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Charles Baudelaire: Vita&Opere
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MessaggioInviato: Mer Ott 11, 2006 3:50 pm    Oggetto:  Charles Baudelaire: Vita&Opere
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Charles Baudelaire: Vita&Opere

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Charles Baudelaire (Parigi, 9 aprile 1821 – Parigi, 31 agosto 1867) è stato un poeta e critico letterario francese.

Indice [in questa pagina]:

1 Biografia
2 I fiori del male e la fine
3 Simbolismo e allegorismo
4 Alcune opere

**********

Biografia

Nacque dall'unione di un funzionario di stato sessantenne ex-sacerdote con la passione per la pittura, Joseph-François Baudelaire, e la ventisettenne Caroline Archimbaut-Dufays. All'età di sei anni restò orfano del padre. Caroline decise così di sposare Jacques Aupick, un tenente colonnello che, a causa della sua rigidità, si guadagnò ben presto l'odio del giovane Charles.

Nel 1833 tentò l'iscrizione al liceo Louis-Le-Grand che però, a causa della frequentazione di cattivi ambienti e del suo stile di vita dissoluto, venne interrotta dal patrigno che lo mandò in India sulla nave Paquebot des Mers du Sud. Da questa esperienza nacque la passione per l'esotismo che si rifletterà in seguito nella sua opera di maggior successo: I fiori del male.

Dieci mesi dopo la sua partenza per l'India Baudelaire fa rientro a Parigi dove, grazie al patrimonio paterno, inizia una vita di grande libertà. Nel 1842 si avvicina a Gautier prendendolo a modello sia nell'ambito spirituale che in quello artistico e nello stesso periodo incontra Jeanne Duval con la quale avvia una appassionata storia d'amore che diverrà per il poeta fonte di notevoli spunti letterari.

La vita di Baudelaire intanto si evolveva: prendeva alloggio al centralissimo Hotel de Pimodan sull'isola di Saint-Louis e, frutto della sua repentina celebrità come dandy, aveva il proprio ritratto, opera di Pierre Dufay, nello studio; le tende oscuravano solo la parte inferiore della finestra sulla Senna, così da vedere esclusivamente il cielo. I generosi dispendi economici intaccarono rapidamente la metà del patrimonio paterno costringendo la madre, dietro consiglio del patrigno, ad interdire il giovane ed affidare il suo patrimonio ad un notaio. Fu l'anno successivo che Baudelaire tentò per la prima volta il suicidio.

Il 1846 lo vede esordire come poeta con l'opera "A una signora creola" e, contemporaneamente, collaborare con riviste e giornali attraverso articoli e saggi e critiche d'arte. Passano tre anni e, nel 1848, Baudelaire prende parte ai moti rivoluzionari parigini; nel 1850 inizia ad amare lo scrittore Edgar Allan Poe, a cui dedicherà diversi articoli e personali traduzioni. Il suo impegno giornalistico si determina anche nelle varie critiche d'arte, pagine di grande modernità ed originalità che si fondono profondamente con l'estetica del tempo e con la poetica dei suoi versi.

I fiori del male e la fine

Nel 1857 l'editore Poulet-Malassis pubblica in 500 copie la raccolta di cento poesie intitolata I fiori del male (Les fleurs du mal) che verrà sequestrata qualche mese dopo, facendo finire Baudelaire e l'editore in sede processuale con l'accusa di pubblicazione oscena e oltraggiosa. L'esito del processo porterà alla censura di sei poesie (verranno pubblicate a parte a Bruxelles col titolo "I relitti") e ad una pena pecuniaria poi ridotta su decisione dell'Imperatrice.

Nel 1860 viene colto da una prima crisi cerebrale.

Nel 1861 tenta per la seconda volta il suicidio.

Nel 1864 dopo essere stato rifiutato all'Acadèmie française si reca a Bruxelles con la speranza di poter ricavare un po' di denaro per mezzo di alcune conferenze. La monotonia e la noia di questo periodo rivivono nei pessimistici pensieri di "Il mio cuore messo a nudo" e nella ferocia delle "Amenità belgiche", opere a cui lavora con crescente disperazione e che rimarranno abbozzate.

Nel 1866 a causa di un attacco di emiplegia e di afasia rimane paralizzato nel lato destro del corpo.

Ormai malato, cerca sollievo nelle droghe ma, nel 1867, dopo una straziante agonia della paralisi muore a soli 46 anni. Viene sepolto a Parigi nel cimitero di Montparnasse senza alcun particolare epitaffio nella tomba di famiglia, insieme al patrigno e, in seguito, alla madre. Nel 1949 la Corte di Cassazione francese decide di riabilitare opere e memoria del poeta scomparso.

Simbolismo e allegorismo

Il senso di disagio provocato dalla violenta trasformazione socio-economica dell''800 si è manifestato in due diverse poetiche nell'opera di Baudelaire. La prima, quella del simbolismo, è generata da un forte desiderio di ritrovare quel forte legame tra le società pre-industriali e la natura. Sono poste in risalto le analogie tra uomo e natura e sono accostati i diversi messaggi sensoriali provenienti dal mondo naturale, espressi attraverso la figura retorica della sinestesia. La seconda, l'allegorismo, deriva dal tentativo di sottolineare il profondo distacco della vita rispetto alla nuova realtà industriale, proponendo al lettore spunti di riflessione che richiedono un'attività razionale per essere compresi.

Alcune opere

-I fiori del male
-A una signora creola
-L'Arte romantica (raccolta di articoli e saggi)
-Curiosità estetiche (raccolta di articoli e saggi)
-I Paradisi artificiali (Saggio)
-Lo spleen di Parigi (Piccoli poemetti in prosa)
-Il mio cuore messo a nudo
-Il pittore della vita moderna
-La Fanfarlo (novella)

***************

( Biografia tratta da Wikipedia, l'enciclopedia libera:
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MessaggioInviato: Mer Ott 11, 2006 3:50 pm    Oggetto: Adv






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MessaggioInviato: Mer Ott 11, 2006 4:05 pm    Oggetto:  Charles Baudelaire: Les Fleurs du Mal
Descrizione:
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Charles Baudelaire: Les Fleurs du Mal.

I fiori del male (Les fleurs du Mal) è il titolo di una raccolta poetica di Charles Baudelaire (1821-1867). Fu pubblicata nella primavera del 1857 in una tiratura di 1320 esemplari e comprendeva cento poesie divise in cinque sezioni: "Spleen et ideal", "Les fleurs du mal", "La revolte", "Le vin" e "La mort".

L'opera venne immediatamente censurata perché la forma poetica e i temi trattati fecero scandalo, così come il primo titolo dell'opera "Les lesbiennes". Nel 1861 uscì in 1530 esemplari la versione aggiornata dell'opera dove Baudelaire rimosse le sei liriche accusate e le sostituì con altre 35 dividendo l'opera diversamente e aggiungendo la sezione "Tableaux Parisiens".

Analisi critica

L'opera può a ragione considerarsi alla base della poesia moderna grazie allo straordinario contributo che Baudelaire fornisce unendo il suo gusto parnassiano per la forma con i contenuti figli di un tardo romanticismo ma spinti all'estremo dal gusto del poeta. Temi quali la morte, l'amore e lo slancio religioso vengono estremizzati col gusto dell'orrore, il senso del peccato e il satanismo. Tra i componimenti più riusciti dell'opera sono senza dubbio da citare "Spleen", "L'albatro", "Corrispondenze" (che anticipa temi tanto cari al decadentismo).

A detta dello stesso Baudelaire l'opera va intesa come un viaggio immaginario che il poeta compie verso l'inferno che è la vita. Nella prima sezione "Spleen et ideal" Baudelaire esprime lo stato di malessere del poeta (figura fondamentale nella sua produzione). Egli è uno spirito superiore capace di elevarsi al di sopra degli uomini e di percepire con la sua sensibilità innata le segrete corrispondenze tra gli oggetti, i profumi e gli elementi della natura (Correspondances), ma proprio a causa delle sue capacità il poeta è maledetto dalla società (Benedition) e diventa oggetto di scherno per gli uomini comuni. Baudelaire sceglie l'albatros per simboleggiare questa condizione, come il grande uccello marino infatti, il poeta si eleva ai livelli più alti della percezione e della sensibilità ma una volta sulla terra ferma non riesce a muoversi proprio a causa delle sue capacità (paragonate alle ali dell'albatros). La causa della sofferenza del poeta è lo spleen (letteralmente "milza"), un angoscia esistenziale profonda e disperata che lo proietta in uno stato di perenne disagio che Baudelaire descrive in ben quattro splendidi componimenti tutti col titolo di "Spleen".

La seconda sezione "Tableaux parisiens" rappresenta il tentativo del poeta di fuggire l'angoscia proiettandosi al di fuori della sua dimensione personale nell'osservazione della città, tuttavia il tentativo si rivela vano poiché nel guardare della grande città lo spirito inquieto non trova che gente sofferente proprio come lui. Le poesie di questa sezione (notevole "I sette vecchi") rappresentano il primo esempio di poesia che descrive l'angoscia della città moderna, ad essi si ispireranno grandi autori successivi come T. S. Eliot che nella sua "Terra desolata" si ispira dichiaratamente al poeta parigino. Anche le sezione successive "Le vin" e "Fleurs du mal" sono tentativi che il poeta compie di fuggire lo Spleen rifugiandosi nell'alcool e nell'alterazione delle percezioni.

I fiori del male sono i paradisi artificiali (tanto cari all'autore, che vi dedicherà un'intera opera) e gli amori proibiti e peccaminosi che danno l'illusoria speranza di un conforto. Quando anche questi effimeri piaceri vengono a svanire al poeta non rimane che "La revolte", il rinnegamento di Dio e l'invocazione di Satana che tuttavia non si rivela utile alla sua fuga.

L'ultimo appiglio per lo spirito disperato del poeta è la morte, intesa non come passaggio ad una nuova vita ma come distruzione e disfacimento a cui tuttavia il poeta si affida nel disperato tentativo di trovare nell'ignoto qualcosa di nuovo, diverso dall'onnipresente angoscia. Per quanto riguarda l'ultima sezione "La mort" è da notare "Le voyage" la poesia che chiude I fiori del male.

Il 25 giugno 1857 Les Fleurs du Mal viene messo in vendita, ma dopo pochi giorni viene sequestrato per oscenità: nel processo penale che si celebra il 20 agosto Baudelaire e gli editori vengono condannati «pour dèlit d'outrages a la morale publique».

(Articolo Letterario tratto da Wikipedia, l'enciclopedia libera.)

**********

-Le Balcon

Mère des souvenirs,
maîtresse des maîtresses,
O toi, tous mes plaisirs!
Ô toi, tous mes devoirs!
Tu te rappelleras la beauté des caresses,
La douceur du foyer et le charme des soirs,
Mère des souvenirs, maîtresse des maîtresses!

Les soirs illurninés par l'ardeur du charbon,
Et les soirs au balcon,
voilés de vapeurs roses.
Que ton sein rn'était doux!
Que ton coeur m'était bon!
Nous avons dit souvent d'impérissables choses
Les soirs illurninés par l'ardeur du charbon.

Que les soleils sont beaux dans les chaudes soirées!
Q ue l'espace est profond! que le coeur est puissant!
En me penchant vers toi,
reine des adorées,
Je croyais respirer le parfum de ton sang.
Que les soleils sont beaux dans les chaudes soirées!

La nuit s'épaississait ainsi qu'une cloison,
Et mes yeux dans le noir devinaient tes prunelles,
Et je buvais toli souffle, ô douceur! ô poison!
Et tes pieds s'endormaient dans mes mains fraternelles.
La nuit s'épaississait ainsi qu'une cloison.

Je sais l'art d'évoquer les minutes heureuses,
Et revis mon passé blotti dans tes genoux.
Car à quoi bon chercher tes beautés langoureuses
Ailleurs qu'en ton cher corps et qu'en ton cceur si doux?
Je sais l'art d'évoquer les minutes heureuses!

Ce serments, ces parfums, ces baisers infinis,
Renaîtront-ils d'un gouffre interdit à nos sondes,
Comme montent au ciel les soleils rajeunis
Après s'ètre lavés au fond des mers profondes?
- O serments! Ô parfums! Ô baisers infinis!

TRADUZIONE:

-Il Balcone

O madre dei ricordi, amante delle amanti, o tu che assommi
tutti i miei piaceri, tutti i miei doveri. Ricorderai la
bellezza delle carezze, la dolcezza del focolare, l'incanto
delle sere, madre dei ricordi, amante delle amanti?

Le sere illuminate dall'ardore dei tizzoni e le sere al balcone,
velate da vapori rosa. Come il tuo seno m'era dolce
il tuo cuore fraterno! Noi abbiamo pronunciato spesso
imperiture parole, le sere illuminate dall'ardore dei tizzoni.

Come sono belli i soli nelle calde sere, come lo spazio è
profondo, il cuore possente! Curvandomi su di te, regina
fra tutte le adorate, credevo respirare il profumo del tuo
sangue. Come sono belli i soli nelle calde sere!

La notte s'ispessiva come un muro, i miei occhi indovinavano
al buio le tue pupille e io bevevo il tuo respiro,
o dolcezza mia, mio veleno, mentre i tuoi piedi s'addormentavano
nelle mie mani fraterne. La notte s'ispessiva come un muro.

Conosco l'arte di evocare gli istanti felici: così rividi il
mio passato, accucciato fra i tuoi ginocchi. Perché cercare
la tua languida bellezza fuori del tuo caro corpo e del tuo
cuore così dolce? Conosco l'arte di evocare gli istanti felici.

Giuramenti, profumi, baci senza fine rinasceranno da un
abisso interdetto alle nostre sonde così come risalgono al
cielo i soli, rinvigoriti, dopo essersi lavati nel profondo
dei mari. O giuramenti, profumi, baci senza fine!

***************

-Una carogna

Anima mia, ricordi (era un mattino
bello d'estate, e cosí dolce) quello
che vedemmo alla svolta d'un sentiero?

Un'infame carogna, sopra un letto
fatto di sassi, con le zampe in aria
come lasciva femmina, [...]

Si, tale tu sarai, di tutte grazie
regina, quando dopo i sacramenti
estremi, te ne andrai sotto le piante
grasse, frammezzo alle ossa a imputridire,
sotto l'erba.

Ma allora di', mia bella,
di' pure ai vermi che ti mangeranno
di baci, che geloso ho conservato
di tutti quanti i decomposti amori
in me la forma e la divina essenza

(Ch. Baudelaire, I fiori del male. I relitti. Supplemento ai Fiori del male, a cura di L. De Nardis. Saggio introduttivo di E. Auerbach, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 55-57)

************

L’albatro

Spesso, per divertirsi, gli uomini d’equipaggio
catturano degli albatri, grandi uccelli di mare,
che seguono, indolenti compagni di viaggio,
la nave che scivola sugli abissi amari.

Appena li hanno deposti sul ponte,
questi re dell’azzurro, maldestri e vergognosi,
lasciano cadere miseramente le grandi ali bianche
come remi inerti trascinati ai loro fianchi.

Quel viaggiatore alato, com’è sgraziato e remissivo!
Lui, poco fa così bello, com’è comico e brutto!
Uno gli stuzzica il becco con la pipa,
un altro imita, zoppicando, l’infermo che volava!

Il Poeta è come lui, principe delle nuvole
che sfida la tempesta e se la ride dell’arciere;
fra le grida di scherno esule in terra,
le sue ali di gigante non gli permettono di camminare.

****************

Il gatto

Vieni sul mio cuore innamorato, mio bel gatto:
trattieni gli artigli della zampa,
e lasciami sprofondare nei tuoi occhi belli
misti d’agata e metallo.

Come s’inebria di piacere la mia mano
palpando il tuo elettrico corpo
con le dita che tranquille ti accarezzano
la testa e il dorso elastico!

E penso alla mia donna, a quel suo sguardo
come il tuo, amabile bestia,
freddo e profondo che taglia e fende come freccia,

e a quell’aria, a quel profumo
che pericoloso fluttua sul suo corpo
dai piedi su fino alla testa!

*************

Franciscae meae laudes

Novis te cantabo chordis,
o novelletum quod ludis
in solitudine cordis.

Esto sertis implicata,
o femina delicata
per quam solvuntur peccata!

Sicut beneficum Lethe,
hauriam oscula de te,
quae imbuta es magnete.

Quum vitiorum tempestas
turbabat omnes semitas,
apparuisti, Deitas,

velut stella salutaris
in naufragiis amaris...
Suspendam cor tuis aris!

Piscina plena virtutis,
fons aeternae juventutis,
labris vocem redde mutis!

Quod erat spurcum, cremasti;
quod rudius, exaequasti;
quod debile, confirmasti.

In fame mea taberna,
in nocte mea lucerna,
recte semper me guberna.

Adde nunc vires viribus,
dulce balneum suavibus
unguentatum odoribus!

Meos circa lumbos mica,
o castitatis lorica,
aqua tincta seraphica;

patera gemmis corusca,
panis salsus, mollis esca,
divinum vinum, Francisca!

TRADUZIONE:

Lodi della mia Francesca

Ti canterò su nuove corde,
o giardino che germogli
nella solitudine del cuore!

Sii da corona inghirlandata,
o donna delicata
per il cui merito sono assolti i peccati!

Come benefico Lete,
berrò baci da te,
che sei impregnata di magnete.

Quando la tempesta dei vizi
confondeva ogni sentiero,
sei apparsa, Dea,

come una stella salvatrice
in naufragi amari...
Sospenderò il cuore ai tuoi altari!

Piscina piena di virtù,
sorgente di eterna gioventù,
ridai voce alle labbra mute!

Hai bruciato ciò che era sporco;
hai levigato ciò che era scabro;
hai rafforzato ciò che era debole.

Quando ho fame, sei la mia taverna,
quando è notte, la mia lucerna,
guidami sempre sulla retta via.

Accresci ora il vigore alle mie forze,
dolce bagno di soavi
odori profumato!

Palpita intorno ai miei fianchi,
o corazza di castità,
intinta d'acqua serafica;

coppa splendente di gemme,
pane saporito, soffice vivanda,
vino divino, o Francesca!

***************

A una passante

La via assordante strepitava intorno a me.
Una donna alta, sottile, a lutto, in un dolore
immenso, passò sollevando e agitando
con mano fastosa il pizzo e l'orlo della gonna,

agile e nobile con la sua gamba di statua.
Ed io, proteso come folle, bevevo
la dolcezza affascinante e il piacere che uccide
nel suo occhio, livido cielo dove cova l'uragano.

Un lampo... poi la notte! - Bellezza fuggitiva
dallo sguardo che m'ha fatto subito rinascere,
ti rivedrò solo nell'eternità?

Altrove, assai lontano di qui! Troppo tardi! Forse mai!
Perché ignoro dove fuggi, né tu sai dove vado,
tu che avrei amata, tu che lo sapevi!

****************

La Beatrice

Mi lagnavo con la natura un giorno
in luoghi senza verde, tutti calce e cenere,
vagando a caso e aguzzando lentamente
sul cuore la lama del pensiero,
ed ecco che mi cala sul capo, in pieno pomeriggio,
una nube grossa e buia di tempesta
con uno strascico di demoni viziosi
simili a nani crudeli e curiosi.
Si mettono a guardarmi freddamente
e sento che ridono e parlottano tra loro
con scambi di segni e strizzatine d'occhi
come dei passanti che s'imbattono in un folle:

- << Guarda che caricatura! Che sagoma!
con lo sguardo incerto e i capelli al vento
sembra quasi Amleto: recita! Ci prova!
Non ti fa pena vederlo? Pezzente, mariolo
istrione in vacanza, sì, ma in fondo un buon uomo!
Recita con tale arte la sua parte
che vuole interessare al suo canto di dolore
aquile, grilli, ruscelli e fiori!
Forza! Declami anche a noi le sue pubbliche tirate!
Capirai, le inventammo noi certe trovate! >>

Che fare? Il mio orgoglio alto come i monti
è superiore alla nube e al grido dei demoni;
bastava che girassi il mio capo sovrano;
ma in quella turba oscena ecco che vedo
la regina del mio cuore, dallo sguardo senza pari!
E non rideva pure lei della mia cupa angoscia?
E, per di più, non largiva a quelle luride carezze?
Che delitto! E tu sole perché non t'oscurasti?

*******************

Il crepuscolo della sera

Complice dei ribaldi, ecco già la leggiadra
sera a passi di lupo giunge, come una ladra;
lento si chiude il cielo, come una grande alcova,
e una belva si muove nell'uomo, avida e nuova.
O dolce sera, premio di chi, senza mentire,
le affaticate braccia guardandosi, può dire:
<< Oggi s'è lavorato >>, tu che sai consolare
l'anime tribolate dalle pene più amare,
lo studioso ostinato che già reclina il ciglio,
l'operaio che curvo ritorna al suo giaciglio!
Pesantemente, intanto, nell'aria orde di neri
demoni si risvegliano a guisa di banchieri,
e su imposte e tettoie ciecamente s'avventano.
Nelle vie, fra le luci che la bora tormenta,
s'accende il Meretricio, e si scava, alla pari
d'un formicaio, mille labirinti e ripari,
aprendosi dovunque qualche varco nascosto,
come avanza nell'ombra furtivo un avamposto,
e nel grembo di fango delle città malsane
di soppiatto movendosi , come il verme nel pane.
Qua e là le cucine s'odono ora ansare,
e muggire i teatri, e le orchestre russare;
ora, in combutta, mettono bari e sgualdrine il piede
nei locali ove il gioco le sue gioie concede,
mentre i ladri, che posa non hanno né pietà,
vanno anch'essi al lavoro, e piano piano già
forzano gli usci e vuotano le casseforti infrante,
per vivere qualche giorno e vestire l'amante.

