
non si vedria tornar dal tristo esemplo?
Popoli molti, e bellicosi, han sede
fra il Parto e noi: chi, chi terralli a freno,
se dell'armi romane il terror tace?
Grecia, Illiria, Macedoni, Germani,
Galli, Britanni, Ispani, Affrica, Egitto,
guerriera gente, che oltraggiata, e vinta,
d'ogni intorno ne accerchia, a Roma imbelle
vorrian servir? né un giorno sol, né un'ora.
Oltre all'onor, dunque innegabil grave
necessitade a vol nell'Asia spinge
l'aquile nostre a debellarla. - Il solo
duce a tanta vendetta a sceglier resta. -,
Ma al cospetto di Cesare, chi duce
osa nomarsi? - Altro eleggiamne, a patto,
ch'ei di vittorie, e di finite guerre,
e di conquiste, e di trionfi, avanzi
Cesare; o ch'anco in sol pugnar lo agguagli. -
Vile invidia che val? Cesare, e Roma,
sono in duo nomi omai sola una cosa;
poiché a Roma l'impero alto del mondo
Cesare sol rende, e mantiene. Aperto
nemico è dunque or della patria, iniquo
traditor n'è, chi a sua privata e bassa
picciola causa, la comun grandezza
e securtá posporre, invido, ardisce.

CASSIO

Io quell'iniquo or dunque, io sí, son quello,
cui traditore un traditore appella.
Primo il sono, e men vanto; or che in duo nomi
sola una cosa ell'è Cesare e Roma. -
Breve parla chi dice. Altri qui faccia,
con servili, artefatti, e vuoti accenti,
suonar di patria il nome: ove pur resti
patria per noi, su i casi suoi si aspetta
il risolvere ai padri; in nome io 'l dico
di lor; ma ai veri padri; e non, com'ora,
adunati a capriccio; e non per vana
forma a scherno richiesti; e non da vili
sgherri infami accerchiati intorno intorno,
e custoditi; e non in vista, e quasi
ascoltati da un popolo mal compro
da chi il pasce e corrompe. È un popol questo?
Questo, che libertade altra non prezza,
né conosce, che il farsi al bene inciampo,
e ad ogni male scudo? ei la sua Roma
nei gladiator del circo infame ha posta,
e nella pingue annona dell'Egitto.
Da una tal gente pria sgombro il senato
veggasi, e allor ciascun di noi si ascolti. -
Preaccennare il mio parer frattanto
piacemi, ed è: Che dittator non v'abbia,
poiché guerra or non v'ha; che eletti sieno
consoli giusti; che un senato giusto
facciasi; e un giusto popolo, e tribuni
veri il foro rivegga. Allor dei Parti
deliberar può Roma; allor, che a segni
certi, di nuovo riconoscer Roma
noi Romani potremo. Infin che un'ombra
vediam di lei fallace, i veri, e pochi
suoi cittadini apprestinsi per essa
a far gli ultimi sforzi; or che i suoi tanti
nemici fan gli ultimi lor contr'essa.

CICERONE

Figlio di Roma, e non ingrato, io l'amo
piú che me stesso: e Roma, il dí che salva
dall'empia man di Catilina io l'ebbi,
padre chiamommi. In rimembrarlo, ancora
di tenerezza e gratitudin sento
venirne il dolce pianto sul mio ciglio.
Sempre il pubblico ben, la pace vera,
la libertá, fur la mia brama; e il sono.
Morire io solo, e qual per Roma io vissi,
per lei deh possa! oh qual mi fia guadagno,
s'io questo avanzo di una trista vita
per lei consunta, alla sua pace io dono! -
Pel vero io parlo; e al canuto mio crine
creder ben puossi. Il mio parlar non tende,
né a piú inasprir chi dagli oltraggi molti
sofferti a lungo, inacerbita ha l'alma
giá di bastante, ancor che giusto, sdegno;
né a piú innalzare il giá soverchio orgoglio
di chi signor del tutto omai si tiene.
A conciliar (che ancor possibil fora)
col ben di ognuno il ben di Roma, io parlo. -
Giá vediam da gran tempo i tristi effetti
del mal fra noi snudato acciaro. I soli
nomi dei capi infrangitor di leggi
si andar cangiando, e con piú strazio sempre
della oppressa repubblica. Chi l'ama
davver fra noi, chi è cittadin di cuore,
e non di labro, ora il mio esemplo siegua.
Fra i rancor cupi ascosi, infra gli atroci
odj palesi, infra i branditi ferri,
(se pur l'Erinni rabide li fanno
snudar di nuovo) ognun di noi frapponga
inerme il petto: o ricomposti in pace
fian cosí quei discorsi animi feri;
o dalle inique spade trucidati
cadrem noi soli; ad onta lor, Romani
soli, e veraci, noi. - Son questi i sensi,
questi i sospiri, il lagrimare è questo
di un cittadin di Roma: al par voi tutti,
deh! lo ascoltate: e chi di gloria troppa
è carco giá, deh! non la offuschi, o perda,
tentando invan di piú acquistarne: e quale
all'altrui gloria invidia porta, or pensi
che invidia no, ma virtuosa eccelsa
gara in ben far, può sola i propri pregi
accrescer molto, e in nobil modo e schietto
scemar gli altrui. - Ma, poiché omai ne avanza
tanto in Roma a trattar, dei Parti io stimo,
per or si taccia. Ah! ricomposta, ed una,
per noi sia Roma; e ad un suo sguardo tosto,
Parti, e quanti altri abbia nemici estrani,
spariscon tutti, come nebbia al vento.