Chiuditi in te in questo solenne attimo, o mia
anima; ignora l'urlo che sale dalla via.
Questa è l'ora che accresce gli spasimi del male,
e di sospiri e aneliti riempie l'ospedale,
quando il comune abisso ad uno ad uno inghiotte
i morenti, abbrancati dalla squallida Notte.
- Mai più per loro, a sera, l'odorosa pietanza,
né, accanto al fuoco, un viso di donna, in una stanza...

Del resto, i più non hanno nemmeno conosciuto
il bene d'una casa, non hanno mai vissuto!

*******************

L'uomo e il mare

Sempre amerai, uomo libero, il mare!
E' il tuo specchio: contempli dalla sponda
in quel volgere infinito dell'onda
la tua anima, abisso anch'esso amaro.

T'immergi felice nella tua immagine,
la desideri, l'abbracci, e il tuo cuore
un poco si distrae dal suo rumore
con quel lamento ribelle, selvaggio.

Siete entrambi tenebrosi e discreti:
uomo, chi può esplorare i tuoi abissi,
mare, chi può sondare i tuoi possessi?
Siete gelosi dei vostri segreti.

E tuttavia da tempo immemorabile
vi combattete rischiando la sorte,
tanto vi esalta la strage e la morte:
nemici eterni, fratelli implacabili.

****************

La pipa

Sono la pipa d'uno scrittore:
con questa faccia
d'Abissina o Cafra, si vede
che il padrone è un gran fumatore!

Se lui è pieno di dolore,
fumo come la capanna
dove si cucina
per il contadino che ritorna.

Come gli allaccio e cullo l'anima
nella rete azzurra e mobile
che sale dalla mia bocca di fuoco!

E che dittamo potente effondo
per affascinargli il cuore e guarirgli
lo spirito dalle fatiche!

*****************

Tristezza della Luna

Questa sera la luna sogna più languidamente; come una
bella donna che su tanti cuscini con mano distratta e leggera
prima d'addormirsi carezza il contorno dei seni,
e sul dorso lucido di molli valanghe morente, si abbandona
a lunghi smarrimenti, girando gli occhi sulle visioni
bianche che salgono nell'azzurro come fiori in boccio.

Quando, nel suo languore ozioso, ella lascia cadere su questa
terra una lagrima furtiva, un pio poeta, odiatore del sonno,

accoglie nel cavo della mano questa pallida lagrima
dai riflessi iridati come un frammento d'opale, e la nasconde
nel suo cuore agli sguardi del sole.

******************

Conversazione

Tu sei un bel cielo d'autunno, chiaro e rosa! Ma la tristezza
monta in me come il mare e lascia, rifluendo, sul mio
labbro corrucciato, il ricordo cocente del suo fango amaro.

- La tua mano scivola invano sul mio petto che si strugge;
ciò che cerca, amica, è un luogo devastato dall'unghia
e dal dente feroce della donna - Non cercare più il mio cuore: le belve
l'hanno divorato.

Il mio cuore è un palazzo lordato dalla folla: ci si ubriaca,
ci si ammazza, ci si tira per i capelli. Un profumo
ondeggia attorno al tuo seno nudo.

Beltà, dura frusta delle anime, tu lo vuoi! Con i tuoi
occhi di fuoco, splendenti come feste, tu bruci i brandelli
che le belve han risparmiato.

********************

Il serpente che danza

O quant’amo vedere, cara indolente,
delle tue membra belle,
come tremula stella rilucente,
luccicare la pelle!
Sulla capigliatura tua profonda
dall’acri essenze asprine,
odorosa marea vagabonda
di onde turchine,
come un bastimento che si desta
al vento antelucano
l’anima mia al salpare s’appresta
per un cielo lontano.
I tuoi occhi in cui nulla si rivela
di dolce né d’amaro
son due freddi gioielli, una miscela
d’oro e di duro acciaro.
Quando cammini cadenzatamente
bella nell’espansione,
si direbbe, al vederti, che un serpente
danzi in cima a un bastone.

*****************

Corrispondenze

Natura è un tempio in cui colonne vive
Talvolta lasciano uscire parole
Confuse; l'uomo vi passa attraverso
Foreste di simboli, che l'osservano
Con sguardi familiari. Come lunghi
Echi che in lontananza si confondono
In tenebrosa e profonda unità
Spaziosa come la notte e la luce,
Colori odori suoni si rispondono.
Ci sono odori freschi come carni
Di bimbi, dolci come gli oboi, verdi
Come i prati, - altri corrotti, ricchi
E trionfanti, hanno l'effusione
Delle cose infinite: l'ambra, il muschio,
Il benzoino e l'incenso, che cantano
Gli ardori dello spirito e dei sensi.

********************

Confessione

Una volta, una sola, dolce e amabile donna,
al mio braccio il vostro tornito
si appoggiò (sul fondo oscuro dell'anima
quel ricordo non è impallidito);

era tardi; la luna piena si stagliava
come una medaglia nuova lucente
e la solennità notturna scivolava,
come un fiume, su Parigi dormiente.

Lungo le case, nel buio degli androni
gatti passavano furtivamente,
le orecchie tese, o, come care ombre,
ci accompagnavano lentamente.

A un tratto, nell'intimità così libera
schiusasi a quella pallida luce,
da voi, ricco e sonoro strumento, in cui non vibra
che la gaiezza radiosa,

da voi, chiara e festosa come una fanfara
nel mattino scintillante,
un nota querula, una nota dissonante
sfuggì, avanzò vacillando

come una grama, orrida, triste, immonda bambina
che la famiglia avesse lungamente
tenuto, per vergogna, chiusa in qualche cantina
per nasconderla alla gente.

Povero angelo, cantava, quella nota stridula:
<<Che quaggiù niente è sicuro,
che sempre, benché si mascheri con cura,
l'egoismo umano si tradisce;

che essere una bella donna è un duro mestiere,
è il lavoro quotidiano
della ballerina gelida e folle, rapita
in un sorriso meccanico;

che costruire sui cuori è tempo perso,
che tutto si sgretola, amore e beltà,
fino a quando l'Oblio li getta nel suo cesto
per restituirli all'Eternità!>>

Ho spesso rievocato quella luna incantata,
quel silenzio e quel languore,
e quell'orribile confidenza sussurrata
al confessionale del cuore.

**********

XCIX

Non ho dimenticato la nostra casa bianca,
piccola ma tranquilla, vicina alla città,
con la Pomona di gesso e l'antica Venere
dalle membra nude dentro un gramo boschetto
e il sole che superbo grondava nella sera
e dietro i vetri, ove il suo fascio si frangeva,
sembrava, grande occhio aperto nel cielo curioso,
contemplare i nostri lunghi e silenziosi pranzi,
diffondendo i bei riflessi di cero
sulla tovaglia e sulle tende grezze!

**************

Il Sole

Lungo il vecchio sobborgo, ove le persiane pendono dalle
catapecchie rifugio di segrete lussurie, quando il sole
crudele batte a raggi raddoppiati sulla città e i campi, sui
tetti e le messi, io mi esercito tutto solo alla mia fantastica scherma,
annusando dovunque gli imprevisti della rima,
inciampando nelle parole come nel selciato, urtando
qualche volta in versi a lungo sognati.

Questo padre fecondo, nemico di clorosi, sveglia nei campi
i vermi e le rose, fa svaporare gli affanni verso il cielo,
immagazzina miele nei cervelli e negli alveari. E' lui a
ringiovanire coloro che vanno con le grucce e a renderli
allegri, dolci come fanciulli, lui a ordinare alle messi di
crescere e maturare entro il cuore immortale che vuol
sempre fiorire.

Quando, simile a un poeta, scende nelle città, nobilita le
cose più vili e s'introduce da re senza rumore, senza paggi,
entro tutti gli ospedali e tutti i palazzi.

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Ultima modifica di Monia Di Biagio il Mer Set 12, 2007 2:09 pm, modificato 1 volta in totale
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MessaggioInviato: Mer Ott 11, 2006 4:06 pm    Oggetto:  Charles Baudelaire: Paradisi artificiali
Descrizione:
Rispondi citando

Charles Baudelaire: Paradisi artificiali

-I Paradisi artificiali
-Titolo originale Les Paradis Artificiels
-Autore: Charles Baudelaire
-Anno (1a pubblicazione) : 1860
-Genere: Saggio

Progetto Letteratura

I Paradisi artificiali è un saggio pubblicato da Charles Baudelaire nel 1860.

In questo scritto l'autore descrive le sensazioni provate dopo l'assunzione di sostanze stupefanti quali hashish oppio e vino. Baudelaire cava da tutto ciò ispirazioni, riflessioni e corrispondenze colte dalla letteratura e dall'arte. Con l'espressione "paradisi artificiali" si designano al giorno d'oggi le droghe di qualsiasi tipo (in particolare allucinogeni come la mescalina o l' LSD) utilizzate spesso al fine di stimolare la creatività poetica e l'invenzione di immagini originali.

**************

(Articolo Letterario tratto da Wikipedia, l'enciclopedia libera.)

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MessaggioInviato: Mer Set 12, 2007 2:42 pm    Oggetto:  Charles Baudelaire: Lo spleen di Parigi
Descrizione:
Rispondi citando

Charles Baudelaire: Lo spleen di Parigi

Lo Spleen di Parigi (Le spleen de Paris) è una collezione di poemetti in prosa scritta da Charles Baudelaire. Fu pubblicato nel 1869, postumo, dalla sorella dell'autore. I poemetti non hanno un particolare ordine, sono provocatori e sondano sentimenti, abitudini e personaggi della Parigi di quel secolo. Possono essere letti come pensieri o piccole storie nello stile dello "stream of consciousness".

Baudelaire ha detto del suo lavoro: "Questi sono i nuovi fiori del male, ma con più libertà, molti più dettagli, e molta più satira."

Lo spleen

Lo spleen è una forma particolare di disagio esistenziale, che si traduce - a livello espressivo - in una fertile creatività poetica, capace di oggettivizzare le sensazioni e gli stati d'animo in numerose immagini visionarie, prodotte dall' inconscio baudeleiriano. Lo spleen è una particolare caratterizzazione dell'inettitudine, che indubbiamente include elementi di debolezza psicologica e di mancato adeguamento al reale, ma che - a differenza della noia leopardiana - non produce argomentazione e pensiero, riflessività sulla condizione umana, ma si gioca tutta a livello artistico nella resa espressionistica degli effetti devastanti, allucinatori dell'angoscia esistenziale.

Leggendo la poesia rimangono impresse soprattutto le immagini di chiusura opprimente, materializzate simbolicamente dalla strana analogia del coperchio / cielo che pesa sull'anima gemente o delle strisce di pioggia assimilate alle sbarre di una prigione. Infine gli effetti di questa angoscia devastante non sono il perdurare di uno stato d'animo riflessivo e pronto ad accettare questa condizione mentale e psicologica, ed a sfruttarla come foriera di nuovi approfondimenti concettuali. Quanto piuttosto un'abdicazione definitiva della Speranza ( personificata appunto ) che sembra ridurre il soggetto in preda ad un'oppressione crescente e davvero capace di neutralizzare le energie creative del poeta.

(Articolo Letterario tratto da Wikipedia, l'enciclopedia libera.)

*****************

Lo Spleen di Parigi - Baudelaire: Traduzione in italiano

A ARSÈNE HOUSSAYE

Mio caro amico, vi mando un'operetta di cui solo ingiustamente si potrebbe dire che non ha né capo né coda, poiché, al contrario, tutto in essa è, nello stesso tempo, e testa e coda, alternativamente e reciprocamente. Considerate, vi prego, quali mirabili comodità questa combinazione offre a noi tutti, a voi, a me e al lettore. Possiamo tagliare dove vogliamo: io la mia fantasticheria, voi il manoscritto, il lettore la sua lettura; infatti, la riluttante volontà di quest'ultimo non la sospendo all'interminabile filo di un intreccio superfluo. Staccate pure una vertebra, e i due pezzi di questa tortuosa fantasia si ricongiungeranno senza sforzo. Spezzatela in numerosi frammenti, e vedrete che ognuno di essi può esistere separatamente. Nella speranza che alcuni di questi tronconi resteranno vivi abbastanza da piacervi e divertirvi, oso dedicarvi l'intero serpente.

Devo farvi una piccola confessione. È sfogliando almeno per la ventesima volta il famoso Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand (un libro conosciuto da voi, da me e da qualcuno dei nostri amici, non ha tutto il diritto di essere definito famoso?), che mi è venuta l'idea di tentare qualcosa di analogo, e di applicare alla descrizione della vita moderna - o piuttosto di una vita moderna e più astratta - lo stesso procedimento che egli aveva applicato alla rappresentazione della vita di un tempo, così stranamente pittoresca.

Chi di noi non ha sognato, in quest'epoca di ambizioni, una prosa poetica, musicale ma senza rima e senza ritmo costante, abbastanza flessibile e spezzata da adattarsi ai movimenti lirici dell'anima, alle oscillazioni del fantasticare, ai soprassalti della coscienza?

È soprattutto dalla frequentazione delle città enormi e dall'incrociarsi dei loro rapporti innumerevoli, che nasce questo ideale ossessivo. Voi stesso, mio caro amico, non avete forse tentato di tradurre in una canzone il grido stridulo del vetraio e di esprimere in una prosa lirica tutte le desolanti suggestioni che questo grido spedisce in alto, fino alle mansarde, attraverso le più spesse brume della strada?

A dire il vero, però, temo che la gelosia non mi abbia portato fortuna. Appena cominciato il lavoro, mi resi conto che non solo restavo assai lontano dal mio misterioso e brillante modello, ma che stavo facendo qualcosa (se posso chiamarlo qualcosa) di stranamente diverso: risultato del quale chiunque altro si sarebbe senza dubbio inorgoglito, ma che può solo umiliare profondamente uno spirito che considera come il più grande onore del poeta il fatto di compiere esattamente ciò che ha progettato di fare.

Vostro affezionatissimo,
C.B.

**************

• LO STRANIERO

«Dimmi, enigmatico uomo, chi ami di più? tuo padre, tua madre, tua sorella o tuo fratello?

- Non ho né padre, né madre, né sorella, né fratello.
- I tuoi amici?
- Usate una parola il cui senso mi è rimasto fino ad oggi sconosciuto.
- La patria?
- Non so sotto quale latitudine si trovi.
- La bellezza?
- L'amerei volentieri, ma dea e immortale.
- L'oro?
- Lo odio come voi odiate Dio.
- Ma allora che cosa ami, meraviglioso straniero?
- Amo le nuvole... Le nuvole che passano... laggiù... Le meravigliose nuvole!»

**************

• LA DISPERAZIONE DELLA VECCHIA

La vecchietta rugosa si sentì riempire di gioia nel vedere quel bel bambino a cui tutti facevano le feste, a cui tutti volevano piacere; quell'essere grazioso, fragile come lei, e come lei senza denti e senza capelli.

E gli si avvicinò per fargli delle moine, per scherzare e farlo ridere.

Ma il bambino, spaventato, si dibatteva sotto le carezze di quella brava donna decrepita, e riempiva la casa di urla.

Allora la brava vecchia si ritirò nella sua eterna solitudine; e piangendo in un angolo diceva fra sé: «Ah, per noi vecchie femmine sventurate è passata l'età in cui piacere. Anche ai bambini innocenti che vorremmo amare, facciamo orrore!»

*********

• IL CONFITEOR DELL'ARTISTA

Come sono penetranti - penetranti fino al dolore! - le giornate d'autunno al tramonto! La delizia indefinita di certe sensazioni non esclude affatto l'intensità: e non c'è punta più acuminata di quella dell'infinito.

Gran delizia sprofondare il proprio sguardo nell'immensità del cielo e del mare! Solitudine, silenzio, incomparabile castità dell'azzurro! Una minuscola vela che rabbrividisce all'orizzonte, e con la sua piccolezza e il suo isolamento imita la mia esistenza irrimediabile, melodia monotona dell'onda: tutte queste cose pensano in me, o io penso in loro (perché nella grandezza del fantasticare il me si perde presto!). E pensano, come ho detto, ma musicalmente e pittorescamente, senza arguzie, né sillogismi, né deduzioni.

E tuttavia questi pensieri, sia che provengano da me o si sprigionino dalle cose, diventano ben presto troppo intensi. Nella voluttà l'energia crea un malessere, una vera e propria sofferenza. I miei nervi troppo tesi non danno che vibrazioni stridule e dolorose.

E ora la profondità del cielo mi costerna, la sua limpidezza mi esaspera. L'insensibilità del mare, l'immobilità di questo spettacolo, mi ripugna... Si deve eternamente soffrire, o fuggire eternamente il bello? O Natura, incantatrice spietata, rivale invincibile, lasciami! Smetti di tentare i miei desideri e il mio orgoglio! Lo studio della bellezza è un duello in cui l'artista grida di sgomento, prima di essere vinto.

**********

• UN TIPO AMENO

Esplodeva il nuovo anno: un caos di fango e di neve attraversato da mille carrozze, scintillante di giocattoli e di dolci, brulicante di cupidigia e di disperazione, la grande città nel suo delirio ufficiale, fatto apposta per sconvolgere il cervello anche al più renitente dei solitari.

In mezzo a quel frastuono, a quella baraonda, trottava ansiosamente un asino, aizzato da un buzzurro armato di frusta.

L'asino stava per voltare l'angolo, ed ecco che dal marciapiede un bel signore inguantato e tirato a lustro, fasciato dal suo vestito nuovo, con il collo nel cappio della cravatta, si inchinò cerimoniosamente davanti all'umile bestia e, togliendosi il cappello, gli disse: «Auguro a voi un felice anno nuovo!». Poi si girò verso certi suoi amici, perché aggiungessero il loro assenso alla sua soddisfazione.

L'asino non si accorse di quel tipo ameno, e continuò a correre con zelo dove il suo dovere lo chiamava.

Quanto a me, fui assalito immediatamente da una rabbia smisurata contro quell'emerito imbecille, nel quale mi sembrò che si concentrasse tutto lo spirito della Francia.

********

• LA CAMERA DOPPIA

Una stanza che sembra una rêverie, una stanza veramente spirituale, la cui atmosfera stagnante è leggermente tinta di rosa e di blu.

Qui l'anima si immerge in un bagno di pigrizia, aromatizzato dal rimpianto e dal desiderio. - Qualcosa di crepuscolare, di bluastro e di rossastro; un sogno di voluttà nel corso di un'eclisse.

I mobili hanno forme allungate, illanguidite, prostrate. Sembrano sognare. Li si direbbe dotati di una vita sonnambolica, come quella dei vegetali e dei minerali. Le stoffe parlano una lingua muta, come i fiori, come cieli e soli al tramonto.

Ai muri, nessuna infamia artistica. Di fronte al puro sogno, all'impressione non ancora analizzata, l'arte definita, l'arte effettiva è una bestemmia. Qui tutto ha la chiarezza sufficiente e la deliziosa oscurità dell'armonia.

Un sentore infinitesimale del genere più squisito, a cui si mescola una leggerissima umidità, galleggia in questa atmosfera in cui la mente assopita è cullata da calde sensazioni di serra.

La mussola piove abbondantemente davanti alle finestre e al letto; si spande in cascate nevose. Sul letto è sdraiata la sovrana dei miei sogni, il mio idolo. Come mai? Chi l'ha portata qui? Quale magico potere l'ha collocata su questo trono fantastico e voluttuoso? Ma che importa? Lei è qui, e io la riconosco.

Eccoli quegli occhi la cui fiamma trapassa il crepuscolo; quei sottili e terribili specchietti che riconosco dalla loro spaventosa malizia! Attirano, soggiogano, divorano lo sguardo dell'imprudente che li contempla. Le ho studiate a lungo queste stelle nere che costringono alla curiosità e all'ammirazione.

A quale dèmone benevolo sono debitore di trovarmi così circondato di mistero, di silenzio, di pace e di profumi? O beatitudine! Ciò che di solito chiamiamo vita, anche nella sua espansione più felice, non ha niente in comune con questa vita suprema di cui ora ho conoscenza e che assaporo minuto per minuto, secondo per secondo!

No, non ci sono più né minuti, né secondi! Il tempo è sparito. È l'Eternità che regna, un'eternità di delizie!

Ma un colpo terribile, pesante, è risuonato alla porta, e, come nei sogni infernali, mi è sembrato di ricevere un colpo di piccone allo stomaco.

Poi uno Spettro è entrato. È un usciere che viene a torturarmi in nome della legge; è un'infame concubina che viene a piangere miseria e ad aggiungere le trivialità della sua vita ai dolori della mia; o forse è il galoppino di un direttore di giornale, che viene a reclamare un altro pezzo del manoscritto.

La stanza di paradiso, l'idolo, la sovrana dei sogni, la Silfide, come diceva il grande René, tutta questa magia è sparita con il colpo brutale battuto dallo Spettro.

Ricordo bene! Che orrore! Sì, è mio questo tugurio dove è di casa l'eterna noia! Ecco i mobili: insulsi, polverosi, scheggiati. Il camino senza fiamma e senza brace, lordato di sputi; le tristi finestre su cui la pioggia ha lasciato scie polverose; i manoscritti cancellati o incompleti; il calendario su cui la matita ha segnato date sinistre.

E quel profumo d'un altro mondo, di cui mi inebriavo con perfezionata sensibilità, eccolo ahimè rimpiazzato da un odore disgustoso di tabacco, mescolato a qualcosa di ammuffito e di nauseante. Ora qui si respira il puzzo rancido della desolazione.

In questo mondo ristretto, ma così pieno di disgusto, un solo oggetto noto mi sorride: è la fiala del làudano, vecchia e terribile amica; come tutte le amiche, ahimè, prodiga di carezze e di tradimenti.

Sì, il Tempo è ricomparso! Il Tempo regna sovrano, ora. E con questo orribile vegliardo è tornato il suo seguito di Ricordi, di Rimpianti, di Spasimi, di Paure, Angosce, Incubi, Collere e Nevrosi.

Ora i secondi sono fortemente, solennemente scanditi, ve lo assicuro. E ognuno di loro, saltando fuori dalla pendola, dice: - «Io sono la Vita, l'insopportabile, l'implacabile Vita!».

C'è solo un Secondo nella vita umana che abbia la missione di annunciare una buona novella, la buona novella che provoca in tutti un'inspiegabile paura.

Sì, il Tempo regna! Ha ripreso la sua brutale dittatura. E mi spinge, come se fossi un bue, col suo doppio pungolo. «Forza, somaro! Sgobba, schiavo! Vivi, dannato!».

***********

• A CIASCUNO LA SUA CHIMERA

Sotto un gran cielo grigio, in una grande pianura polverosa, senza strade, senza erba, senza un cardo, senza un'ortica, incontrai degli uomini che camminavano curvi.

Ognuno portava sulla schiena un'enorme Chimera, pesante come un sacco di farina o di carbone, o come l'equipaggiamento di un fante romano.

Ma la bestia mostruosa non era un peso inerte; avviluppava l'uomo con i suoi muscoli elastici e possenti; si aggrappava con gli artigli delle larghe zampe al petto della sua cavalcatura; e la sua testa fantastica sormontava la fronte dell'uomo come uno di quegli orribili elmi con i quali gli antichi guerrieri speravano di incutere terrore al nemico.

Mi rivolsi ad uno di questi uomini, e gli chiesi dove andavano in quel modo. Mi rispose che non ne sapeva niente, né lui né gli altri, ma che evidentemente andavano da qualche parte, perché si sentivano spinti da un invincibile bisogno di camminare.

Cosa strana, nessuno di questi viaggiatori sembrava avercela contro la bestia feroce che teneva attaccata al collo, incollata alla schiena; si sarebbe detto che la considerasse una parte di sé. Tutti quei visi affaticati e seri non davano nessun segno di disperazione; sotto la cupola splenetica del cielo, i piedi affondati nella polvere di un suolo non meno desolato di quel cielo, camminavano con l'espressione rassegnata di chi è condannato a sperare sempre.

Il corteo mi passò a fianco e scomparve all'orizzonte, nella foschia, dove la superficie curva del pianeta si sottrae alla curiosità dello sguardo umano.

Ancora per qualche istante mi ostinai a voler capire questo mistero; ma ben presto l'irresistibile Indifferenza si abbatté su di me, e fui oppresso dal suo peso più di quanto fossero loro stessi da quelle schiaccianti Chimere.

***********

• IL MATTO E LA VENERE

Giornata meravigliosa! Il vasto parco si bea sotto lo sguardo ardente del sole, come la giovinezza sotto il dominio dell'Amore.

L'estasi universale delle cose non si esprime in nessun rumore. Anche le acque sono come addormentate. Quest'orgia silenziosa è ben diversa dalle feste umane.

Si direbbe che una luce crescente faccia scintillare sempre di più gli oggetti; che i fiori, eccitati, brucino dal desiderio di competere con l'azzurro del cielo nell'energia dei loro colori, e che il caldo, rendendo visibili i profumi, li faccia salire come vapore verso l'astro diurno.

Eppure, in questo godimento universale, ho scorto un essere afflitto.

Ai piedi di una Venere colossale, uno di quei pazzi artificiali, uno di quei buffoni volontari incaricati di far ridere i re quando i Rimorsi o la Noia li assillano, tutto agghindato nel suo costume sgargiante e ridicolo, con in testa corni e sonagli, curvo e inginocchiato contro il piedistallo, alza gli occhi pieni di lacrime verso la Dea immortale.

E i suoi occhi dicono: - «Sono il più solo, sono l'ultimo degli umani, privo di amore e di amicizia, e perciò molto più in basso del più imperfetto degli animali. Eppure anch'io sono fatto per comprendere e sentire la Bellezza immortale. Ah, Dea! Abbi pietà della mia tristezza e del mio delirio!».

Ma l'implacabile Venere guarda lontano non so che cosa con i suoi occhi di marmo.

***************

• IL CANE E IL PROFUMO

«Cane mio, cane mio bello, vieni qui, avvicinati e vieni a sentire questo eccellente profumo comprato dal miglior profumiere della città.»

E il cane, dimenando la coda, cosa che in queste umili creature corrisponde, credo, al nostro ridere o sorridere, si avvicina e posa con curiosità il suo naso umido sulla fiala aperta; ma poi, indietreggiando improvvisamente con disgusto, si mette ad abbaiarmi contro, come se mi volesse rimproverare.

« - Ah, miserabile cane!, se ti avessi offerto un pacchetto di escrementi, lo avresti annusato come una squisitezza, e forse lo avresti divorato. Anche tu, indegno compagno della mia triste vita, somigli al pubblico: a cui non si devono mai offrire delicati profumi che lo esasperano, ma solo lordure accuratamente scelte.»

*************

• IL CATTIVO VETRAIO

Ci sono nature puramente contemplative e del tutto inadatte all'azione, che, tuttavia, spinte da non si sa quale impulso misterioso, agiscono a volte con una rapidità di cui esse stesse mai si sarebbero credute capaci.

Come chi, per paura di trovare dal portinaio una brutta notizia, continua vigliaccamente a girare per un'ora intera davanti alla porta di casa propria senza trovare il coraggio di entrare; o come chi si tiene in tasca una lettera per quindici giorni senza aprirla, o che fa passare sei mesi prima di decidersi a intraprendere qualcosa che già da un anno aspettava una decisione: a volte costoro si sentono precipitare bruscamente verso l'azione da una forza irresistibile come la freccia scagliata da un arco. Il moralista e il medico, che pretendono di sapere tutto, non sono in grado di spiegare da dove viene così all'improvviso a queste anime pigre e voluttuose una così folle energia, e come può succedere che, incapaci di compiere le azioni più semplici e necessarie, si permettano in un particolare momento il lusso di un coraggio tale da far compiere loro gli atti più assurdi e spesso anche i più pericolosi.

Un mio amico, il più inoffensivo sognatore che si sia mai visto, una volta ha appiccato il fuoco a una foresta per vedere, disse, se le fiamme prendono davvero così facilmente come si dice. Per ben dieci volte l'esperimento fallì, ma l'undicesima riuscì fin troppo bene.

Un altro si metterà ad accendere il sigaro accanto a un barile di polvere da sparo, per vedere, per sapere, per tentare il destino, per costringersi a dare prova di energia, per giocare d'azzardo, per conoscere il piacere dell'ansia, per niente, per capriccio, per fare semplicemente qualcosa.

Si tratta di un tipo di energia che scaturisce dalla rêverie

e dalla noia; e coloro nei quali si manifesta così inopinatamente sono di solito, come ho detto, gli esseri più indolenti e sognatori.

Un altro, timido al punto da abbassare gli occhi di fronte a chiunque, e che deve fare appello a tutta la sua scarsa forza di volontà per entrare in un caffè o per passare davanti alla cassa di un teatro, perché i bigliettai gli fanno tutti l'impressione di maestosi Minosse, Eaco e Radamanto, ecco che costui potrà saltare all'improvviso al collo di un vecchio che gli passa accanto, per abbracciarlo con entusiasmo sotto gli occhi della folla sbalordita. Perché? Perché... quella fisionomia gli era irresistibilmente simpatica? Forse. Più giusto sarebbe però supporre che lui stesso ne ignori il perché.

Io sono stato più di una volta vittima di queste crisi e di questi slanci che ci autorizzano a credere che dei Demòni maliziosi si insinuino dentro di noi facendoci compiere a nostra insaputa le loro più assurde volontà.

Una mattina mi ero svegliato di cattivo umore, triste, stanco e annoiato, e portato, così mi sembrava, a compiere qualcosa di grande, un'azione clamorosa. E purtroppo aprii la finestra!

(Vi prego di osservare che lo spirito di mistificazione, che in alcune persone non è il risultato di un lavoro o di una circostanza, ma di un'ispirazione fortuita, partecipa molto, anche solo per l'ardore del desiderio, di quell'umore - isterico secondo i medici, satanico secondo coloro che ne sanno un po' più dei medici - che ci spinge a compiere senza opporre resistenza una serie di azioni pericolose o sconvenienti.)

La prima persona che scorsi nella strada fu un vetraio il cui grido acuto e stridente saliva fino a me nella greve e sudicia atmosfera parigina. D'altra parte, mi sarebbe impossibile spiegare perché fossi preso da un odio così repentino e dispotico nei confronti di quel poveretto.

« - Ehi! Ehi!», e gli gridai di salire. Intanto riflettevo, non senza allegria, che, essendo la stanza al sesto piano e la scala molto stretta, l'uomo avrebbe dovuto penare alquanto per compiere la sua ascesa e far passare senza danno in diverse strettoie gli spigoli della sua fragile mercanzia.

Finalmente comparve. Esaminai con curiosità tutti i suoi vetri e gli dissi: «Ma come? Non avete vetri colorati? Vetri rosa, rossi, blu, vetri magici, vetri di paradiso? Siete uno spudorato! Osate andarvene in giro per i quartieri poveri senza nemmeno avere dei vetri che facciano vedere più bella la vita!». E lo spinsi a forza verso la scala, dove inciampò borbottando.

Mi avvicinai al balcone, afferrai un piccolo vaso di fiori, e quando l'uomo ricomparve fuori del portone lasciai cadere perpendicolarmente il mio ordigno di guerra sul lato posteriore della sua rastrelliera; il colpo lo fece cadere all'indietro, ed egli finì di rompere, cadendoci sopra con la schiena, tutta la sua povera fortuna ambulante, che mandò il fragore di un palazzo di cristallo colpito dal fulmine.

E io, ebbro della mia follia, gli gridavo furiosamente dietro: «Più bella la vita! più bella la vita!».

Questi scherzi dei nervi non sono esenti da pericoli, e spesso li si può pagare cari. Ma che cosa importa l'eternità della dannazione a chi ha trovato nell'attimo l'infinito del godimento?

*************

• ALL'UNA DI NOTTE

Finalmente solo! Ormai si sentono soltanto le ruote di qualche carrozza attardata e sfinita. Per qualche ora avrò il silenzio, se non il riposo. Finalmente! La presenza tirannica della faccia umana è sparita, e soffrirò soltanto di me stesso.

Finalmente mi è dunque concesso di distendermi in un bagno di tenebre! Per prima cosa, una doppia mandata alla serratura. Questo giro di chiave aumenterà il senso della mia solitudine e fortificherà le barricate che attualmente mi separano dal mondo.

Vita orribile! Città orribile! Ricapitoliamo la giornata: visti diversi letterati, uno dei quali mi ha chiesto se era possibile raggiungere la Russia per via terra (evidentemente scambiava la Russia per un'isola); discusso, senza risparmio di argomenti, con il direttore di una rivista, che ad ogni obiezione rispondeva: «Il nostro è il partito dei galantuomini», il che implica che tutti gli altri giornali sono in mano a dei farabutti; salutate una ventina di persone, quindici delle quali mai viste; distribuite altrettante strette di mano, senza aver preso la precauzione di comprare dei guanti; durante un temporale, per ammazzare il tempo, salito da una ballerina che mi ha pregato di disegnarle un costume da Venerea; corteggiato un direttore di teatro che si è congedato dicendomi: «Forse farete bene a rivolgervi a Z...: è il più stupido, volgare e famoso di tutti i miei autori; forse con lui approderete a qualcosa. Vedete lui, e poi ci rivedremo»; vantato (perché?) di diverse cattive azioni mai commesse, e vigliaccamente negati alcuni altri misfatti compiuti con gioia-delitto di spacconeria, crimine di rispetto umano; rifiutato a un amico un favore poco impegnativo, e fatta una raccomandazione scritta a un perfetto mascalzone; uff! non c'è proprio altro?

Scontento di tutti e di me stesso, vorrei proprio riscattarmi e inorgoglirmi un po' nel silenzio e nella solitudine della notte. Anime di coloro che ho amato, anime di chi ho cantato, datemi forza, sostenetemi, tenete lontana da me la menzogna e la corruzione che esalano dal mondo; e voi, mio Signore Iddio, accordatemi la grazia di produrre qualche bel verso che provi a me stesso che non sono l'ultimo degli uomini, che non sono più in basso di coloro che disprezzo.

*****************

• LA SELVAGGIA E LA PREZIOSA

«Mia cara, mi state davvero smisuratamente e spietatamente annoiando; a sentire i vostri sospiri si direbbe che voi soffriate più delle spigolatrici di sessantenni e delle vecchie mendicanti che vanno a raccattare le croste di pane davanti alle bettole.

«Se i vostri sospiri esprimessero almeno dei rimorsi, vi farebbero qualche onore; invece, non traducono che la sazietà del benessere e la fatica del riposo. E poi non la finite più di diffondervi in vane parole: "Amatemi tanto! ne ho così bisogno! Consolatemi qui, accarezzatemi là!" Ecco, voglio proprio provare a guarirvi. Forse troveremo il modo: con poca spesa, mescolandoci alla folla in festa, e senza andare troppo lontano.

«Prendete, vi prego, attentamente in considerazione quella robusta gabbia di ferro, dentro la quale si dibatte, urlando disperatamente, scuotendo le sbarre come un orango esasperato dal suo esilio, imitando alla perfezione ora la tigre che si rigira pronta a balzare, ora lo stupido dondolarsi dell'orso bianco, quel mostro peloso la cui forma imita alquanto vagamente la vostra.

«Questo mostro è uno di quegli animali che di solito vengono chiamati: "angelo mio!". È cioè una donna. L'altro mostro, quello che grida a squarciagola con un bastone in mano, è un marito. Ha incatenato come una bestia la sua legittima sposa, e la mette in mostra nei mercati di periferia, nei giorni di fiera, naturalmente con tanto di autorizzazione ufficiale.

«Fate bene attenzione. Guardate con che voracità (forse non simulata!) sbrana i conigli vivi e i pigolanti pennuti che le getta il suo guardiano. "Insomma", le dice, "non bisogna mangiare in un solo giorno tutto quello che si ha!". E dopo queste sagge parole, le strappa crudelmente la preda, le cui interiora rovesciate restano ancora attaccate ai denti della bestia feroce, della donna, voglio dire.

«Su! Una bella bastonata per calmarla un po', dal momento che manda terribili occhiate di ingordigia sul cibo che le è stato portato via. Buon Dio! il bastone non è un bastone da commedia! Non li avete sentiti come risuonano i colpi sulla carne nonostante quel pelame posticcio? E così ora gli occhi le escono dalle orbite, e urla con maggiore naturalezza. Manda faville da tutte le parti, per la rabbia, come il ferro quando viene battuto.

«Tali sono i costumi coniugali di questi due discendenti di Adamo ed Eva, queste due opere, Dio mio, delle vostre mani! La donna è indubbiamente un'infelice, anche se dopotutto forse non ignora le stuzzicanti gioie della gloria. Ci sono disgrazie più irrimediabili, e senza compenso. Ma nel mondo nel quale è stata gettata, lei non ha mai potuto credere che la donna meritasse un destino diverso.

«E ora a noi due, mia cara preziosa! Considerando gli inferni di cui il mondo è popolato, che cosa volete che pensi del vostro grazioso inferno, e di voi che riposate soltanto su stoffe morbide come la vostra pelle, che mangiate solo carne cotta, tagliata a pezzettini da un abile e solerte domestico?

«E che senso possono avere, per me, tutti i delicati sospiri che gonfiano il vostro petto profumato, mia vezzosa ben nutrita? E tutte queste smancerie, questa instancabile malinconia fatta per ispirare allo spettatore tutt'altro sentimento che la pietà? Vi confesso che a volte mi viene voglia di insegnarvi che cos'è la vera infelicità.

«Quando vi vedo così, mia bella delicata, con i piedi nel fango e gli occhi che svaporano rivolti al cielo come per chiedergli di mandarvi un re, somigliate davvero a una ranocchietta che invoca l'ideale. Se disprezzate il travicello (che ora sono io, come ben sapete), attenta alla gru che vi sgranocchierà, vi ingoierà e vi ammazzerà a piacer suo!

«Per quanto poeta io sia, non sono tanto ebete come vorreste credere. E se mi stuferete troppo coi vostri preziosi piagnistei, vi tratterò da selvaggia, o vi butterò dalla finestra come una bottiglia vuota.»

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• LE FOLLE

Non a tutti è concesso di prendere un bagno di moltitudine: godere della folla è un'arte; e può concedersi un'orgia di vitalità a spese del genere umano soltanto colui al quale una fata ha instillato fin dalla culla il gusto del travestimento e della maschera, l'odio del domicilio e la passione del viaggio.

Moltitudine, solitudine: termini equivalenti e convertibili per il poeta attivo e fecondo. Chi non sa popolare la sua solitudine, non sa neppure restare solo in mezzo a una folla indaffarata.

Il poeta gode di questo incomparabile privilegio: che può essere, a suo piacere, se stesso e un altro. Come quelle anime erranti che cercano un corpo, egli sa entrare, quando vuole, in qualunque personaggio. Solo per lui tutto è vacante. E se certi luoghi sembrano essergli preclusi, è che ai suoi occhi non valgono la pena di essere visitati.

Il passeggiatore solitario e pensoso ricava un'ebbrezza singolare da questa universale comunione. Colui che facilmente si sposa alla folla, conosce le gioie febbrili di cui resteranno eternamente privati sia l'egoista, chiuso come un forziere, sia il pigro, rintanato come un mollusco. Lui sa fare proprie tutte le professioni, tutte le gioie e tutte le miserie che le circostanze gli offrono.

Ciò che gli uomini chiamano amore è ben poca cosa, ben limitata e ben debole, paragonata a questa ineffabile orgia, a questa santa prostituzione dell'anima che si dà tutta intera, poesia e carità, all'imprevisto che si mostra, all'ignoto che passa.

Non foss'altro che per umiliare una volta tanto il loro stupido orgoglio, è bene insegnare ai felici di questo mondo che ci sono felicità superiori alle loro, più vaste e più raffinate. Fondatori di colonie, pastori dei popoli, missionari esiliati in capo al mondo, conoscono senza dubbio qualcosa di queste misteriose ebbrezze; e in seno alla grande famiglia che il loro genio si è formata, a volte forse ridono di tutti coloro che li compiangono per la loro sorte così agitata e per la loro vita così casta.

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• LE VEDOVE

Vauvenargues dice che nei giardini pubblici ci sono viali frequentati soprattutto dall'ambizione delusa, dagli inventori disgraziati, dalle glorie abortite, dai cuori infranti, da tutte quelle anime tumultuose e chiuse nelle quali risuonano ancora gli ultimi sospiri d'un uragano, e che indietreggiano per allontanarsi dallo sguardo insolente dei felici e degli oziosi. Questi ombrosi ritiri sono il luogo di appuntamento dei sinistrati della vita.

È soprattutto verso questi luoghi che il poeta e il filosofo amano dirigere le loro avide congetture. Là trovano un sicuro nutrimento. Perché se c'è qualcosa che non si degnano di frequentare, è soprattutto, come ho suggerito poco fa, la gioia dei ricchi. Questa chiassosa vuotaggine non ha nulla che li attiri. Al contrario, essi si sentono irresistibilmente trascinati verso tutto ciò che è debole, in rovina, contristato, orfano.

Un occhio esercitato non si sbaglia mai in proposito. In quei visi contratti e abbattuti, in quegli occhi infossati e spenti, o accesi dagli ultimi lampi della lotta, in quelle rughe fitte e profonde, in quelle andature così lente o così sgraziate, può decifrare immediatamente le innumerevoli leggende dell'amore ingannato, della dedizione ignorata, degli sforzi non ripagati, della fame e del freddo umilmente, silenziosamente sopportati.

Vi siete mai accorti delle vedove sedute su quelle solitarie panchine? Delle vedove povere? Che portino o no il lutto, è facile riconoscerle. Del resto, nel lutto del povero c'è sempre qualcosa che manca, un'assenza d'armonia che lo rende più straziante. È costretto a lesinare sul proprio dolore. Il ricco, invece, il suo se lo porta al gran completo.

Qual è la vedova più triste e più rattristante: quella che si trascina per mano un bambino con cui non può condividere le sue fantasticherie, o quella assolutamente sola? Mi è capitato una volta di seguire per ore una di queste vecchie afflitte: rigida, diritta, con uno scialle liso, c'era in tutta la sua persona una stoica fierezza.