BRUTO

Cimbro, Cassio, e il gran Tullio, hanno i loro alti
romani sensi in sí romana guisa
esposti omai, che nulla a dir di Roma,
a chi vien dopo, resta. Altro non resta,
che a favellar di chi in se stesso ha posta
Roma, e neppur dissimularlo or degna. -
Cesare, a te, poiché in te solo è Roma,
di Roma no, di te parlare io voglio. -
Io non t'amo, e tu il sai; tu, che non ami
Roma; cagion del non mio amarti, sola:
te non invidio, perché a te minore
piú non mi estimo, da che tu sei fatto
giá minor di te stesso; io te non temo,
Cesare, no; perché a morir non servo
son presto io sempre: io te non odio, al fine,
perché in nulla ti temo. Or dunque, ascolta
qui il solo Bruto; e a Bruto sol dá fede;
non al tuo consol servo, che sí lungi
da tue virtudi stassi, e sol divide
teco i tuoi vizi, e gli asseconda, e accresce. -
Tu forse ancor, Cesare, merti (io 'l credo)
d'esser salvo; e il vorrei; perché tu a Roma
puoi giovar, ravvedendoti: tu il puoi,
come potesti nuocerle giá tanto.
Questo popol tuo stesso, (al vivo or dianzi
Cassio il ritrasse) il popolo tuo stesso,
ha pochi dí, del tuo poter ti fea
meno ebro alquanto. Udito hai tu le grida
di popolare indegnazione, il giorno,
che, quasi a giuoco, il regio serto al crine
leggiadramente cingerti tentava
la maestá del consol nuovo: udito
hai fremer tutti; e la regal tua rabbia
impallidir te fea. Ma il serto infame,
cui pur bramavi ardentemente in cuore,
fu per tua man respinto: applauso quindi
ne riscotevi universal; ma punte
eran mortali al petto tuo, le voci
del tuo popol, che in ver non piú romano,
ma né quanto il volevi era pur stolto.
Imparasti in quel dí, che Roma un breve
tiranno aver, ma un re non mai, potea.
Che un cittadin non sei, tu il sai, pur troppo
per la pace tua interna: esser tiranno
pur ti pesa, anco il veggio: e a ciò non eri
nato tu forse; or, s'io ti abborra, il vedi.
Svela su dunque, ove tu il sappi, a noi,
ed a te stesso in un, ciò ch'esser credi,
ciò ch'esser speri. - Ove nol sappi, impara,
tu dittator dal cittadino Bruto,
ciò ch'esser merti. Cesare, un incarco,
alto piú assai di quel che assumi, avanza.
Speme hai di farti l'oppressor di Roma;
liberator fartene ardisci, e n'abbi
certezza intera. - Assai ben scorgi, al modo
con cui Bruto ti parla, che se pensi
esser giá fatto a noi signor, non io
suddito a te per anco esser mi estimo.

ANTONIO

Del temerario tuo parlar la pena,
in breve, io 'l giuro...

CESARE

Or basti. - Io nell'udirvi
sí lungamente tacito, non lieve
prova novella ho di me dato; e, dove
me signor d'ogni cosa io pur tenessi,
non indegno il sarei; poich'io l'ardito
licenzioso altrui parlare osava,
non solo udir, ma provocare. A voi
abbastanza pur libera non pare
quest'adunanza ancor; benché d'oltraggi
carco v'abbiate il dittator, che oltraggi
può non udir, s'ei vuole. Al sol novello,
lungi dal foro, e senza armate scorte
che voi difendan dalla plebe, io, dunque
entro alla curia di Pompeo v'invito
a consesso piú franco. Ivi, piú a lungo,
piú duri ancora e piú insultanti detti,
udrò da voi: ma quivi, esser de' fermo
il destino dei Parti. Ove ai piú giovi,
non io dissento, ch'ivi fermo a un tempo
sia, ma dai piú, di Cesare il destino.