La sua assoluta solitudine evidentemente la condannava ad abitudini da vecchio scapolo; e questo carattere maschile dei suoi costumi aggiungeva qualcosa di provocante e di misterioso alla loro austerità. Non so in quale miserabile caffè e in che modo pranzasse. La seguii in una sala di lettura; la spiai a lungo mentre con occhi attenti, che le lacrime un tempo avevano bruciato, cercava sfogliando i giornali notizie capaci di suscitarle un interesse violentemente personale.

Infine, nel pomeriggio, sotto un cielo incantevole d'autunno, un cielo da cui scendeva una folla di rimpianti e di ricordi, si sedette in un giardino pubblico, in disparte, per ascoltare lontana dalla folla uno di quei concerti con cui le bande militari rallegrano il popolo parigino.

Doveva essere proprio quello il piccolo piacere vizioso dell'innocente vecchia (di quella vecchia purificata); la meritata consolazione di una di quelle soffocanti giornate senza amici, senza conversazione, senza gioia, senza confidenze, che Dio lasciava cadere su di lei trecentosessantacinque volte l'anno, forse già da molti anni.

Un'altra ancora:

Non so impedirmi di gettare uno sguardo almeno curioso, se non di universale simpatia, sulla folla dei paria che si accalcano intorno al recinto di un pubblico concerto. L'orchestra lancia nella notte i suoi canti festivi, trionfali o voluttuosi; le vesti femminili sontuosamente strusciano; si incrociano gli sguardi; gli oziosi, stanchi del non far niente, ciondolano fingendo di gustare indolentemente la musica. Niente che non sia ricco, felice; niente che non respiri e non ispiri spensieratezza e piacere di lasciarsi vivere; niente, tranne l'aspetto di questa turba che laggiù si appoggia allo steccato esterno afferrando gratis, secondo il capriccio del vento, un brandello di musica, e guardando la scintillante fornace che si intravede all'interno.

Questo riflettersi della gioia del ricco in fondo all'occhio del povero, è sempre interessante. Ma quel giorno, in mezzo a quel popolo in grembiule e in blusa di cotone, ho notato una creatura la cui nobiltà contrastava violentemente con la trivialità circostante.

Era una donna alta e maestosa, così nobile in tutto il suo portamento che non ricordo di aver visto niente di simile nei quadri che ci ricordano le aristocratiche bellezze del passato. Un aroma di altera virtù emanava da tutta la sua persona. Il suo viso triste e smagrito era in perfetto accordo con il lutto dei suoi vestiti. Come la plebe a cui si era mescolata e della quale non si curava, anche lei rivolgeva uno sguardo assorto a quel mondo luminoso e ascoltava la musica dondolando appena la testa.

Singolare visione! «Questa povertà», mi dissi, «se di povertà si tratta, non scende certo a patti con il sordido economizzare; quel nobile volto me ne dà la certezza. Perché mai, allora, se ne resta volontariamente fra persone dalle quali si distingue in modo così sorprendente?»

Ma passandole accanto con curiosità ebbi l'impressione di indovinarne il motivo. Quella superba vedova teneva per mano un bambino, come lei vestito di nero; per quanto modico fosse il prezzo del biglietto, sarebbe stato probabilmente sufficiente a pagare qualcosa di necessario per il bambino, o, meglio ancora, qualcosa di superfluo, per esempio un giocattolo.

E sarà rientrata a casa a piedi, meditando e sognando, sola, sempre sola; perché un bambino è turbolento ed egoista, non ha dolcezza né pazienza; e neppure può fare, come il puro animale, come il cane e come il gatto, da confidente ai dolori solitari.

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• IL VECCHIO SALTIMBANCO

Dappertutto si spandeva il popolo in vacanza. Si metteva in mostra, se la godeva. Era una di quelle festività sulle quali da sempre fanno conto i saltimbanchi, i giocolieri, gli ammaestratori di animali e i venditori ambulanti per compensare i periodi magri dell'anno.

In quei giorni ho l'impressione che il popolo si dimentichi di tutto, sia del dolore sia del lavoro, e che diventi come un bambino. Per i più piccoli è un giorno di vacanza, è l'orrore della scuola che viene rimandato di ventiquattr'ore. Per i grandi è un armistizio concluso con le potenze malefiche della vita, una tregua nella contesa e nella lotta universali.

Neppure l'uomo di mondo e l'uomo occupato in lavori spirituali sfuggono facilmente all'influenza di questo giubileo popolare. Assorbono senza volerlo la loro parte di atmosfera spensierata. Quanto a me, io non manco mai, da vero parigino, di passare in rassegna tutte le bancarelle che vantano le loro offerte in queste ricorrenze festive.

La concorrenza che si facevano era davvero formidabile: strillavano, muggivano. Era un miscuglio di grida, un fragore di ottoni, un'esplosione di razzi. Maschere e buffoni storcevano le facce cotte dal sole, raggrinzite dalla pioggia e dal vento; con l'imperturbabile aplomb di attori sicuri del loro effetto, lanciavano le loro battute e le loro beffe, robuste e grevi come la comicità di Molière. Gli Ercoli, fieri dell'enormità delle loro membra, il cranio senza fronte come scimmioni, si esibivano in pose statuarie dentro le loro maglie lavate la sera prima per l'occasione. Le danzatrici, belle come fate, come principesse, facevano salti e capriole alla luce fiammeggiante dei fanali che riempivano di scintille le loro vesti.

Tutto era luce, polvere, grida, gioia, tumulto; gli uni spendevano, gli altri guadagnavano, gli uni e gli altri ugualmente felici. I bambini si attaccavano alle gonne materne per avere qualche bastoncino di zucchero filato, o salivano sulle spalle dei loro padri per vedere meglio un giocoliere risplendente come un Dio. E dovunque, dominante su tutti i profumi, circolava un odore di frittura, che era come l'incenso particolare di quella festa.

In fondo, all'estremità della fila di bancarelle, come se per vergogna si fosse esiliato da tutti questi splendori, vidi un povero saltimbanco, curvo, cadente, decrepito, un rudere d'uomo, addossato a uno dei pali della sua baracca: una baracca più miserabile di quella del selvaggio più abbrutito, e la cui miseria era fin troppo illuminata da due mozziconi di candela sgocciolanti e fumosi.

Dovunque gioia, guadagno, sfrenatezza; dovunque, la certezza del pane per l'indomani; dovunque, un'esplosione frenetica di vitalità. Qui, la miseria assoluta, la miseria (per colmo d'orrore) agghindata di comici stracci, contrasto inventato dalla necessità più che dall'arte. Non rideva, il disgraziato! Non piangeva, non ballava, non gesticolava, non gridava; non cantava nessuna canzone, né allegra né triste, non implorava. Era muto e immobile. Aveva rinunciato, abdicato. Il suo destino era compiuto.

Ma che sguardo profondo, indimenticabile mandava in giro sulla folla e le luci, su quel flusso che si fermava solo a qualche passo dalla sua repulsiva miseria! Mi sentii la gola afferrata dalla stretta terribile dell'isteria, e mi sembrò che i miei sguardi fossero offuscati da quelle lacrime ribelli che non vogliono scorrere. Che fare? A che scopo chiedere allo sventurato quale curiosità, quale meraviglia avesse da mostrare in quelle tenebre maleodoranti, dietro la sua tenda sbrindellata? In verità, non osavo chiedere; e anche se la ragione della mia timidezza dovesse farvi ridere, devo confessare che temevo di umiliarlo. Alla fine, m'ero appena deciso a posare, passando, un paio di monete su una delle sue tavole sperando che indovinasse la mia intenzione, quando un gran flusso di folla provocato da non so quale scompiglio mi trascinò lontano da lui.

E mentre rientravo, ossessionato da questa visione, tentai di analizzare il mio improvviso dolore, e mi dissi: Ho appena visto l'immagine del vecchio uomo di lettere sopravvissuto alla generazione di cui fu il brillante animatore; del vecchio poeta senza amici, senza famiglia, senza figli, degradato dalla povertà e dall'ingratitudine pubblica, e nella cui baracca la gente immemore non vuole più entrare.

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• LA TORTA

Ero in viaggio. Il paesaggio in mezzo a cui mi trovavo era di una grandiosità e nobiltà irresistibili. Senza dubbio in quel momento qualcosa di esso passò nel mio animo. I miei pensieri volteggiavano con una leggerezza pari a quella dell'atmosfera; le passioni volgari, come l'odio e l'amore profano, mi apparivano ora tanto lontane quanto le nuvole che filavano via in fondo agli abissi sotto i miei piedi; la mia anima mi sembrava vasta e pura come la volta del cielo da cui ero avvolto; il ricordo delle cose terrestri non arrivava al mio cuore, indebolito e affievolito, come il suono della campanella delle greggi che invisibili passavano lontano, molto lontano, sul versante di un'altra montagna. Sul laghetto immobile, nero per l'immensa profondità, passava a volte l'ombra di una nuvola, come il riflesso del mantello di un gigante in volo nel cielo. E ricordo che questa sensazione solenne e rara, causata da un grande movimento perfettamente silenzioso, mi riempiva di una gioia mista di paura. Mi sentivo insomma, grazie all'entusiasmante bellezza da cui ero circondato, in perfetta pace con me stesso e con l'universo; e credo che nella mia perfetta beatitudine e nel mio totale oblio di ogni male terrestre sarei arrivato a non trovare neppure così ridicoli i giornali che si ostinano a ritenere che l'uomo è naturalmente buono; - ma ecco che l'inguaribile materia fece di nuovo sentire le sue esigenze, e io mi preoccupai di dare sollievo alla fatica e di rimediare all'appetito causati da una così lunga ascensione. Tirai fuori dalla tasca un grosso pezzo di pane, un bicchiere e una boccetta con un certo elisir che allora i farmacisti vendevano ai viaggiatori per mescolarlo, nel caso, con l'acqua di neve.

Tagliavo tranquillamente il mio pane, quando un rumore lievissimo mi fece alzare gli occhi. Davanti a me stava un piccolo essere arruffato, stracciato e nero, i cui occhi infossati, selvaggi e come imploranti divoravano il mio pezzo di pane. Lo sentii sospirare, con una voce bassa e roca, la parola: torta! Non potei impedirmi di ridere sentendo l'appellativo con cui voleva onorare il mio pane quasi del tutto privo di condimenti, e ne tagliai una bella fetta per offrirgliela. Lentamente si avvicinò, senza abbandonare con gli occhi l'oggetto della sua bramosia; poi, afferrando con la mano il pezzo di pane, subito si fece indietro frettolosamente, come se temesse che la mia offerta non fosse sincera, o che già me ne fossi pentito.

Ma in quello stesso istante fu travolto da un altro piccolo selvaggio, uscito da chissà dove, e così perfettamente simile al primo che si sarebbe potuto prenderlo per il suo gemello. Rotolarono insieme a terra, disputandosi la preziosa preda, nessuno dei due volendo in nessun modo sacrificarne la metà per il proprio fratello. Il primo, esasperato, afferrò il secondo per i capelli; quest'ultimo gli addentò l'orecchio e ne sputò un brandello sanguinante imprecando in dialetto. Il legittimo proprietario della «torta» cercò di affondare i suoi piccoli artigli negli occhi dell'usurpatore; questo a sua volta applicò tutte le sue forze nel tentativo di strangolare il suo avversario con una mano, mentre con l'altra cercava di far scivolare nella propria tasca il premio della lotta. Rianimato dalla disperazione, il vinto si raddrizzò e fece ruzzolare a terra il vincitore con una testata allo stomaco. A che scopo descrivere una lotta vergognosa che in verità durò più a lungo di quanto le loro energie infantili sembravano mettere? La «torta» viaggiava da una mano all'altra, e cambiava tasca ad ogni istante; ma, ahimè, cambiava anche il suo volume e quando alla fine, estenuati, ansanti, insanguinati, si fermarono per l'impossibilità di continuare, non restava più, a dire il vero, nessun oggetto di contesa; il pezzo di pane era scomparso, ed era sparpagliato in tante briciole del tutto indistinguibili dai granelli di sabbia a cui si mescolavano.

Questo spettacolo mi aveva annebbiato la vista del paesaggio, e la calma gioiosa nella quale la mia anima si beava prima di aver visto in azione questi piccoli uomini, era ormai totalmente scomparsa; me ne rimase a lungo una notevole tristezza, e continuavo a ripetermi: «Esiste dunque un meraviglioso paese nel quale il pane si chiama "torta", ed è una ghiottoneria tanto rara che basta a far nascere una guerra perfettamente fratricida!».

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• L'OROLOGIO

I Cinesi leggono l'ora nell'occhio dei gatti.

Un giorno un missionario, passeggiando nei sobborghi di Nanchino, si accorse di aver dimenticato l'orologio e chiese a un ragazzino che ora fosse.

Il monello del celeste impero dapprima esitò; poi ci ripensò e rispose: «Ve lo dico subito». Qualche istante più tardi ricomparve tenendo in braccio un bel gattone e, guardandolo, come si dice, nel bianco degli occhi, affermò senza esitare: «Manca poco a mezzogiorno». Il che era assolutamente vero.

Quanto a me, se mi chino sulla bella Felina che ben merita un tal nome, pur essendo, nello stesso tempo, l'onore del suo sesso, l'orgoglio del mio cuore e l'aroma del mio spirito - allora, sia giorno oppure notte, in piena luce o nell'ombra opaca, io leggo distintamente nei suoi occhi adorabili sempre la stessa ora, un'ora grande, vasta e solenne come lo spazio, non divisa in minuti né in secondi, un'ora immobile che gli orologi non segnano, e che tuttavia è leggera come un sospiro, veloce come uno sguardo.

E se qualche importuno venisse a disturbarmi mentre i miei occhi riposano su questo delizioso quadrante, se qualche Genio intollerante e villano, se qualche Demonio intempestivo venisse a dirmi: «Che cosa stai fissando là con tanta attenzione? Che cosa cerchi negli occhi di questa creatura? Stai forse guardando che ora è, o mortale prodigo e infingardo?». Allora io risponderei senza esitare: «Sì, sto guardando che ora è: ed è l'Eternità!».

Non vi pare, signora, che questo sia un madrigale davvero meritorio, e per di più enfatico proprio come voi? In verità, ho ricamato con un tale piacere questa pretenziosa galanteria, che in cambio non vi chiederò nulla.

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• L'EMISFERO DEI TUOI CAPELLI

Lasciami respirare a lungo, ancora e ancora, l'odore dei tuoi capelli, lascia che io vi immerga il viso come fa l'assetato nell'acqua della sorgente, e che li scuota con la mia mano come un fazzoletto odoroso per farne uscire i ricordi nell'aria.

Se tu potessi sapere tutto quello che vedo, tutto quello che sento, tutto quello che scopro nei tuoi capelli! La mia anima viaggia seguendo un profumo, come l'anima di altri viaggia seguendo una musica.

Nei tuoi capelli c'è un intero sogno, pieno di vele e alberature; mari aperti i cui monsoni mi portano verso climi incantati, dove lo spazio è più azzurro e profondo, dove l'aria ha il profumo dei frutti, delle foglie e della pelle umana.

Nell'oceano dei tuoi capelli vedo un porto brulicante di canzoni tristi, di uomini vigorosi dei più diversi paesi, e navi d'ogni forma, le cui intricate, delicate architetture si stagliano nel cielo immenso, invaso da un'immobile calura.

Se carezzo i tuoi capelli, ritrovo il languore delle ore passate su un divano, nella cabina di una bella nave, cullato dal dolce rollio del porto, tra vasi di fiori e terrine rinfrescanti.

Nella brace dei tuoi capelli, respiro l'odore di tabacco mescolato all'oppio e allo zucchero; nel buio dei tuoi capelli vedo splendere l'infinito dell'azzurro tropicale; sulle rive muscose dei tuoi capelli mi inebrio degli odori mescolati del catrame, del muschio e dell'olio di cocco.

Lasciami mordere ancora le tue trecce pesanti e nere. Quando prendo a piccoli morsi i tuoi capelli elastici e ribelli, mi sembra di mangiare ricordi.

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• INVITO AL VIAGGIO

Esiste, dicono, un paese magnifico, un paese di Cuccagna, che io sogno di visitare con una mia vecchia amica. Paese singolare, sprofondato nelle brume del nostro Nord, e che potremmo chiamare l'Oriente dell'Occidente, la Cina dell'Europa, tanto vi si è sbrigliata la calda e capricciosa fantasia, tanto ha saputo illustrarlo, pazientemente, ostinatamente, con le sue sapienti e delicate vegetazioni.

Un vero paese di Cuccagna, dove tutto è bello, ricco, tranquillo, onesto; dove il lusso si compiace di specchiarsi nell'ordine; dove la vita si respira come un odore dolce e grasso; dove il disordine, la turbolenza e l'imprevisto sono banditi; dove la felicità si sposa al silenzio; dove perfino la cucina è poetica, eccitante e grassa al tempo stesso; dove tutto vi somiglia, angelo mio.

Conosci quella febbre malsana che ci assale nel freddo della miseria?, quella nostalgia di un paese mai visto, quell'angoscia della curiosità? C'è una contrada che ti somiglia, dove tutto è bello, ricco, tranquillo e onesto; dove la fantasia ha costruito e decorato una Cina occidentale; dove è dolce respirare la vita; dove la felicità si sposa al silenzio. Là bisogna andare a vivere, a morire!

Sì, è là che bisogna andare a respirare, a sognare e prolungare le ore nell'infinito delle sensazioni. Un musicista ha scritto l'Invito al valzer. Chi comporrà l'Invito al viaggio da offrire alla donna amata, alla sorella elettiva?

Sì, sarebbe bello vivere in quell'atmosfera - laggiù, dove le ore sono più lente e contengono più pensieri, dove gli orologi scandiscono la felicità in un ritmo più solenne, significativo e profondo.

Sui lucidi pannelli, sul cuoio dorato, ricco e cupo, vivono con discrezione pitture beate, calme e profonde come le anime degli artisti che le crearono. Il sole, che nei tramonti versa un così ricco colore nella sala da pranzo o nel salone, filtra dalle belle stoffe e dalle alte finestre con i vetri divisi e piombati in tanti riquadri. I mobili sono vasti, bizzarri e armati di serrature segrete come anime raffinate.

Gli specchi, i metalli, le stoffe, l'oreficeria e la ceramica eseguono per gli occhi una sinfonia misteriosa e muta; da ogni cosa, da ogni angolo, dalle fessure dei cassetti e dalle pieghe delle stoffe esala un singolare profumo, un profumo di Sumatra che è come l'anima dell'appartamento.

Un vero paese di Cuccagna: dove tutto è ricco, lindo e lucente come una coscienza pulita, come una magnifica batteria di cucina, come una splendida oreficeria, come una vetrina di gioielli rutilanti! Là affluiscono i tesori del mondo come nella casa di un uomo laborioso che ha ben meritato dal mondo intero. Paese singolare: superiore agli altri come l'arte è superiore alla natura, e dove quest'ultima è migliorata dal sogno, corretta, abbellita, rimodellata.

Cerchino, cerchino pure, questi alchimisti dell'agricoltura, spingano indietro e allarghino i confini della loro felicità! Promettano pure premi di sessanta, di centomila fiorini a chi risolverà i problemi della loro ambizione! Io, il mio tulipano nero, la mia dalia azzurra, li ho già trovati!

Fiore incomparabile, tulipano ritrovato, allegorica dalia, è in quel paese, non è vero?, è nel bel paese calmo e sognante che si dovrebbe andare a vivere e a fiorire? Tu saresti incorniciata nella tua analogia, e potresti specchiarti, per dirla con i mistici, nella tua propria corrispondenza...

Sogni, sempre sogni! E più l'anima è ambiziosa e delicata, più i sogni la allontanano dal possibile. Ogni uomo porta in sé la sua dose di oppio naturale, incessantemente versata e rinnovata: e dalla nascita alla morte quante ore di gioia effettiva, di azione decisa e riuscita possiamo contare? Vivremo mai, entreremo mai in questo bel quadro dipinto dalla mia immaginazione, in questo quadro che ti somiglia?

Quei tesori, quei mobili, quel lusso, quell'ordine, quei profumi, quei fiori miracolosi, sono te. Quei grandi fiumi, quei canali tranquilli: sempre tu. Quei bastimenti enormi e carichi, stipati di ricchezze, e da cui si leva la monotonia dei canti di manovra, sono i miei pensieri che dormono, che scorrono sul tuo seno. Tu li conduci dolcemente verso il mare dell'Infinito, mentre riflettono le profondità del cielo nella tua limpida e bella anima; - e quando, stanchi dell'onda e sazi dei prodotti dell'Oriente, rientrano nel porto natale, sono ancora i miei pensieri, più ricchi, che dall'infinito tornano a te.

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• IL GIOCATTOLO DEL POVERO

Voglio dare l'idea di un divertimento innocente. Sono così rari gli svaghi non colpevoli!

Se una mattina uscirete con la precisa intenzione di andarvene a vagabondare per le strade principali, riempitevi le tasche di piccole trovate da pochi soldi - come il pulcinella di legno sagomato, mosso da un filo, o i fabbri che battono l'incudine, o il cavaliere sul suo cavallo con la coda a fischietto, - e passando davanti ai cabaret, sotto gli alberi del viale, fatene dono agli sconosciuti bambini poveri che incontrate. Vedrete i loro occhi spalancarsi a dismisura. Dapprima non oseranno accettare; non crederanno alla loro fortuna. Poi le loro mani si impadroniranno freneticamente del regalo, e fuggiranno come gatti che vanno a mangiarsi il loro boccone lontano da chi glielo ha dato, avendo imparato a diffidare dell'uomo.

In una strada, dietro l'inferriata di un ampio giardino in fondo al quale appariva il biancore di un grazioso castello investito dal sole, se ne stava un bambino bello e pulito, in abiti campagnoli pieni di civetteria.

Il lusso, la spensieratezza e lo spettacolo abituale della ricchezza rendono questi bambini così graziosi da sembrare fatti di una pasta diversa da quella dei bambini che vengono dalla mediocrità e dalla povertà.

Accanto a lui giaceva uno splendido giocattolo, lustro e colorito come il suo possessore, verniciato e dorato, con un vestitino purpureo, coperto di piume e di lustrini. Il bambino, però, non si curava del suo giocattolo preferito, ed ecco che cosa guardava:

Dall'altra parte dell'inferriata, sulla strada, in mezzo ai cardi e alle ortiche, c'era un altro bambino, sporco, gracile, fuligginoso, uno di quei marmocchi-paria di cui un occhio imparziale scoprirebbe la bellezza, se sapesse ripulirli dalla ripugnante patina della miseria: come l'occhio del conoscitore che indovina il dipinto ideale sotto una verniciatura da carrozziere.

Attraverso quelle sbarre simboliche che separano due mondi, la strada e il castello, il bambino povero mostrava al bambino ricco il proprio giocattolo, che quest'ultimo esaminava avidamente come un oggetto raro e sconosciuto. E questo giocattolo, che il piccolo straccione tormentava, agitava e scuoteva in una gabbietta, era un topo vivo! I genitori, senza dubbio per risparmiare, avevano preso quel giocattolo dalla vita stessa.

E i due bambini ridevano fraternamente tra loro, mostrando denti di un uguale biancore.

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• I DONI DELLE FATE

Si teneva un'adunanza plenaria di Fate, per procedere alla distribuzione dei doni fra tutti i nuovi-nati arrivati nella vita nelle ultime ventiquattr'ore.

Tutte queste antiche e capricciose Sorelle del Destino, tutte queste Madri bizzarre della gioia e del dolore, erano diversissime fra loro: alcune avevano un'aria cupa e arcigna, altre maliziosa e beffarda; alcune, giovani, erano sempre state giovani; e altre, vecchie, erano sempre state vecchie.

Tutti i padri che credono nelle Fate erano accorsi, ognuno col suo neonato in braccio.

I Doni, le Facoltà, i Casi propizi, le Circostanze invincibili, tutto era ammucchiato accanto alla tribuna, come i premi sul palco di una premiazione. In questo caso c'era di particolare che i Doni non erano la ricompensa di uno sforzo, ma viceversa una grazia accordata a chi non aveva ancora vissuto la sua vita, una grazia capace di determinare il suo destino e di diventare la fonte tanto della sua sventura che della sua fortuna.

Le povere Fate erano molto indaffarate; infatti la folla degli aspiranti era grande, e il mondo intermedio fra l'uomo e Dio è sottoposto, come noi, alla terribile legge del Tempo e alla sua innumerevole progenie: Giorni, Ore, Minuti e Secondi. Erano davvero frastornate come ministri in un giorno di udienza, o come impiegati del Monte di Pietà quando una festa nazionale autorizza i disimpegni gratuiti. Credo anzi che di tanto in tanto sbirciassero la lancetta dell'orologio con la stessa impazienza con cui i giudici di quaggiù, riuniti in seduta fin dal mattino, non possono impedirsi di pensare al pranzo, alla famiglia e alle loro care pantofole. Se nella giustizia soprannaturale c'è un po' di precipitazione e di casualità, non dobbiamo meravigliarci che ce ne sia anche, talvolta, nella giustizia umana. Anche noi, in casi del genere, saremmo dei giudici ingiusti.

Così quel giorno furono presi alcuni abbagli che si potrebbero considerare bizzarri se fosse la prudenza, e non invece il capriccio, il carattere distintivo, immutabile delle Fate.

Così avvenne che il potere di attirare magneticamente la fortuna fu aggiudicato all'unico erede di una famiglia ricchissima, il quale, essendo sprovvisto di ogni spirito di carità e insieme di ogni brama per i beni più visibili della vita, si sarebbe trovato in seguito straordinariamente ingombrato dai suoi milioni.

Così, l'amore del Bello e la Potenza poetica furono dati al figlio di un tetro straccione, di mestiere cavapietre, che non avrebbe potuto in nessun modo favorire le capacità, né soddisfare i bisogni, della sua incresciosa progenie.

Dimenticavo di dirvi che la distribuzione dei doni, in queste occasioni solenni, è senza appello, e che nessun dono può essere rifiutato.

Convinte di aver portato a termine la loro fatica, tutte le Fate si stavano alzando; non restava più, infatti, nessun regalo, nessun favore da elargire a quella povera gente; quando un buon uomo, un povero piccolo commerciante, credo, si alzò in piedi e afferrando per il vestito di vapori multicolori la Fata più a portata di mano, esclamò:

«Eh, signora, lei ci dimentica! C'è ancora mio figlio! Non sono mica venuto qui per niente!».

La Fata avrebbe potuto trovarsi in imbarazzo; infatti non restava più niente. Si ricordò tuttavia in tempo di una legge ben nota, anche se raramente applicata, nel mondo soprannaturale abitato dalle divinità impalpabili, amiche dell'uomo e spesso costrette ad adattarsi alle sue passioni, che sono appunto le Fate, gli Gnomi, le Salamandre, le Silfidi, i Silfi, le Nisse, gli Ondini e le Ondine, - la legge, voglio dire, che concede alle Fate, in un caso come questo, cioè in caso di esaurimento dei premi, la facoltà di donarne ancora uno, supplementare ed eccezionale, purché la Fata abbia sufficiente immaginazione da inventarsene uno immediatamente.

E allora, con un contegno davvero all'altezza del suo rango, la brava Fata rispose: «A tuo figlio regalo... gli regalo... il Dono di piacere!».

«Ma piacere come? Piacere?... Piacere perché?» domandò con ostinazione il piccolo bottegaio, che era certamente uno di quei comuni ragionatori che non sanno sollevarsi alla logica dell'Assurdo.

«Perché! Perché!» ribatté molto seccata, voltandogli le spalle, la Fata; e raggiungendo il corteo delle sue compagne, diceva loro: «Ma guardate un po' questo francesetto fanatico che pretende di capire tutto, e che dopo aver ottenuto per suo figlio il premio migliore, osa ancora fare domande e discutere l'Indiscutibile!».

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( Testo tratto da:
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CONTINUA.....

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Monia Di Biagio

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MessaggioInviato: Mer Set 12, 2007 2:50 pm    Oggetto:  Charles Baudelaire: Lo spleen di Parigi
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Charles Baudelaire: Lo spleen di Parigi

Lo Spleen di Parigi (Le spleen de Paris) è una collezione di poemetti in prosa scritta da Charles Baudelaire. Fu pubblicato nel 1869, postumo, dalla sorella dell'autore. I poemetti non hanno un particolare ordine, sono provocatori e sondano sentimenti, abitudini e personaggi della Parigi di quel secolo. Possono essere letti come pensieri o piccole storie nello stile dello "stream of consciousness".

Baudelaire ha detto del suo lavoro: "Questi sono i nuovi fiori del male, ma con più libertà, molti più dettagli, e molta più satira."

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• LE TENTAZIONI OVVERO: EROS, PLUTO E LA GLORIA

Due magnifici Satana e una Diavolessa non meno straordinaria, la notte scorsa sono saliti per la scala misteriosa attraverso cui l'Inferno prende d'assalto la debolezza dell'uomo che dorme, comunicando con lui in segreto. E sono venuti a mettersi maestosamente davanti a me, in piedi come su un podio. Uno splendore sulfureo emanava da questi tre personaggi che si stagliavano sul fondo oscuro della notte. Avevano un'aria così fiera e dominatrice, che sul momento li presi tutti e tre per veri Dei.

Il viso del primo Satana era di sesso ambiguo, e anche nelle linee del suo corpo aveva la mollezza degli antichi Bacchi. I suoi begli occhi languidi, di un colore tenebroso e incerto, somigliavano a violette ancora appesantite dai grevi singhiozzi dell'uragano, e le sue labbra socchiuse sembravano calde ampolle da cui esalava il buon odore di un laboratorio di profumi; e ogni volta che sospirava, insetti muschiati si illuminavano svolazzando nell'ardore del suo respiro.

Intorno alla sua tunica di porpora era avvolto, a guisa di cintura, un serpente cangiante che, sollevando la testa, volgeva languidamente verso di lui i suoi occhi di brace. A questa cintura vivente erano appesi, alternati a fiale colme di sinistri liquori, coltelli lucenti e strumenti chirurgici. Nella mano destra, costui teneva un'altra fiala, il cui contenuto era roseo e luminoso, e che aveva come etichetta queste bizzarre parole: «Bevete, questo è il mio sangue, un tonico eccellente»; nella sinistra, teneva un violino, che doveva servirgli per cantare i suoi piaceri e i suoi dolori, e per diffondere il contagio della sua follia nelle notti di sabba.

Alle caviglie delicate pendevano alcuni anelli di una catena d'oro spezzata, e quando il fastidio che ne risultava lo costringeva ad abbassare gli occhi a terra, contemplava con vanità le unghie dei propri piedi, lucenti come pietre lavorate.

Mi guardò con i suoi occhi inconsolabilmente afflitti, da cui emanava un'insidiosa ebbrezza, e con voce armoniosa mi disse: «Se vuoi, se tu vuoi, ti farò signore delle anime, e sarai il padrone della materia vivente più di quanto lo scultore possa esserlo dell'argilla; e conoscerai il piacere, che sempre si rinnova, di uscire da te stesso per dimenticarti in altri, e di attirare le anime altrui fino a mescolarle alla tua».

Gli risposi: «Tante grazie! Non so che farmene di questa paccottiglia di esseri che certamente non valgono di più del mio povero io. Benché il ricordare mi dia qualche vergogna, non voglio dimenticare niente; e se anche non ti riconoscessi, vecchio mostro, la tua misteriosa coltelleria, le tue equivoche fiale, le catene da cui sono impediti i tuoi piedi, sono simboli che spiegano con sufficiente chiarezza gli inconvenienti dell'esserti amico. Tieniti i tuoi regali».

Il secondo Satana non aveva né quell'aria tragica e sorridente, né quelle insinuanti belle maniere, né quella bellezza delicata e profumata. Era un uomo imponente, con una larga faccia priva di occhi, il cui ventre pesante strapiombava sulle cosce, e la cui pelle era tutta dorata, tatuata e come illustrata da una folla di piccole figure in movimento rappresentanti le varie forme della miseria universale. C'erano piccoli uomini sfiancati che si appendevano volontariamente a un chiodo; c'erano piccoli gnomi deformi, magri, i cui occhi supplichevoli reclamavano l'elemosina ancor più delle loro mani tremanti; e poi vecchie madri, che portavano degli aborti aggrappati alle mammelle estenuate. E così via.

Quel grosso Satana si batteva col pugno l'immenso ventre, da cui usciva un prolungato tintinnio metallico, seguito dal vago gemito di diverse voci umane. E lui rideva, mostrando spudoratamente i denti guasti in un'enorme risata imbecille, come succede in ogni posto del mondo a chiunque abbia mangiato a sazietà.

Mi disse: «Io posso darti la cosa con cui si ottiene tutto, la cosa che vale tutto, che rimpiazza tutto!». E picchiò sul suo ventre mostruoso, la cui eco sonora fece da accompagnamento alle sue volgari parole.

Mi girai con disgusto e gli risposi: «Per godere, non ho bisogno della miseria di nessuno; non la voglio questa ricchezza rattristata da tutte le disgrazie raffigurate sulla tua pelle come su una carta da parati».

Quanto alla Diavolessa, mentirei se non confessassi che a prima vista trovai in lei un bizzarro fascino. Per definire questo fascino, non potrei che paragonarlo a quello di certe donne molto belle, che, pur essendo avanti con gli anni, non invecchiano più, e la cui bellezza conserva la penetrante malìa delle rovine. Aveva un'aria insieme imperiosa e dinoccolata, e i suoi occhi, benché pesti e sbattuti, conservavano un magico magnetismo. Ciò che più mi colpì fu il mistero della sua voce: vi ritrovavo qualcosa dei contralti più deliziosi, ma anche quella leggera raucedine che hanno le gole bruciate dall'acquavite.

«Vuoi conoscere il mio potere?» disse la falsa dea con la sua voce fascinosa e paradossale. «Ascolta!».

Si mise allora in bocca una gigantesca tromba, infiocchettata come uno zufolo con i titoli di tutti i giornali dell'universo, e attraverso questa tromba gridò il mio nome, che risuonò nello spazio con il rumore di centomila tuoni e ritornò a me ripetuto dall'eco del più remoto dei pianeti.

«Diavolo!» feci io, a metà soggiogato, «ecco una cosa preziosa!». Ma osservando con più attenzione quella seducente virago, mi sembrò vagamente di riconoscerla per averla vista brindare con alcuni balordi di mia conoscenza; e il suono rauco dell'ottone recò ai miei orecchi non so quale ricordo di uno squillo di tromba prostituito.

Perciò, con tutto lo sdegno di cui ero capace, risposi: «Vattene! Non sono fatto per prendermi in moglie l'amante di individui che non voglio neppure nominare».

Avevo certamente tutto il diritto di sentirmi fiero per una così coraggiosa abnegazione. Ma disgraziatamente mi svegliai, e tutta la mia forza mi abbandonò. «Dovevo essere proprio addormentato profondamente», mi dissi, «per farmi tanti scrupoli. Ah, se potessero tornare quando sono sveglio, non farei tanto il difficile!».

E li invocai ad alta voce, supplicandoli di perdonarmi, offrendo loro di disonorarmi tutte le volte che fosse necessario per meritare i loro favori; ma dovevo averli davvero gravemente offesi, perché da allora non sono più tornati.

***********

• IL CREPUSCOLO

Il giorno declina. Un grande sollievo scende nelle menti affaticate dal peso della giornata; e i pensieri, ora, prendono i colori teneri e incerti del crepuscolo.

Ma attraverso le nubi trasparenti della sera, arriva dalla montagna al mio balcone un grande urlìo fatto di una folla di grida discordi, che lo spazio trasforma in una lugubre armonia, simile a quella della marea che sale o di una tempesta che si risveglia.

Chi sono gli sventurati che la sera non riesce a calmare e che, come i gufi, prendono l'arrivo della notte per un segnale di sabba? Questo sinistro ululato arriva a noi dal nero ospizio arrampicato sulla montagna; e la sera, fumando e contemplando il riposo dell'immensa vallata gremita di case, le cui finestre dicono tutte: «La pace è qui, ora; è qui la gioia della famiglia!», io posso, quando il vento soffia di lassù, cullare i miei pensieri sbalorditi da quell'imitazione delle armonie dell'inferno.

Il crepuscolo eccita i pazzi. - Ricordo due amici, che il crepuscolo rendeva come malati. L'uno non riconosceva più nessun rapporto di amicizia e di cortesia, e maltrattava selvaggiamente chiunque incontrasse. L'ho visto tirare sulla testa di un maître d'hôtel un ottimo pollo sul quale credeva di vedere non so quale offensivo geroglifico. Annunciando profonde voluttà, la sera gli guastava il piacere delle cose più succulente.

L'altro, un ambizioso ferito, man mano che il giorno declinava diventava sempre più acido, più cupo, più litigioso. Ancora indulgente e socievole durante la giornata, la sera era spietato; e non soltanto contro gli altri, anche contro se stesso esercitava rabbiosamente la sua mania crepuscolosa.

Il primo è morto pazzo, senza riconoscere sua moglie e suo figlio; il secondo porta dentro di sé il malessere di una perpetua inquietudine, e anche se fosse gratificato di tutti gli onori che possono conferire le repubbliche e i prìncipi, io credo che il crepuscolo continuerebbe ad accendere in lui la bruciante invidia di onori immaginari.

La notte, che portava tenebre nella loro mente, porta luce nella mia; e sebbene non sia raro vedere la stessa causa generare effetti opposti, questo fatto mi ha sempre intrigato e allarmato.

O notte! o rinfrescanti tenebre! Voi siete per me il segnale di una festa interiore, siete la liberazione da ogni angoscia! Nella solitudine delle pianure, nei labirinti di pietra di una grande città, scintillio di stelle o esplosione di fanali, voi siete il fuoco pirotecnico della dea Libertà!

Crepuscolo, come sei dolce e tenero! Le luci rosate che indugiano ancora all'orizzonte come l'agonia del giorno sotto l'oppressione vittoriosa della notte, le fiamme dei candelabri che minacciano con un rosso cupo le ultime glorie del tramonto, i pesanti drappeggi che una mano invisibile attira dalle profondità dell'Oriente, imitano tutti i complicati sentimenti che lottano dentro il cuore umano nelle ore cruciali della vita.

O potrebbero sembrare le bizzarre vesti di una danzatrice, la cui trasparenza lascia intravedere, smorzati e velati, gli splendori di un abito stupendo, come al di sotto del nero presente traspare il passato delizioso; e le vacillanti stelle d'oro e d'argento di cui è cosparsa la Notte, rappresentano quei fuochi della fantasia che si accendono davvero solo nel suo lutto profondo.

*************

• LA SOLITUDINE

Un giornalista filantropo mi dice che la solitudine fa male, e a sostegno della sua tesi mi cita, come fanno i miscredenti, le parole dei Padri della Chiesa.

So bene che il Demonio frequenta volentieri i luoghi aridi, e che lo spirito assassino e lascivo si accende straordinariamente nella solitudine. Ma potrebbe darsi che questa solitudine sia pericolosa solo per un'anima oziosa e divagante che la popola con le sue passioni e le sue chimere.

È chiaro che un chiacchierone il cui piacere supremo consista nel parlare dall'alto di una cattedra o di una tribuna, correrebbe forti rischi di diventare pazzo furioso nell'isola deserta di Robinson. Non pretendo dal mio giornalista le virtù e il coraggio di Crusoe, ma chiedo che almeno non si metta a levare accuse contro chi ama solitudine e mistero.

Apparteniamo a una razza così loquace, che fra noi si trovano individui che accetterebbero perfino la pena di morte con minore avversione, se soltanto si permettesse loro di tenere un fluente discorso dall'alto del patibolo, senza il pericolo di essere interrotti prima del termine dai tamburi di Santerre.

Non li compiango: perché immagino che le loro effusioni oratorie procurino loro voluttà pari a quelle che altri ricavano dal silenzio e dal raccoglimento: ma li disprezzo.

Soprattutto, vorrei che il mio maledetto giornalista mi lasciasse libero di divertirmi a modo mio. «Davvero non provate mai - mi dice con quel suo tono nasale, così pretesco - il bisogno di condividere con qualcuno le vostre gioie?». Ma guardate un po' quanto è sottile e insinuante questo invidioso! Sa benissimo che disprezzo le sue gioie, e così, questo orrendo guastafeste, viene a intrufolarsi nelle mie!

«La grande sventura di non saper stare da soli...», dice da qualche parte La Bruyère per svergognare tutti coloro che si precipitano a dimenticare se stessi nella folla perché temono di non riuscire a sopportarsi.

«Quasi tutte le nostre sventure ci vengono dal non essere riusciti a restare nella nostra camera», dice un altro saggio, Pascal, mi pare, richiamando così nella cella del raccoglimento tutti quei dissennati che cercano la felicità nel movimento e in una prostituzione che chiamerei fraternalistica, se volessi parlare la bella lingua del mio tempo.

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• I PROGETTI

Passeggiando in un grande parco solitario, diceva fra sé: «Come sarebbe bella in un fastoso, elaborato abito da corte, mentre scende la scala di marmo di un palazzo, in una bella atmosfera serale, davanti a fontane e vasti prati! Il suo aspetto naturale è infatti quello di una principessa».

Più tardi, passando in una strada, si fermò davanti a una bottega di incisioni, e trovando dentro una cartella una stampa con un paesaggio tropicale, si disse: «No! non è affatto dentro un palazzo che vorrei possedere la sua amata vita. Non ci sentiremmo a casa nostra. Del resto, quelle pareti dorate non lascerebbero spazio alla sua figura; in quelle solenni gallerie manca un angolo per l'intimità. È decisamente qui, invece, che dovremmo abitare per coltivare il mio sogno».

E analizzando con lo sguardo i dettagli di quell'incisione, continuava dentro di sé: «Una bella capanna di legno in riva al mare, avvolta da quegli strani alberi pieni di luce di cui non ricordo il nome... Nell'aria, un profumo inebriante, indefinibile... e nella capanna un intenso odore di rosa e di muschio... Più in là, oltre i confini del nostro piccolo dominio, le alte alberature delle navi che ondeggiano sull'acqua... Intorno a noi, al di là delle pareti, rischiarate dalla luce rosa filtrata dalle stuoie e ornate con ghirlande di freschi fiori inebrianti, solo qualche sedia, di quel legno pesante e tenebroso usato nel rococò portoghese (su cui lei riposerebbe nella calma ventilata, fumando un tabacco appena oppiato!), al di là della veranda lo strepito degli uccelli ubriachi di luce e il chiacchierio delle negrette... E la notte, come sottofondo dei miei sogni, il canto lamentoso di quegli alberi musicali, i melanconici filaò! Sì, in realtà è proprio questo lo scenario che cercavo. Che me ne faccio dei palazzi?».