************

Vittorio Alfieri - Mirra - Dedica

ALLA NOBIL DONNA LA SIGNORA CONTESSA LUISA STOLBERG D'ALBANIA.

Vergognando talor che ancor si taccia,
donna, per me l'almo tuo nome in fronte
di queste ormai giá troppe, e a te ben conte
tragedie, ond'io di folle avrommi taccia;
or vo' qual d'esse meno a te dispiaccia
di te fregiar: benché di tutte il fonte
tu sola fossi; e il viver mio non conte,
se non dal dí che al viver tuo si allaccia.
Della figlia di Ciniro infelice
l'orrendo a un tempo ed innocente amore,
sempre da' tuoi begli occhi il pianto elíce:
prova emmi questa, che al mio dubbio core
tacitamente imperíosa dice;
ch'io di MIRRA consacri a te il dolore.

VITTORIO ALFIERI

*************

Vittorio Alfieri - Mirra - Atto primo - Scena prima

CECRI

Vieni, o fida Euricléa: sorge ora appena
l'alba; e sí tosto a me venir non suole
il mio consorte. Or, della figlia nostra
misera tanto, a me narrar puoi tutto.
Giá l'afflitto tuo volto, e i mal repressi
tuoi sospiri, mi annunziano...

EURICLÉA

Oh regina!...
Mirra infelice, strascina una vita
peggio assai d'ogni morte. Al re non oso
pinger suo stato orribile: mal puote
un padre intender di donzella il pianto;
tu madre, il puoi. Quindi a te vengo; e prego,
che udir mi vogli.

CECRI

È ver, ch'io da gran tempo
di sua rara beltá languire il fiore
veggo: una muta, una ostinata ed alta
malinconia mortale appanna in lei
quel sí vivido sguardo: e, piangesse ella!...
Ma, innanzi a me, tacita stassi; e sempre
pregno ha di pianto, e asciutto sempre ha il ciglio.
E invan l'abbraccio; e le chieggo, e richieggo,
invano ognor, che il suo dolor mi sveli:
niega ella il duol; mentre di giorno in giorno
io dal dolor strugger la veggio.

EURICLÉA

A voi
ella è di sangue figlia; a me, d'amore;
ch'io, ben sai, l'educava: ed io men vivo
in lei soltanto; e il quarto lustro è quasi
a mezzo giá, che al seno mio la stringo
ogni dí fra mie braccia... Ed or, fia vero,
che a me, cui tutti i suoi pensier solea,
tutti affidar fin da bambina, or chiusa
a me pure si mostri? E s'io le parlo
del suo dolore, anco a me il niega, e insiste,
e contra me si adira... Ma pur, meco
spesso, malgrado suo, prorompe in pianto.

CECRI

Tanta mestizia, in quel cor giovenile,
io da prima credea, che figlia fosse
del dubbio, in cui su la vicina scelta
d'uno sposo ella stavasi. I piú prodi
d'Asia e di Grecia principi possenti,
a gara tutti concorreano in Cipro,
di sua bellezza al grido: e appien per noi
donna di se quanto alla scelta ell'era.
Turbamento non lieve in giovin petto
dovean recare i varj, e ignoti, e tanti
affetti. In questo, ella il valor laudava;
dolci modi, in quello: era di regno
maggiore l'un; con maestá beltade
era nell'altro somma: e qual piaceva
piú agli occhi suoi, forse temea che al padre
piacesse meno. Io, come madre e donna,
so qual battaglia in cor tenero e nuovo
di donzelletta timida destarsi
per tal dubbio dovea. Ma, poiché tolta
ogni contesa ebbe Peréo, di Epíro
l'erede; a cui, per nobiltá, possanza,
valor, beltade, giovinezza, e senno,
nullo omai si agguagliava; allor che l'alta
scelta di Mirra a noi pur tanto piacque;
quando in se stessa compiacersen ella
lieta dovea; piú forte in lei tempesta
sorger vediamo, e piú mortale angoscia
la travaglia ogni dí?... Squarciar mi sento
a brani a brani a una tal vista il core.