Più tardi, percorrendo un grande viale, scorse un lindo alberghetto dove, da una finestra rallegrata da tendine di cotonina variopinta, si sporgevano due facce ridenti. E subito: «La mia testa deve essere davvero vagabonda - si disse - se va a cercare così lontano ciò che trovo così vicino. Piacere e felicità sono nel primo albergo che capita, nell'albergo del caso, sempre così prodigo di voluttà. Un bel focolare, stoviglie vistose, una cena decente, un vino robusto e un largo letto con le lenzuola ruvide ma fresche di bucato. Che c'è di meglio?».

E rientrando a casa solo, nell'ora in cui i consigli della Saggezza non sono più soffocati dal rumoreggiare della vita esteriore, disse a se stesso: «Oggi ho avuto in sogno tre diversi domicili, dai quali ho ricavato un uguale piacere. Perché costringere il mio corpo a cambiare luogo, se la mia mente viaggia così svelta? E a che scopo realizzare i progetti, se la gioia di un progetto basta a se stessa?».

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• LA BELLA DOROTEA

Il sole opprime la città con la sua terribile luce a picco; la sabbia è abbagliante e il mare scintilla. Il mondo attonito si accascia e fa la siesta, una siesta che è una specie di gradevole morte, in cui il dormiente, a metà sveglio, assapora con voluttà il suo annientamento.

Dorotea, invece, unica vivente a quest'ora sotto l'azzurro immenso, forte e fiera come il sole, procede nella strada deserta, creando nella luce una macchia splendidamente nera.

Avanza ondeggiando mollemente il torso sottile sulle anche ampie. Il suo aderente vestito di seta, rosa chiaro, risalta sul buio della sua pelle e modella con esattezza la sua figura slanciata, l'incavo della schiena, il seno eretto.

Il suo ombrello rosso, filtrando la luce, proietta sul suo viso scuro la tinta sanguigna dei suoi riflessi.

Il peso della sua enorme capigliatura bluastra le tira indietro la testa delicata, dandole un'aria trionfale e indolente. Pesanti orecchini sussurrano segretamente qualcosa alle sue orecchie graziose.

Ogni tanto la brezza del mare fa volare in alto il lembo della gonna e scopre la sua gamba lucida e magnifica; il suo piede, come quello delle dee di marmo che l'Europa tiene chiuse nei suoi musei, imprime fedelmente la sua forma sulla sabbia fine. Perché Dorotea è così straordinariamente civetta che il piacere di essere ammirata supera in lei l'orgoglio della libertà; e, benché libera, cammina a piedi nudi.

Avanza così, armoniosamente felice di vivere, e mostra il biancore del suo sorriso come se scorgesse lontano nello spazio uno specchio che riflette il suo incedere e la sua bellezza.

Nell'ora in cui anche i cani gemono sotto il morso del sole, quale movente irresistibile fa dunque andare così la pigra Dorotea, bella e fredda come il bronzo?

Perché mai ha lasciato la sua piccola casa arredata con tanta civetteria, dove fiori e stuoie creano con poca spesa un perfetto boudoir; dove le piace tanto pettinarsi, fumare, farsi fare vento o guardarsi nello specchio dei suoi grandi ventagli di piume, mentre il mare che batte la spiaggia a cento passi da lì inventa un monotono, possente accompagnamento alle sue oscillanti fantasticherie, e il pentolino di ferro in cui cuoce un ragù di granchi con riso e zafferano le manda dal cortile odori eccitanti?

Forse ha un appuntamento con qualche giovane ufficiale che, in lidi remoti, ha sentito i suoi compagni parlare della famosa Dorotea. Infallibilmente lei lo pregherà, ingenua creatura, di descriverle un ballo all'Opera, e gli chiederà se ci si può andare a piedi nudi, come ai balli della domenica, dove anche le vecchie Cafre diventano ebbre e pazze di gioia; e poi, ancora, se le belle dame di Parigi sono tutte più belle di lei.

Dorotea è ammirata e coccolata da tutti, e sarebbe perfettamente felice se non fosse costretta a risparmiare un soldo sull'altro per riscattare la sorellina di undici anni, che è già matura ed è già così bella! Certamente ci riuscirà, la brava Dorotea: il padrone della bambina è avaro, troppo avaro per capire una bellezza diversa da quella dei soldi!

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• GLI OCCHI DEI POVERI

Ah, volete proprio sapere perché oggi vi odio? Per me non sarà difficile spiegarvelo. Ma certo per voi non sarà facile capirlo, perché siete, credo, il più bell'esempio di impermeabilità femminile che si possa incontrare.

Avevamo passato insieme un'intera giornata, che mi era parsa breve. Ci eravamo promessi di avere in comune tutti i nostri pensieri, e che le nostre anime sarebbero state ormai un'anima sola: un sogno che dopotutto non ha niente di originale, se non il fatto che pur essendo stato sognato da tutti non è stato realizzato da nessuno.

La sera, un po' stanca, voleste sedervi all'angolo di un nuovo boulevard, davanti a un nuovo caffè ancora pieno di calcinacci, e che già mostrava la gloria dei suoi incompiuti splendori. Il caffè scintillava. Perfino il gas vi esibiva tutto l'ardore di un debutto, e con tutte le sue forze rischiarava i muri di un biancore accecante, le abbaglianti superfici degli specchi, gli ori delle modanature e delle cornici, i paggi dalle guance paffute trascinati dai cani al guinzaglio, le dame che sorridevano al falcone appollaiato sul loro pugno, le ninfe e le dee con frutti, pasticci, cacciagione in capo, Ebe e Ganimede che porgono col braccio teso la piccola anfora per la «bavarese», o l'obelisco tricolore dei gelati mantecati; tutta la storia e tutta la mitologia messe al servizio dell'ingordigia.

Proprio davanti a noi, sulla carreggiata, se ne stava impalato un brav'uomo sulla quarantina, la faccia stanca, la barba ingrigita, che teneva per mano un bambino e reggeva sull'altro braccio un esserino troppo debole per camminare. Faceva da bambinaia, e portava i suoi figli, la sera, a prendere un po' d'aria. Cenciosi tutti e tre. Quei tre visi erano straordinariamente seri, e quei sei occhi contemplavano e fissavano il caffè nuovo con pari ammirazione, benché con diverse sfumature a seconda dell'età.

Gli occhi del padre dicevano: «Come è bello! Come è bello! Si direbbe che tutto l'oro della povera gente sia venuto a mettersi su questi muri». Gli occhi del bambino: «Come è bello! Come è bello! Ma è una casa dove possono entrare solo quelli che non sono come noi». Quanto agli occhi del più piccolo, erano troppo affascinati per esprimere qualcosa di diverso da una gioia profonda e ottusa.

Gli autori di canzoni dicono che il piacere rende l'anima buona e intenerisce il cuore. Per quanto riguarda me, la canzone quella sera aveva ragione. Non solo ero intenerito da quella famiglia d'occhi, ma avevo un po' vergogna dei nostri bicchieri e delle nostre caraffe, più grandi della nostra sete. Giravo il mio sguardo verso il vostro, mio caro amore, per leggervi il mio stesso pensiero; mi tuffavo nei vostri occhi così belli, così bizzarri e dolci, nei vostri occhi verdi, abitati dal capriccio e ispirati dalla Luna, quando mi diceste: «Questa gente, con quegli occhi spalancati come portoni, mi è insopportabile! Non potreste chiedere al maître di allontanarli da qui?».

Tanto difficile è capirsi, caro angelo mio! E il pensiero è a tal punto incomunicabile, anche fra coloro che si amano!

********************

• UNA MORTE EROICA

Fancioulle era un ammirevole buffone, e in rapporti quasi di amicizia col Principe. Ma le cose serie esercitano su chi è destinato alla comicità una fatale attrazione; e per quanto possa sembrare strano che le idee di patria e di libertà s'impossessino dispoticamente del cervello di un istrione, un giorno Fancioulle entrò a far parte di una cospirazione formata da alcuni gentiluomini scontenti.

Esiste dovunque della gente perbene, che denuncia al potere questi individui di umore atrabiliare che vogliono deporre i principi e riformare la società senza neppure consultarla. I signori in questione, tra cui Fancioulle, furono arrestati e destinati a morte sicura.

Sono propenso a credere che il Principe si sia alquanto seccato di trovare il suo attore preferito fra i ribelli. Quel principe non era né migliore né peggiore di altri: ma un eccesso di sensibilità lo rendeva in molti casi più crudele e dispotico di tutti i suoi simili. Amante appassionato delle belle arti, e anche eccellente intenditore, i piaceri non lo saziavano mai. Piuttosto indifferente agli uomini e alla morale, vero artista egli stesso, non conosceva nemico pericoloso per lui quanto la Noia, e gli sforzi bizzarri che faceva per sfuggire ad essa e per vincere la sua tirannia sul mondo gli avrebbero certamente attirato, da parte di uno storico severo, l'appellativo di «mostro», se nei suoi dominii fosse stato permesso scrivere una qualunque cosa che non tendesse unicamente al piacere e ad una delle sue forme più raffinate, la meraviglia. La grande sventura di questo Principe fu che non ebbe mai un teatro che fosse abbastanza ampio per la sua fantasia. Ci sono dei giovani Neroni costretti a soffocare dentro confini troppo angusti, e di cui i secoli a venire ignoreranno per sempre sia il nome sia la buona volontà. L'improvvida Provvidenza aveva dato a costui facoltà più ampie dei confini del suo Stato.

All'improvviso corse voce che il sovrano voleva graziare tutti i congiurati; all'origine di questa voce c'era stato l'annuncio di un grande spettacolo in cui Fancioulle doveva impersonare uno dei suoi ruoli principali e più riusciti, e a questo spettacolo avrebbero dovuto assistere, si diceva, anche i gentiluomini condannati; segno evidente, aggiungevano i superficiali, che il Principe offeso era disposto alla clemenza.

Da parte di un uomo così naturalmente e volontariamente eccentrico ci si poteva aspettare qualunque cosa, anche la virtù, anche la clemenza, soprattutto se avesse potuto sperare di trovare in esse dei piaceri inaspettati. Ma per coloro che, come me, erano riusciti a penetrare meglio nelle profondità di quest'anima curiosa e malata, era infinitamente più probabile che il Principe avesse voglia di valutare il talento teatrale di un condannato a morte. Voleva approfittare dell'occasione per compiere un esperimento fisiologico di fondamentale interesse, e verificare fino a che punto le abituali capacità di un artista potevano essere alterate o modificate dalla situazione straordinaria in cui si trovava. Al di là di questo, c'era nel suo animo un'intenzione più o meno definita di clemenza? La questione non ha mai potuto essere chiarita.

Arrivato finalmente il gran giorno, la piccola corte dispiegò tutti i suoi fasti, e sarebbe difficile immaginare, a meno di non averlo visto, tutto lo splendore che la classe privilegiata di un piccolo Stato può manifestare in una circostanza veramente solenne. E quella lo era doppiamente, anzitutto per l'effetto magico del lusso prodigato, e poi per il misterioso interesse morale che vi era connesso.

Messer Fancioulle eccelleva soprattutto nei ruoli muti o poco parlati, che sono spesso i più importanti in quei drammi favolosi il cui scopo è di rappresentare simbolicamente il mistero della vita. Entrò in scena con leggerezza e con perfetta disinvoltura, cosa che contribuì a rafforzare, nel nobile pubblico, un'idea di dolcezza e di perdono.

Quando di un attore si dice: «Ecco un bravo attore», ci si serve di una formula che implica ancora che sotto il personaggio si può indovinare l'attore, cioè l'arte, lo sforzo, la volontà. Ma se un attore arrivasse ad essere, nei confronti del personaggio a cui deve dare espressione, ciò che potrebbero essere, nei confronti dell'idea astratta e vaga di bellezza, le migliori statue dell'antichità, meravigliosamente animate, vive e in movimento, questo sarebbe allora un caso singolare e del tutto imprevisto. Fancioulle fu, quella sera, una perfetta idealizzazione che era impossibile non supporre vivente, possibile, reale. Questo buffone andava, veniva, rideva, piangeva, si dimenava, con un'indistruttibile aureola intorno alla testa, aureola a tutti invisibile, ma visibile a me, e nella quale si confondevano, in uno strano miscuglio, i raggi dell'Arte e la gloria del Martirio. Fancioulle introduceva, per non so quale grazia speciale, il divino e il soprannaturale perfino nelle più stravaganti buffonerie. Nel momento in cui tento di descrivervi questa indimenticabile serata, la mia penna trema, e mi salgono agli occhi le lacrime per l'emozione che ancora provo. In modo perentorio, irrefutabile, Fancioulle mi dava la prova che l'ebbrezza dell'Arte è più adatta di ogni altra a velare i terrori dell'abisso; che il genio può recitare la commedia sull'orlo della tomba con una gioia che gli impedisce di vedere la tomba, perduto com'è in un paradiso che esclude ogni idea di tomba e di distruzione.

Tutto quel pubblico, per frivolo e disincantato che fosse, subì ben presto l'onnipotente dominio dell'artista. Nessuno pensò più alla morte, al lutto, ai supplizi. Ognuno si abbandonò senza inquietudine a quella moltiplicazione dei piaceri che dà la vista di un capolavoro artistico vivente. Le esplosioni di gioia e di ammirazione scossero ripetutamente le volte dell'edificio con la forza di un tuono ininterrotto. Il Principe stesso, inebriato, mescolò i suoi applausi a quelli della corte.

Tuttavia, ad uno sguardo chiaroveggente, la sua ebbrezza si distingueva per la presenza di qualcos'altro. Si sentiva vinto nel suo potere di despota? Umiliato nella sua arte di terrorizzare i cuori e intorpidire gli spiriti? Frustrato nelle sue speranze e beffato nelle sue previsioni? Tali supposizioni, non esattamente giustificate, ma neppure totalmente ingiustificabili, attraversarono la mia mente mentre contemplavo il volto del Principe, sul quale un pallore nuovo continuava ad aggiungersi al pallore abituale, come la neve si aggiunge alla neve. Le sue labbra si serravano sempre di più, i suoi occhi si illuminavano di un fuoco interiore simile a quello della gelosia e del rancore mentre applaudiva con ostentazione il talento del suo vecchio amico, lo strano buffone che buffoneggiava così bene la morte. Ad un certo punto, vidi sua Altezza chinarsi verso un paggetto che stava dietro di lui e dirgli qualcosa all'orecchio. La faccia birichina del bel ragazzino si illuminò di un sorriso; poi svelto si allontanò dal palco principesco come per compiere una commissione urgente.

Qualche minuto dopo un fischio acuto, prolungato, interruppe Fancioulle in uno dei suoi momenti migliori, e ferì nello stesso tempo le orecchie e i cuori. E dal punto della sala da cui si era levata questa inattesa disapprovazione, un ragazzino si precipitò fuori nel corridoio trattenendo le risate.

Fancioulle, scosso, risvegliato dal suo sogno, chiuse dapprima gli occhi, poi li riaprì, quasi subito, smisuratamente spalancati, aprì la bocca come per respirare affannosamente, barcollò un po' in avanti, un po' indietro, e poi cadde morto stecchito sul palco.

Il fischio, rapido come un colpo di spada, aveva realmente preso il posto del boia? Il Principe era stato davvero in grado di indovinare tutta l'efficacia omicida del suo trucco? Se ne può dubitare. Rimpianse il suo caro e inimitabile Fancioulle? È confortante e legittimo crederlo.

I gentiluomini colpevoli avevano goduto per l'ultima volta lo spettacolo della commedia. Quella notte stessa furono cancellati dalla vita.

Da allora in poi, parecchi mimi, giustamente apprezzati in diversi paesi, sono venuti a recitare davanti alla corte di ***; ma nessuno di loro ha potuto far ricordare i meravigliosi talenti di Fancioulle, né innalzarsi fino a ottenere un uguale favore.

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• LA MONETA FALSA

Mentre ci allontanavamo dalla rivendita dei tabacchi, il mio amico fece un'accurata suddivisione del suo denaro; nella tasca sinistra del gilè fece scivolare alcune monetine d'oro; nella destra, alcune monetine d'argento; nella tasca sinistra dei pantaloni, una quantità di grosse monete, e infine, nella destra, un pezzo d'argento da due franchi che aveva esaminato attentamente.

«Singolare e minuziosa ripartizione!» dissi fra me.

Incontrammo un povero che ci tese il berretto tremando. - Non conosco niente di più inquietante dell'eloquenza muta di quegli occhi supplichevoli, che contengono nello stesso tempo, per l'uomo sensibile, capace di leggervi, tanta umiltà, tanti rimproveri. Qualcosa di simile a questa complicata profondità di sentimento, la si trova negli occhi lacrimosi dei cani bastonati.

Essendo l'offerta del mio amico molto più consistente della mia, gli dissi: «Avete ragione: dopo il piacere di meravigliarsi, non ce n'è uno più grande di quello di suscitare meraviglia». - «Era la moneta falsa», mi rispose lui tranquillamente, come per giustificarsi della sua prodigalità.

Ma nel mio miserabile cervello, sempre occupato a cercare la luna a mezzogiorno (di quale faticosa facoltà la natura mi ha fatto dono!), entrò di colpo quest'idea: che una simile condotta da parte del mio amico non era scusabile se non come desiderio di provocare un evento nella vita di quel povero diavolo, e anche forse di vedere le conseguenze, più o meno funeste, che può far nascere una moneta falsa nelle mani di un mendicante. Chissà, forse poteva moltiplicarsi in tante monete buone! O poteva portarlo in galera. Un oste, per esempio, o un fornaio, avrebbero potuto farlo arrestare come falsario o come spacciatore. Oppure, quella moneta senza valore avrebbe anche potuto diventare, per un povero piccolo speculatore, la fonte di una ricchezza che sarebbe durata qualche giorno. E così la mia fantasia viaggiava, prestando ali allo spirito del mio amico e traendo tutte le deduzioni possibili da tutte le ipotesi possibili.

Ma costui interruppe bruscamente la mia fantasticheria riprendendo le mie parole: «Sì, avete ragione; non c'è piacere più dolce di quello di meravigliare un uomo regalandogli molto di più di quello che si aspetta».

Lo guardai nel bianco degli occhi e fui spaventato nel vedere che i suoi occhi brillavano di un innegabile candore. Vidi allora chiaramente che egli aveva voluto fare, nello stesso tempo, la carità e un buon affare; guadagnarsi quaranta soldi e l'amore di Dio; portarsi via il paradiso facendo economia; e infine acquistarsi gratis una patente di uomo caritatevole. Gli avrei quasi perdonato il desiderio della gioia criminosa di cui un momento prima lo avevo ritenuto capace; avrei trovato curioso, singolare che si divertisse a compromettere i poveri; ma non gli avrei mai perdonato l'inettitudine dimostrata in questo calcolo. Non c'è scusa per la cattiveria, ma c'è qualche merito nell'esserne coscienti; e il più irreparabile dei vizi è fare il male per stupidità.

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• IL GIOCATORE GENEROSO

Ieri, in mezzo alla folla del boulevard, mi sono sentito sfiorare da un essere misterioso che avevo sempre desiderato conoscere, e che riconobbi immediatamente senza avere mai visto. C'era senza dubbio, da parte sua, un desiderio analogo nei miei confronti, perché mi fece, passando, una significativa strizzatina d'occhio, alla quale mi affrettai a rispondere. Lo seguii con attenzione, e poco dopo discesi dietro di lui in una sotterranea, abbagliante dimora, nella quale risplendeva un lusso che nessuna delle abitazioni superiori di Parigi poteva lontanamente eguagliare. Mi sembrò strano di essere potuto passare così spesso accanto a questo prestigioso rifugio senza indovinarne l'ingresso. Vi regnava un'atmosfera squisita, anche se frastornante, che faceva dimenticare quasi istantaneamente tutti i fastidiosi orrori della vita; vi si respirava una cupa beatitudine, analoga a quella che dovettero provare i mangiatori di loto quando, sbarcando su un'isola incantata, illuminata dal chiarore di un eterno mezzogiorno, sentirono nascere in sé, al suono cullante di melodiose cascate, il desiderio di non rivedere più i loro penati, le loro mogli, i loro figli e di non tornare mai più a solcare le onde del mare.

C'erano là strani volti di uomini e di donne, segnati da una bellezza fatale, che mi sembrava di avere già visti in epoche e in paesi di cui non riuscivo a ricordarmi esattamente, e che mi ispiravano piuttosto una simpatia fraterna che il timore che nasce di solito al cospetto dell'ignoto. Se volessi provare a definire in qualche modo l'espressione singolare dei loro sguardi, direi che mai ho visto occhi più energicamente animati dall'orrore della noia e dal desiderio immortale di sentirsi vivere.

Il mio ospite e io, sedendoci, ci sentivamo già perfettamente a nostro agio come due vecchi amici. Mangiammo, bevemmo oltre misura ogni sorta di vini straordinari e, cosa non meno straordinaria, dopo parecchie ore non eravamo affatto ubriachi. Il gioco, tuttavia, questo piacere sovrumano, aveva interrotto a più riprese le nostre frequenti libagioni, e devo dire che, in una serie di partite, avevo scommesso e perduto la mia anima con una noncuranza e una leggerezza eroiche. L'anima è una cosa così impalpabile, così spesso inutile e qualche volta così imbarazzante che per questa perdita provavo meno emozione che se avessi smarrito, andandomene a passeggio, il mio biglietto da visita.

Fumammo a lungo qualche sigaro il cui sapore e profumo incomparabili davano all'anima la nostalgia di paesi e di felicità sconosciute, e inebriato da tutte queste delizie, in un accesso di familiarità che non sembrò dispiacergli, osai esclamare, afferrando una coppa colma fino all'orlo: «Alla vostra immortale salute, vecchio Becco!».

Discutemmo anche dell'universo, della sua creazione e della sua futura distruzione; della grande idea del secolo, cioè del progresso e della perfettibilità, e in generale di tutte le forme dell'infatuazione umana. Su questo tema Sua Altezza non era mai a corto di battute scherzose e irrefutabili, e si esprimeva con una soavità di eloquio e con una spassosa tranquillità che non ho trovato in nessun altro celebrato conversatore. Mi spiegò l'assurdità delle differenti filosofie che avevano fino ad oggi preso possesso del cervello umano, e si degnò anche di confidarmi alcuni principi fondamentali di cui non mi conviene spartire il possesso e i benefici con chicchessia. Non si lamentò affatto della cattiva reputazione che lo circonda in tutte le parti del mondo, mi assicurò di essere la persona più interessata che si può immaginare alla distruzione della superstizione, e mi confessò di aver temuto, per il proprio potere, una sola volta: il giorno in cui aveva sentito un predicatore, più sottile dei suoi confratelli, esclamare dal pulpito: «Miei cari fratelli, quando sentirete vantare il progresso dei lumi, non dimenticate mai che la più bella astuzia del diavolo è convincervi che lui non esiste!».

Il ricordo di questo celebre oratore ci condusse naturalmente verso il tema delle accademie; e il mio strano commensale mi dichiarò che non disdegnava, in molti casi, di ispirare la penna, la parola e la coscienza dei pedagoghi, e che assisteva quasi sempre di persona, benché invisibile, a tutte le sedute accademiche.

Incoraggiato da tanta bontà, gli chiesi notizie di Dio, e se lo avesse visto recentemente. Mi rispose, con una noncuranza venata di una certa tristezza: «Ci salutiamo, quando ci incontriamo; ma come due vecchi gentiluomini, in cui una innata cortesia non riesce a spegnere del tutto il ricordo di antichi rancori».

È dubbio che Sua Altezza abbia mai concesso una così lunga udienza a un semplice mortale, e io temevo di abusarne. Alla fine, quando l'alba rabbrividendo sbiancava i vetri, questo celebre personaggio, cantato da tanti poeti e servito da tanti filosofi che lavorano per la sua gloria senza saperlo, mi disse: «Voglio che conserviate di me un buon ricordo, e vi darò la prova che Io, sebbene si dica di me tanto male, sono a volte un buon diavolo, per usare una delle vostre locuzioni volgari. Al fine di compensare la perdita irrimediabile, che avete subito, della vostra anima, vi regalo la posta in gioco che avreste guadagnato se la sorte vi fosse stata propizia: la possibilità, cioè, di alleviare e di vincere nel corso di tutta la vostra vita quella bizzarra malattia che è la Noia, fonte di tutti i vostri mali e di tutti i vostri miserabili progressi. In voi non prenderà mai forma un solo desiderio senza che io vi aiuti a realizzarlo; regnerete sui vostri volgari simili; sarete ben fornito di gente che vi lusinga e perfino che vi adora; l'argento, l'oro, i diamanti, i palazzi favolosi, verranno a cercarvi e vi pregheranno di essere accettati senza che abbiate fatto nessuno sforzo per guadagnarveli; cambierete patria e contrada tutte le volte che la vostra fantasia lo comanderà; vi sazierete di voluttà, ma senza stanchezza, in paesi incantevoli nei quali fa sempre caldo e dove le donne hanno l'odore buono dei fiori - eccetera, eccetera...», aggiunse alzandosi in piedi e congedandomi con un sorriso buono.

Se non fosse stato per il timore di umiliarmi davanti a una così larga assemblea, volentieri mi sarei buttato ai piedi di questo giocatore generoso per ringraziarlo della sua inaudita munificenza. Ma a poco a poco, dopo che lo ebbi lasciato, la sfiducia incurabile rientrò nel mio petto. Non osavo più credere ad una felicità così prodigiosa, e andando a dormire, mentre dicevo le mie preghiere ubbidendo ancora alla vecchia abitudine come un imbecille, ripetevo mezzo addormentato: «Dio mio! Mio Signore Iddio! Fate che il Diavolo non mi manchi di parola!».

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• LA CORDA

A Édouard Manet

«Le illusioni», mi diceva il mio amico, «sono innumerevoli, forse, come i rapporti degli uomini fra loro, o degli uomini con le cose. E quando l'illusione sparisce, quando cioè vediamo l'essere o il fatto così come esistono fuori di noi, proviamo un sentimento complicato e bizzarro, fatto per metà di rimpianto per il fantasma scomparso, e per metà della piacevole sorpresa di fronte alla novità, di fronte al fatto reale. Se esiste un fenomeno evidente, triviale, sempre uguale a se stesso e di natura tale da essere infallibile, questo è l'amore materno. Supporre una madre senza amore materno è altrettanto difficile che supporre una luce senza calore: sarà dunque perfettamente legittimo attribuire all'amore materno tutte le azioni e le parole di una madre nei confronti di suo figlio. Eppure, state a sentire questa storiella, nel corso della quale sono stato stranamente tratto in inganno dalla più naturale delle illusioni.

«La mia professione di pittore mi porta a guardare attentamente i visi, le fisionomie che incontro per la strada, e sapete bene quale gioia si ricava da questa facoltà che rende ai nostri occhi la vita più viva e più significativa che per gli altri. Nel quartiere fuori mano in cui abito, e dove vasti spiazzi erbosi separano ancora gli edifici, spesso osservavo un bambino la cui espressione ardente e vispa mi aveva, più di tutte le altre, attratto immediatamente. Più volte ha posato per me, e io l'ho trasformato ora in uno zingarello, ora in un angelo, ora in un mitologico dio dell'Amore. Gli ho fatto portare il violino del vagabondo, la Corona di Spine e i Chiodi della Passione, la Torcia di Eros. Insomma, il piacere che provavo di fronte allo spirito stravagante di questo monello era tale che un giorno pregai i suoi genitori, povera gente, di volermelo cedere con la promessa di vestirlo bene, di dargli qualche soldo e di non imporgli altra fatica che quella di pulirmi i pennelli e di farmi delle commissioni. Questo bambino, una volta ripulito, diventò più grazioso, e la vita che conduceva da me gli sembrava un paradiso in confronto a quella che avrebbe dovuto sopportare nel tugurio paterno. Devo dire soltanto che il bravo ometto a volte mi sorprendeva con strane crisi di tristezza precoce, e che ben presto manifestò una passione smodata per lo zucchero e per i liquori; al punto che un giorno in cui constatai che, nonostante i miei numerosi avvertimenti, aveva commesso un altro dei suoi furtarelli, lo minacciai di rimandarlo dai suoi genitori. Poi uscii, e i miei impegni mi trattennero fuori di casa piuttosto a lungo.

«Quali non furono il mio orrore e la mia meraviglia quando per prima cosa, appena entrato, i miei occhi caddero sul corpo di quel bravo ometto, il vispo compagno della mia vita, che si era impiccato allo sportello dell'armadio! I suoi piedi toccavano quasi il pavimento; una sedia, che evidentemente aveva spinto via col piede, era rovesciata accanto a lui; le convulsioni gli avevano piegato la testa verso la spalla; il viso enfiato, e gli occhi sbarrati in una fissità spaventosa, mi diedero per un istante l'illusione che fosse ancora vivo. Tirarlo giù non era affatto un'impresa facile come si potrebbe credere. Si era già molto irrigidito, e io avevo un'inspiegabile ripugnanza a farlo cadere a terra di colpo. Bisognava, con un braccio, sostenerne tutto il peso, e tagliare con l'altra mano la corda. Ma, fatto questo, non era finito; quel piccolo mostro si era servito di una cordicella molto sottile, che era entrata a fondo nella carne, e ora, per liberargli il collo, bisognava andarla a cercare con delle forbicine nel gonfiore in cui era affondata.

«Ho dimenticato di dire che avevo subito chiamato aiuto; ma tutti i miei vicini si erano rifiutati di venirmi in soccorso, fedeli, in questo, alle abitudini dell'uomo incivilito, che non vuole mai, non so perché, immischiarsi nelle faccende di un impiccato. Alla fine venne un medico, il quale dichiarò che il bambino era morto da parecchie ore. Quando più tardi dovemmo spogliarlo per la sepoltura, la rigidità cadaverica era tale che, disperando di poter piegare quelle membra, dovemmo strappare e tagliare i vestiti per levarglieli.

«Mosso dall'inveterato desiderio e dall'abitudine professionale di far paura in ogni caso, tanto agli innocenti che ai colpevoli, il commissario davanti al quale dovetti denunciare l'incidente mi guardò di traverso e mi disse: "Questo è un affare losco".

«Rimaneva una finale incombenza, il cui solo pensiero mi provocava una terribile angoscia: bisognava avvertire i genitori. Le mie gambe si rifiutavano di condurmi da loro. Alla fine trovai il coraggio. Ma, con mia grande sorpresa, la madre restò impassibile; non una lacrima uscì dai suoi occhi. Attribuii questa stranezza all'orrore che doveva provare, e mi ricordai di quel modo di dire: "I dolori più terribili sono muti". Quanto al padre, con un'aria fra abbrutita e trasognata, si limitò a dire: "Dopotutto, forse è meglio così; sarebbe comunque finito male!".

«Intanto il corpo era disteso sul mio divano, e io assistito da una domestica mi occupavo degli ultimi preparativi, quando la madre entrò nel mio studio. Diceva di voler vedere il cadavere di suo figlio. Io non potevo, in verità, impedirle di ubriacarsi del suo dolore rifiutandole questa estrema e tetra consolazione. Poi mi pregò di mostrarle il posto in cui si era impiccato. "Oh no, signora!" le risposi, "vi farebbe male". E mentre gli occhi mi andavano senza volerlo verso quel funebre armadio, mi accorsi con un disgusto mescolato all'orrore e alla collera, che il chiodo era rimasto conficcato nello sportello, con un lungo pezzo di corda che ancora penzolava. Mi precipitai a strappare queste ultime tracce della sciagura, e mentre stavo per buttarle fuori dalla finestra aperta, la povera donna mi afferrò il braccio e mi disse con una voce irresistibile: "Oh, signore, lasciatemela, ve ne prego! Ve ne supplico!". Mi sembrò che la disperazione l'avesse a tal punto fatta uscire di senno, che ora si inteneriva su quanto era servito da strumento alla morte di suo figlio, e volesse conservarlo come un'orribile e cara reliquia. - E s'impossessò del chiodo e della cordicella.

«Finalmente! Finalmente, tutto era compiuto. Non mi restava che rimettermi al lavoro ancora più intensamente del solito, per scacciare a poco a poco dal mio cervello quel piccolo cadavere che ne occupava ogni angolo, e il cui fantasma mi sfiniva coi suoi grandi occhi fissi. L'indomani, però, ricevetti un pacco di lettere: alcune erano degli inquilini di quella stessa casa, altre venivano dalle case vicine; una dal primo piano, un'altra dal secondo, l'altra dal terzo, e così via; alcune, in stile semischerzoso, come se cercassero di mascherare sotto un apparente tono faceto la sincerità della richiesta; altre, pesantemente sfrontate e sgrammaticate, ma tutte con lo stesso scopo, quello di ottenere da me un pezzetto della funesta e beatifica corda. Fra gli autori di queste lettere, le donne, devo dire, erano più numerose degli uomini; ma nessuna, potete credermi, apparteneva alla classe infima e al volgo. Ho conservato quelle lettere.

«Allora si fece improvvisamente luce nel mio cervello, e capii perché la madre ci teneva tanto a strapparmi di mano la cordicella e con quale tipo di commercio intendeva consolarsi».

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• LE VOCAZIONI

In un bel giardino dove i raggi del sole autunnale sembravano indugiare a piacere, sotto un cielo verdognolo dove galleggiavano nubi dorate come continenti in viaggio, quattro bei bambini, quattro ragazzetti stanchi ormai di giocare, chiacchieravano fra loro.

Uno diceva: «Ieri mi hanno portato a teatro. Dentro palazzi grandi e tristi, in fondo ai quali si vede il mare e il cielo, uomini e donne seri e tristi anche loro, ma molto più belli e vestiti molto meglio di quelli che si vedono in giro, parlano come se cantassero. Si minacciano, implorano, si disperano, e spesso tengono la mano su un pugnale infilato alla cintura. Ah, come è bello! Le donne sono molto più belle e alte di quelle che ci vengono a trovare a casa, e pur avendo un aspetto terribile, con i loro occhi infossati e le guance infuocate, è impossibile non amarle. Si ha paura, viene voglia di piangere, eppure si è contenti... E la cosa più strana è che viene voglia di essere vestiti allo stesso modo, di dire e di fare le stesse cose, di parlare con la stessa voce...».

Uno dei quattro bambini, che già da qualche secondo non stava più a sentire il discorso del suo compagno e osservava con una impressionante fissità non so quale punto del cielo, disse all'improvviso:

«Guardate, guardate laggiù...! Lo vedete? È seduto su quella piccola nuvola isolata, su quella nuvola infuocata che si muove appena. Si direbbe che anche lui ci stia guardando».

«Ma chi?» chiesero gli altri.

«Dio!» rispose il ragazzo con un tono assolutamente convinto. «Ah! ormai si è allontanato; fra un momento non riuscirete più a vederlo. È certamente in viaggio per visitare tutti i paesi. Ecco, sta per passare dietro quella fila di alberi, quasi all'orizzonte..., e ora scende dietro il campanile... Ah, non si vede più!». Il bambino restò a lungo girato da quella parte a fissare la linea che separa la terra dal cielo, e nei suoi occhi brillava un'espressione ineffabile di estasi e di rimpianto.

«Quanto è stupido, quello, con il suo Dio che solo lui riesce a vedere!» disse allora il terzo, la cui figura minuta era tutta animata da una vivacità e vitalità particolare. «Adesso vi racconto come mi è successa una cosa che a voi non è mai successa, un po' più interessante del vostro teatro e delle vostre nuvole. - Qualche giorno fa i miei genitori mi hanno portato in viaggio con loro, e dato che nell'albergo dove ci siamo fermati non c'erano abbastanza letti per tutti, si è deciso che io avrei dormito nello stesso letto con la mia governante». Si avvicinò ai suoi compagni e parlò a voce più bassa. «Fa proprio una strana impressione non dormire da soli e stare a letto con la propria governante, al buio. E dato che non dormivo, mentre lei dormiva mi sono divertito a passarle la mano sulle braccia, sul collo, sulle spalle. Ha le braccia e il collo più grossi delle altre donne, e una pelle così liscia, così liscia che sembra carta da lettera, carta velina. Ci provavo così gusto che avrei continuato ancora se non avessi avuto paura: anzitutto paura di svegliarla, e poi paura di non so che cosa. Più tardi ho strofinato la testa in mezzo ai suoi capelli, che le scendevano sulle spalle fitti come una criniera, e vi giuro che odoravano come i fiori del giardino a quest'ora. Provate a fare quello che ho fatto io, quando vi capita, e ve ne accorgerete!».

Nel fare il suo racconto, il giovane autore di questa prodigiosa rivelazione aveva gli occhi spalancati in una sorta di stupefazione per quello che ancora provava, e i raggi del sole al tramonto, scivolando fra i boccoli rossi della sua capigliatura arruffata, vi accendevano un'aureola sulfurea di passione. Era facile indovinare che quello lì non avrebbe passato la vita a cercare la Divinità sulle nuvole, e che l'avrebbe frequentemente trovata altrove.

Infine il quarto disse: «Come sapete, a casa mia ho poco da divertirmi; non mi portano mai a uno spettacolo; il mio tutore è troppo avaro; Dio non si occupa né di me né della mia noia, e non ho una bella governante per le carezze. Spesso ho avuto la sensazione che mi piacerebbe andarmene sempre diritto davanti a me, senza sapere dove, senza che nessuno se ne preoccupi, e vedere paesi sempre nuovi. Non mi trovo mai bene da nessuna parte, e mi pare sempre che mi troverei meglio in un posto diverso da quello in cui sto. All'ultima fiera, al paese vicino, ho visto tre uomini che vivono come vorrei vivere io! Voi non ci avete fatto caso. Erano alti, quasi negri e molto fieri, anche se vestiti di stracci, e con l'aria di chi non ha bisogno di nessuno. I loro grandi occhi cupi sono diventati completamente luminosi quando si sono messi a suonare; una musica straordinaria, che faceva venire voglia di ballare o di piangere o delle due cose insieme, come se si potesse diventare pazzi ascoltandola troppo a lungo. Uno di loro, spingendo l'archetto, sembrava che raccontasse una storia dolorosa, e l'altro, facendo saltellare un martelletto sulle corde di una tastiera sospesa al collo con una cinghia, sembrava che prendesse in giro il lamento del suo vicino; mentre il terzo batteva di tanto in tanto i piatti con una violenza straordinaria. Erano così contenti di se stessi, che hanno continuato a suonare la loro musica selvaggia anche dopo che la folla se n'era andata. Alla fine, hanno raccattato i loro soldi, si sono caricati il loro bagaglio sulle spalle e se ne sono andati. Io volevo sapere dove alloggiavano, e così li ho seguiti da lontano, fino ai margini del bosco, e solo allora ho capito che non alloggiavano in nessun posto.

«Uno di loro ha detto: "Dobbiamo aprire la tenda?".

«"Per me, no!" ha risposto l'altro, "è una notte così bella!"

«Il terzo, contando i soldi diceva: "Questa gente non sente la musica, e le donne ballano come orsi. Per fortuna entro un mese saremo in Austria, là troveremo una popolazione più simpatica".

«"Forse sarebbe meglio andare verso la Spagna; ormai la stagione buona sta per finire. Andiamocene via, prima che arrivino le piogge; è meglio che ci bagnamo solo la gola", ha detto uno degli altri.

«Vedete? mi ricordo tutto. Poi si sono bevuti una tazza d'acquavite ciascuno e si sono addormentati con la faccia rivolta verso le stelle. All'inizio mi era venuta voglia di pregarli di portarmi con loro e d'insegnarmi a suonare i loro strumenti; ma non ho avuto coraggio, perché è sempre difficile decidersi a fare qualunque cosa, e poi anche perché avevo paura di essere riacchiappato prima di essere fuori dalla Francia».

L'espressione poco interessata degli altri tre compagni mi fece pensare che questo ragazzetto era già un incompreso. Lo guardavo attentamente; aveva negli occhi e sulla fronte quel non so che di precocemente fatale che di solito allontana la simpatia e che, non so perché, suscitava la mia, al punto che ebbi per un istante l'idea bizzarra che forse avevo un fratello sconosciuto.

Il sole era tramontato. E la notte aveva solennemente preso il suo posto. I ragazzi si separarono, andando ognuno, senza saperlo, secondo le circostanze e secondo i casi, a maturare il proprio destino, a scandalizzare il prossimo, a gravitare verso la gloria o verso il disonore.

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• IL TIRSO

A Franz Liszt

Che cos'è un tirso? In senso morale e poetico, è un emblema religioso in mano a sacerdoti e sacerdotesse celebranti la divinità di cui sono gli interpreti e i servitori. Ma fisicamente è solo un bastone, un semplice bastone, pertica da luppolo, palo da vigna, secco, duro e diritto. Intorno a questo bastone, in capricciose volute, giocano e folleggiano steli e fiori, questi sinuosi e sfuggenti, quelli inclinati come campanule o coppe rovesciate. E una gloria sorprendente si sprigiona da questa complessità di linee e di colori, teneri o squillanti. Non si direbbe forse che la linea curva e la spirale facciano la corte alla linea diritta, e le danzino intorno in muta adorazione? E che tutte quelle corolle delicate, tutti quei calici, esplosione di effluvii e di colori, eseguano un mistico fandango intorno al bastone ieratico? E, comunque, quale imprudente mortale oserebbe stabilire se i fiori e i pampini sono stati fatti per il bastone, o se il bastone è solo il pretesto per mostrare la bellezza dei pampini e dei fiori? Il tirso è la rappresentazione della vostra sorprendente dualità, potente e venerato maestro, caro Baccante della Bellezza misteriosa e appassionata. Mai ninfa esasperata dall'invincibile Bacco agitò il tirso sulle teste delle sue compagne invasate con la capricciosa energia con la quale voi agitate il vostro genio sui cuori dei vostri fratelli. - Il bastone è la vostra volontà: diritta, ferma, incrollabile. I fiori sono la passeggiata della vostra fantasia intorno alla vostra volontà: l'elemento femminile che esegue intorno al maschio le sue miserabili piroette. Linea diritta e linea arabesca, intenzione ed espressione, rigore della volontà, sinuosità della parola, unità del fine, varietà dei mezzi, amalgama onnipotente e indivisibile del genio, quale analista avrà il detestabile coraggio di dividervi e di separarvi?