EURICLÉA

Deh, scelto pur non avesse ella mai!
Dal giorno in poi, sempre il suo mal piú crebbe:
e questa notte, ch'ultima precede
l'alte sue nozze, (oh cielo!) a lei la estrema
temei non fosse di sua vita. - Io stava
tacitamente immobil nel mio letto,
che dal suo non è lungi; e, intenta sempre
ai moti suoi, pur di dormir fea vista:
ma, mesi e mesi son, da ch'io la veggo
in tal martír, che dal mio fianco antico
fugge ogni posa. Io del benigno Sonno,
infra me tacitissima, l'aíta
per la figlia invocava: ei piú non stende
da molte e molte notti l'ali placide
sovr'essa. - I suoi sospiri eran da prima
sepolti quasi; eran pochi; eran rotti:
poi (non udendomi ella) in sí feroce
piena crescean, che al fin, contro sua voglia,
in pianto dirottissimo, in singhiozzi
si cangiavano, ed anco in alte strida.
Fra il lagrimar, fuor del suo labro usciva
una parola sola: «Morte... morte;»
e in tronchi accenti spesso la ripete.
Io balzo in piedi; a lei corro, affannosa:
ella, appena mi vede, a mezzo taglia
ogni sospiro, ogni parola e pianto;
e, in sua regal fierezza ricomposta,
meco addirata quasi, in salda voce
mi dice: «A che ne vieni? or via, che vuoi?...»
Io non potea risponderle; io piangeva,
e l'abbracciava, e ripiangeva... Al fine
riebbi pur lena, e parole. Oh, come
io la pregai, la scongiurai, di dirmi
il suo martír, che rattenuto in petto,
me pur con essa uccideria!... Tu madre,
con piú tenero e vivo amor parlarle
non potevi, per certo. - Ella il sa bene
s'io l'amo; ed anche, al mio parlar, di nuovo
gli occhi al pianto schiudeva, e mi abbracciava,
e con amor mi rispondea. Ma, ferma
sempre in negar, dicea; ch'ogni donzella,
per le vicine nozze, alquanto è oppressa
di passeggera doglia; e a me il comando
di tacervelo dava. Ma il suo male
sí radicato è addentro, egli è tant'oltre,
ch'io tremante a te corro; e te scongiuro
di far sospender le sue nozze: a morte
va la donzella, accertati. - Sei madre;
nulla piú dico.

CECRI

... Ah!... pel gran pianto,... appena...
parlar poss'io. - Che mai, ch'esser può mai?...
Nella sua etade giovanil, non altro
martíre ha loco, che d'amor martíre.
Ma, s'ella accesa è di Peréo, da lei
spontanea scelto, onde il lamento, or ch'ella
per ottenerlo sta? se in sen racchiude
altra fiamma, perché scegliea fra tanti
ella stessa Peréo?

EURICLÉA

... D'amor non nasce
il disperato dolor suo; tel giuro.
Da me sempr'era custodita; e il core
a passíon nessuna aprir potea,
ch'io nol vedessi. E a me lo avria pur detto;
a me, cui tiene (è ver) negli anni madre,
ma in amore, sorella. Il volto, e gli atti,
e i suoi sospiri, e il suo silenzio, ah! tutto
mel dice assai, ch'ella Peréo non ama.
Tranquilla almen, se non allegra, ella era
pria d'aver scelto: e il sai, quanto indugiasse
a scegliere. Ma pur, null'uomo al certo
pria di Peréo le piacque: è ver, che parve
ella il chiedesse, perché elegger uno
era, o il credea, dovere. Ella non l'ama;
a me ciò pare: eppur, qual altro amarne
a paragon del gran Peréo potrebbe?
D'alto cor la conosco; in petto fiamma,
ch'alta non fosse, entrare a lei non puote.
Ciò ben poss'io giurar: l'uom ch'ella amasse,
di regio sangue ei fora; altro non fora.
Or, qual ve n'ebbe qui, ch'ella a sua posta
far non potesse di sua man felice?
D'amor non è dunque il suo male. Amore,
benché di pianto e di sospir si pasca,
pur lascia ei sempre un non so che di speme,
che in fondo al cor traluce; ma di speme
raggio nessuno a lei si affaccia: è piaga
insanabil la sua; pur troppo!... Ah! morte,
ch'ella ognor chiama, a me deh pria venisse!
Almen cosí, struggersi a lento fuoco
non la vedrei!...

CECRI

Tu mi disperi... Ah! queste
nozze non vo', se a noi pur toglier ponno
l'unica figlia... Or va; presso lei torna;
e non le dir, che favellato m'abbi.
Colá verrò, tosto che asciutto il ciglio
io m'abbia, e in calma ricomposto il volto.

EURICLÉA

Deh! tosto vieni. Io torno a lei; mi tarda
di rivederla. Oh ciel! chi sa, se mentre
io cosí a lungo teco favellava
chi sa, se nel feroce impeto stesso
di dolor non ricadde? Oh! qual pietade
mi fai tu pur, misera madre!... Io volo;
deh! non tardare; or, quanto indugi meno,
piú ben farai...

CECRI

Se l'indugiar mi costi,
pensar tu il puoi: ma in tanto insolit'ora,
né appellarla vogl'io, né a lei venirne,
né turbata mostrarmele. Non vuolsi
in essa incuter né timor, né doglia:
tanto è pieghevol, timida, e modesta,
che nessun mezzo è mai benigno troppo,
con quella nobil indole. Su, vanne;
e posa in me, come in te sola io poso.

****************

( Wikisource contiene le Tragedie complete di Vittorio Alfieri:
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MessaggioInviato: Gio Set 13, 2007 1:09 pm    Oggetto:  Vittorio Alfieri: Incipit di alcune opere.
Descrizione:
Rispondi citando

Vittorio Alfieri: Incipit di alcune opere.

-Della tirannide-

ALLA LIBERTÀ

Soglionsi per lo più i libri dedicare alle persone potenti, perché gli autori credono ritrarne chi lustro, chi protezione, chi mercede. Non sono, o DIVINA LIBERTÀ, spente affatto in tutti i moderni cuori le tue cocenti faville: molti ne'loro scritti vanno or qua or là tasteggiando alcuni dei tuoi più sacri e più infranti diritti. Ma quelle carte, ai di cui autori altro non manca che il pienamente e fortemente volere, portano spesso in fronte il nome o di un principe, o di alcun suo satellite; e ad ogni modo pur sempre, di un qualche tuo fierissimo naturale nemico. Quindi non è meraviglia, se tu disdegni finora di volgere benigno il tuo sguardo ai moderni popoli, e di favorire in quelle contaminate carte alcune poche verità avviluppate dal timore fra sensi oscuri ed ambigui, ed inorpellate dall'adulazione.

*************

-La virtù sconosciuta-

DIALOGO, INTERLOCUTORI: FRANCESCO GORI, VITTORIO ALFIERI.

VITTORIO

Qual voce, quale improvvisa e viva voce dal profondo sonno mi appella e mi trae? Ma, che veggio? al fosco e muto ardere della notturna mia lampada un raggiante infuocato chiarore si è aggiunto! Soavissimo odore per tutta la cameretta diffondesi... Son io, son io ben desto, o in dolce sogno rapito?

FRANCESCO

E che? non conosci la voce, l'aspetto non vedi del già dolce tuo amico del cuore, e dell'animo?

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-Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso-

Il parlare, e molto più lo scrivere di sé stesso, nasce senza alcun dubbio dal molto amor di sé stesso. Io dunque non voglio a questa mia Vita far precedere né deboli scuse, né false o illusorie ragioni, le quali non mi verrebbero a ogni modo punto credute da altri; e della mia futura veracità in questo mio scritto assai mal saggio darebbero. Io perciò ingenuamente confesso, che allo stendere la mia propria vita inducevami, misto forse ad alcune altre ragioni, ma vie più gagliardo d'ogni altra, l'amore di me medesimo: quel dono cioè, che la natura in maggiore o minor dose concede agli uomini tutti, ed in soverchia dose agli scrittori, principalissimamente poi ai poeti, od a quelli che tali si tengono.

Note

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"La vita" è universalmente considerata un capolavoro letterario, se non il più importante, sicuramente il più conosciuto, infatti, secondo M. Fubini, l'Alfieri fu per molto tempo l'autore della "Vita", che ancora inedita, madame de Staël leggeva rapita in casa della contessa d'Albany e ne scriveva entusiasta al Monti.

↑ Alfieri cominciò a scrivere la propria biografia (la "Vita scritta da esso" ) dopo la pubblicazione delle sue tragedie. La prima parte fu scritta tra il 3 aprile ed il 27 maggio 1790 e giunge fino a quell'anno, la seconda fu scritta tra il 4 maggio ed il 14 maggio 1803 (anno della sua morte).

"Nella città d'Asti in Piemonte, il dí 17 di gennaio dell'anno 1749, io nacqui di nobili, agiati ed onesti parenti." In realtà, Vittorio Alfieri nasce il 16 gennaio; tuttavia nella sua biografia scrive 17 gennaio.

↑ Nel 1999, la Zecca dello Stato italiano, in occasione del 250° anniversario della nascita del poeta, ha emesso una moneta in argento 835/1000, del peso di gr 14,60, diametro mm. 31,40, con l'effige di Vittorio Alfieri ed al verso il celebre motto nella forma "volli sempre volli fortissimamente volli" (tiratura 51.800 pezzi).

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(Articolo Letterario tratto da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.)

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