Caro Liszt, attraverso le brume, al di là dei fiumi, al di sopra delle città dove i pianoforti cantano la vostra gloria, dove la stampa traduce la vostra saggezza, dovunque voi siate, negli splendori della città eterna o nelle nebbie dei paesi sognanti che Gambrinus consola, a improvvisare canti di diletto o di ineffabile dolore, o ad affidare alla carta le vostre astruse meditazioni, cantore della Voluttà e dell'Angoscia eterne, filosofo, poeta e artista, io vi saluto nell'immortalità!

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• UBRIACATEVI

Bisogna sempre essere ubriachi. Tutto qui: è l'unico problema. Per non sentire l'orribile fardello del Tempo che vi spezza la schiena e vi piega a terra, dovete ubriacarvi senza tregua.

Ma di che cosa? Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare. Ma ubriacatevi.

E se talvolta, sui gradini di un palazzo, sull'erba verde di un fosso, nella tetra solitudine della vostra stanza, vi risvegliate perché l'ebbrezza è diminuita o scomparsa, chiedete al vento, alle stelle, agli uccelli, all'orologio, a tutto ciò che fugge, a tutto ciò che geme, a tutto ciò che scorre, a tutto ciò che canta, a tutto ciò che parla, chiedete che ora è; e il vento, le onde, le stelle, gli uccelli, l'orologio, vi risponderanno: «È ora di ubriacarsi! Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù, come vi pare».

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• DI GIÀ!

Cento volte il sole era già sorto, radioso o rattristato, da quell'immensa conca del mare i cui bordi si lasciano appena scorgere; cento volte si era rituffato, scintillante o mesto, nel suo immenso bagno serale. Da parecchi giorni, potevamo contemplare l'altro lato del firmamento e decifrare l'alfabeto celeste degli antipodi. E ogni passeggero si lamentava e gemeva. Si sarebbe detto che l'approssimarsi della terra esasperasse la sofferenza di tutti. «Quando la finiremo», dicevano, «di dormire un sonno agitato dalle onde, turbato da un vento che russa più forte di noi? Quando potremo mangiare della carne che non sia salata come l'infame elemento che ci porta? Quando potremo digerire su una poltrona immobile?».

Alcuni pensavano al proprio focolare, altri rimpiangevano le mogli infedeli e imbronciate, e la loro prole urlante. Erano tutti così fuori di sé per la visione della terra assente, che si sarebbero messi, credo, a brucare l'erba con più entusiasmo delle bestie.

Finalmente fu segnalata una riva; e vedemmo, avvicinandoci, che era una terra magnifica, abbagliante di luce. Sembrava che le musiche della vita se ne staccassero in un vago mormorio, e che dalle coste, ricche di ogni specie di verde, esalasse fino a parecchie leghe di distanza un odore delizioso di fiori e di frutti.

Tutti diventarono immediatamente felici, ognuno rinunciò al suo cattivo umore. Tutte le liti furono dimenticate, tutti i torti reciproci perdonati; i duelli già stabiliti furono cancellati dalla memoria, e i rancori svanirono come fumo.

Solo io ero triste, inconcepibilmente triste. Come un prete a cui hanno strappato la sua divinità, non potevo staccarmi senza una straziante amarezza da quel mare così infinitamente vario nella sua spaventosa semplicità, che sembra contenere in sé e rappresentare con i suoi giochi, i suoi movimenti, le sue ire e i suoi sorrisi, gli umori, le agonie e le estasi di tutte le anime che sono vissute, che vivono e che vivranno!

Dicendo addio a quell'incomparabile bellezza, mi sentivo mortalmente prostrato; ed è per questo che quando tutti i miei compagni dissero: «Finalmente!» io non potei che gridare: «Di già!».

E tuttavia era la terra, la terra con i suoi rumori, le sue passioni, le sue comodità, le sue feste; era una terra ricca e magnifica, piena di promesse, che ci mandava un misterioso profumo di rosa e di muschio, e da cui le musiche della vita arrivavano a noi in un amoroso sussurro.

***************

• LE FINESTRE

Chi guarda da fuori attraverso una finestra aperta non vede mai tante cose quante ne vede chi guarda una finestra chiusa. Non c'è oggetto più profondo, più misterioso, più fecondo, più tenebroso, più abbagliante di una finestra illuminata da una candela. Ciò che si può vedere alla luce del sole è sempre meno interessante di quello che avviene dietro un vetro. In questo buco nero o luminoso, vive la vita, sogna la vita, soffre la vita.

Al di là delle onde dei tetti, scorgo una donna matura, povera, già invecchiata, sempre curva su qualcosa, che non esce mai. Con il suo viso, il suo vestito, i suoi gesti, senza sapere quasi niente, io ripercorro la storia, o piuttosto la leggenda, di questa donna, e a volte la racconto a me stesso piangendo.

Se fosse stato un povero vecchio, avrei ricostruito la sua altrettanto facilmente.

Così me ne vado a letto, fiero di aver vissuto e sofferto in qualcuno che non sono io.

Forse mi direte: «Sei proprio sicuro che la leggenda sia quella vera?». Ma che cosa importa la realtà, se la mia leggenda mi ha aiutato a vivere, a sentire che io sono, e ciò che sono.

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• IL DESIDERIO DI DIPINGERE

Infelice forse l'uomo, ma felice l'artista che è dilaniato dal desiderio!

Io ardo dal desiderio di dipingere colei che mi è apparsa così raramente e che così presto è fuggita come una cosa bella da rimpiangere che nella notte il viaggiatore perde dietro di sé. Quanto tempo è passato, ormai, da quando è scomparsa!

È bella, e più che bella: è sorprendente. In lei abbonda il nero: e tutto ciò che ispira è notturno e profondo. I suoi occhi sono due antri in cui lampeggia e vaga il mistero. Il suo sguardo illumina come il lampo: è un'esplosione nelle tenebre.

Potrei paragonarla a un sole nero, se si potesse concepire un astro buio che riversa luce e felicità. Ma ancora di più fa pensare alla luna, che certo l'ha segnata col suo temibile influsso. Non la bianca luna degli idilli, che sembra una fredda sposa, ma la luna sinistra e inebriante nel fondo di una notte tempestosa, sospinta dalle nuvole in corsa; non la luna placida e discreta che visita il sonno dei puri, ma la luna strappata dal cielo, vinta e ribelle, che le Streghe della Tessaglia costringono senza pietà a danzare sull'erba atterrita.

Nella sua piccola fronte abitano la volontà tenace e l'amore di preda. E tuttavia, in fondo a questo viso inquietante, dove le mobili narici respirano l'ignoto e l'impossibile, splende con una grazia inesprimibile il riso di una grande bocca, rossa e bianca, e deliziosa, che fa sognare il miracolo di uno splendido fiore sbocciato in un terreno vulcanico.

Ci sono donne che ispirano la voglia di vincerle e di goderle. Questa dà il desiderio di morire lentamente sotto il suo sguardo.

**************

( Testo tratto da:
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........CONTINUA.......

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Monia Di Biagio

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MessaggioInviato: Mer Set 12, 2007 3:06 pm    Oggetto:  Charles Baudelaire: Lo spleen di Parigi
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Charles Baudelaire: Lo spleen di Parigi

Lo Spleen di Parigi (Le spleen de Paris) è una collezione di poemetti in prosa scritta da Charles Baudelaire. Fu pubblicato nel 1869, postumo, dalla sorella dell'autore. I poemetti non hanno un particolare ordine, sono provocatori e sondano sentimenti, abitudini e personaggi della Parigi di quel secolo. Possono essere letti come pensieri o piccole storie nello stile dello "stream of consciousness".

Baudelaire ha detto del suo lavoro: "Questi sono i nuovi fiori del male, ma con più libertà, molti più dettagli, e molta più satira."

**************

• I BENEFICI DELLA LUNA

Mentre dormivi nella tua culla, la Luna, che è il capriccio in persona, guardò dalla finestra e disse: «Questa bambina mi piace».

Discese languidamente la sua scala di nuvole, e passò senza far rumore attraverso i vetri. Poi si stese su di te con la morbida tenerezza di una madre, e depose i suoi colori sulla tua faccia. Così le tue pupille sono rimaste verdi, e le tue guance straordinariamente pallide. Contemplando quella visitatrice i tuoi occhi si sono così bizzarramente ingranditi; e lei ti ha così teneramente serrato la gola che ti è rimasta per sempre la voglia di piangere.

Nell'espansione della sua gioia, la Luna continuava a riempire tutta la stanza di un'atmosfera fosforescente, di un veleno luminoso; e tutta quella viva luce pensava e diceva: «Subirai eternamente l'influsso del mio bacio. Sarai bella a modo mio. Amerai ciò che io amo e ciò che mi ama: l'acqua, le nuvole, il silenzio e la notte; il mare immenso e verde; l'acqua informe e multiforme; il luogo in cui non sei; l'amante che non conosci; i fiori mostruosi; i profumi che fanno delirare; i gatti che si beano sui pianoforti e che gemono come donne, con voce roca e dolce.

«E sarai amata dai miei amanti, corteggiata da chi mi fa la corte. Sarai la regina di chi ha gli occhi verdi, di coloro a cui ho stretto la gola con le mie carezze notturne; di coloro che amano il mare, il mare immenso, tumultuoso e verde, l'acqua informe e multiforme, il luogo in cui non sono, la donna che non conoscono, i fiori sinistri che somigliano ai turiboli di una religione ignota, i profumi che turbano la volontà, e gli animali selvaggi e voluttuosi che sono gli emblemi della loro follia».

Ed è per questo, maledetta e cara bambina viziata, che io ora sono ai tuoi piedi, e cerco in tutta la tua persona il riflesso della temibile Divinità, della fatidica madrina, dell'intossicante madrina di tutti i lunatici!

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• QUAL È LA VERA?

Ho conosciuto una certa Benedicta, che riempiva l'atmosfera di ideale, e i cui occhi spandevano il desiderio della grandezza, della bellezza, della gloria e di tutto ciò che fa credere all'immortalità...

Ma questa ragazza miracolosa era troppo bella per vivere a lungo; così è morta qualche giorno dopo che l'avevo conosciuta, e io stesso l'ho seppellita, un giorno che la primavera agitava il suo incensiere perfino nei cimiteri. Sono io che l'ho seppellita, ben chiusa in una bara di legno profumato e incorruttibile come i forzieri dell'India.

E mentre gli occhi mi restavano fissi sul luogo in cui era sparito il mio tesoro, vidi ad un tratto una personcina che somigliava singolarmente alla defunta, e che, pestando sulla terra fresca con una violenza isterica e bizzarra, diceva scoppiando a ridere: «Sono io la vera Benedicta! Sono io, la famosa canaglia! E per punizione della tua follia e del tuo accecamento, tu mi amerai così come sono!».

Ma io, furibondo, ho risposto: «No! no! no!». E per meglio accentuare il mio rifiuto, ho pestato con il piede così violentemente la terra, che la mia gamba è affondata fino al ginocchio nella recente sepoltura, e, come un lupo preso in trappola, resto attaccato, forse per sempre, alla fossa dell'ideale.

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• UN CAVALLO DI RAZZA

Certo è brutta. Eppure è deliziosa!

Il Tempo e l'Amore l'hanno marcata con i loro artigli e le hanno crudelmente insegnato ciò che ogni minuto e ogni bacio portano via di gioventù e di freschezza.

È veramente brutta. È formica, è ragno, se volete; è perfino scheletro. Ma è anche pozione, magistero, stregata magia! Insomma, è squisita.

Il Tempo non è riuscito a rompere l'armonia spumeggiante del suo passo, né l'eleganza indistruttibile della sua struttura. L'Amore non ha alterato la soavità del suo fiato di bambina; e il Tempo non ha portato via nulla alla sua abbondante criniera da cui esala in selvaggi profumi tutta la vitalità indiavolata del Sud della Francia: Nîmes, Aix, Arles, Avignon, Narbonne, Toulouse, città benedette dal sole, innamorate e incantevoli!

Il Tempo e l'Amore l'hanno morsa invano finché hanno voluto; non hanno affatto diminuito il fascino vago ma eterno del suo petto da ragazzo.

Sciupata forse, ma non stanca, e sempre eroica, fa pensare a quei cavalli di razza che l'occhio del vero amatore sa riconoscere anche attaccati a una carrozza di piazza o a un pesante carro.

E poi è così dolce, così fervida! Ama come si ama in autunno; si direbbe che l'approssimarsi dell'inverno accenda nel suo cuore un fuoco nuovo, e nella sottomissione della sua tenerezza non c'è mai niente che stanchi.

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• LO SPECCHIO

Un uomo spaventoso entra e si guarda allo specchio.

«Perché vi guardate allo specchio, se vedervi vi dà solo dispiacere?».

L'uomo spaventoso mi risponde: «Signore, secondo gli immortali princìpi dell'89, tutti gli uomini sono uguali nei loro diritti; e dunque io posseggo il diritto di guardarmi; se con piacere o dispiacere, questo riguarda solo la mia coscienza».

In nome del buon senso, io avevo senza dubbio ragione. Ma dal punto di vista della legge, lui non aveva torto.

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• IL PORTO

Un porto è un luogo incantevole di soggiorno per un'anima stanca delle lotte della vita. L'ampiezza del cielo, l'architettura mobile delle nuvole, i colori cangianti del mare, il luccichio dei fari, sono un prisma meravigliosamente adatto a distrarre gli occhi senza mai stancarli. Le forme slanciate delle navi, con la loro complicata attrezzatura, alle quali l'onda imprime armoniose oscillazioni, servono a conservare nell'anima il gusto del ritmo e della bellezza. E poi, soprattutto, c'è una sorta di piacere misterioso e aristocratico, per colui che non ha più né curiosità né ambizione, nel contemplare, disteso sul belvedere o appoggiato sul molo, tutti quei movimenti di coloro che partono e di coloro che tornano, di coloro che hanno ancora la forza di volere, il desiderio di viaggiare o di arricchirsi.

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• RITRATTI DI AMANTI

In un boudoir per uomini, cioè in una saletta da fumo annessa ad un'elegante bisca, quattro uomini fumavano e bevevano. Non erano, precisamente, né giovani né vecchi, né belli né brutti; ma vecchi o giovani, portavano su di sé quella distinzione inconfondibile dei veterani della gioia, quell'indescrivibile non so che, quella tristezza fredda e beffarda che dichiara: «Noi abbiamo intensamente vissuto, e cerchiamo ciò che potremmo ancora amare e stimare».

Uno di loro fece cadere la conversazione sull'argomento donne. Sarebbe stato più filosofico non parlarne affatto; ma ci sono persone di spirito che, dopo aver bevuto, non disdegnano le conversazioni banali. Allora, si sta ad ascoltare chi parla come si ascolterebbe della musica da ballo.

«Tutti gli uomini», diceva costui, «hanno avuto l'età di Cherubino: è l'epoca in cui, in mancanza di driadi, si abbraccia senza disgusto il tronco delle querce. È il primo grado dell'amore. Al secondo grado, si comincia a scegliere. Poter deliberare è già una decadenza. È allora che si cerca decisamente la bellezza. Quanto a me, signori, mi onoro di essere arrivato da tempo nell'età climaterica del terzo grado, quando la stessa bellezza non basta più se non ha il condimento del profumo, dell'abbigliamento e altro. Confesserò inoltre che a volte aspiro come a una felicità sconosciuta, a una sorta di quarto grado che dovrebbe segnare la calma assoluta. Ma per tutta la mia vita, esclusa l'età di Cherubino, sono stato più sensibile di ogni altro alla snervante stupidità, alla mediocrità irritante delle donne. Ciò che amo soprattutto negli animali è il loro candore. Giudicate voi quanto deve avermi fatto soffrire la mia ultima amante.

«Era figlia bastarda di un principe. Bella, non c'è bisogno di dirlo; altrimenti perché me la sarei presa? Ma guastava questa grande qualità con un'ambizione sconveniente e deforme. Era una donna che voleva sempre fare l'uomo. "Voi non siete un uomo! Ah, se fossi un uomo! Di noi due, sono io che sono l'uomo!". Tali erano gli insopportabili ritornelli che uscivano da quella bocca da cui avrei voluto che prendessero il volo delle canzoni. Quando mi lasciavo sfuggire un moto di ammirazione per un libro, una poesia, un'opera, diceva subito: "Vi pare di trovarci qualcosa di molto forte? Ma che ne sapete voi della forza?", e non la finiva più.

«Un bel giorno si diede alla chimica; sicché fra la mia bocca e la sua ormai ci trovavo una maschera di vetro. E molto puritana, per giunta. Se per caso le stavo dietro con un gesto un po' troppo amoroso, si divincolava come una sensitiva violentata...

- E come è andata a finire? disse uno degli altri tre. Non vi conoscevo così paziente.

- Fu Dio a mettere nella malattia il suo rimedio. Un giorno trovai questa Minerva assetata di forza ideale in intimo colloquio col mio domestico, e in atteggiamento tale che fui costretto a ritirarmi con discrezione per non farli arrossire. Quella sera li congedai entrambi, versando loro gli arretrati della paga.

- Per quanto mi riguarda, riprese colui che lo aveva interrotto, non ho da lamentarmi che di me stesso. La felicità è venuta ad abitare a casa mia, e io non l'ho riconosciuta. Negli ultimi tempi il destino mi aveva concesso di godere di una donna che era davvero la più dolce, la più sottomessa, la più devota delle creature; e sempre pronta! e senza entusiasmo! "Per me va bene, se fa piacere a te". Era questa la sua risposta. Se vi metteste a bastonare questo muro o quel canapé, ne cavereste più sospiri di quanti ne cavavo io dal petto della mia amante con i più forsennati slanci amorosi. Dopo un anno di vita insieme, mi confessò di non aver mai conosciuto il piacere. Questa lotta impari mi venne a noia, e così l'incomparabile ragazza si sposò. Una volta mi venne la curiosità di rivederla, e lei, mostrandomi sei bei bambini, mi disse: "Sì, mio caro amico! La sposa di oggi è ancora vergine come lo era la vostra amante". In lei niente era cambiato. A volte la rimpiango: avrei dovuto sposarla».

Gli altri si misero a ridere, e il terzo disse a sua volta:

«Signori, ho conosciuto piaceri che probabilmente voi avete trascurato. Intendo il lato comico dell'amore, quel lato comico che non esclude affatto l'ammirazione. La mia ultima amante l'ho ammirata più di quanto, credo, voi siate stati capaci di odiare o amare le vostre. E tutti la ammiravano allo stesso modo. Quando entravamo in un ristorante, dopo pochi minuti tutti dimenticavano di mangiare per contemplarla. Perfino i camerieri e la cassiera erano presi in questa estasi contagiosa fino al punto da dimenticare il loro lavoro. Insomma, sono vissuto per un certo periodo in piena intimità con un vero fenomeno vivente. Mangiava, masticava, triturava, divorava, inghiottiva, ma nel modo più disinvolto e leggero del mondo. Così, mi ha fatto stare in estasi per parecchio tempo. Aveva una maniera dolce, sognante, inglese e romantica di dire: "Ho fame!". E ripeteva queste parole giorno e notte mostrando i denti più graziosi del mondo, capaci di intenerire e rallegrare nello stesso tempo. Avrei potuto fare la mia fortuna, se l'avessi mostrata nelle fiere come mostro polifago. La nutrivo bene, ma nonostante questo mi ha lasciato...

- Per un commerciante di generi alimentari, immagino...

- Qualcosa di simile: una specie di impiegato dell'intendenza, che con qualche stratagemma era in grado probabilmente di fornire a quella povera figlia le razioni di parecchi soldati. Fu questa comunque la mia ipotesi.

- Io invece, disse il quarto, ho sopportato sofferenze atroci per il motivo opposto, e non per quello che di solito si rimprovera all'egoismo femminile. Voi vi sbagliate proprio, fortunati mortali, a lamentarvi delle imperfezioni delle vostre amanti!».

La cosa fu detta in tono molto serio, da un uomo di aspetto posato e mite, la cui fisionomia aveva qualcosa di clericale ed era purtroppo illuminata da due occhi grigio chiari, da quegli occhi il cui sguardo dice: «Voglio!» oppure: «Si deve!» o ancora: «Io non perdono!».

«Voi, G., nervoso come vi conosco, e voi due K. e J., vili e volubili come siete, se vi foste messi insieme a una certa donna di mia conoscenza, sareste scappati o sareste morti. Io sono sopravvissuto, come vedete. Immaginate una persona incapace di commettere il più piccolo errore di sentimento o di calcolo; immaginate una desolante serenità di carattere; una devozione senza recite e senza enfasi; una dolcezza senza cedimenti; un'energia senza violenza. La storia del mio amore somiglia a un interminabile viaggio su una superficie pura e liscia come uno specchio, vertiginosamente monotona, in grado di riflettere tutti i miei sentimenti e i miei gesti con l'ironica esattezza della mia coscienza, in modo tale che non avrei potuto permettermi né un gesto né un sentimento irragionevole senza percepire immediatamente il muto rimprovero del mio spettro inseparabile. L'amore mi appariva come una tutela. Quante stupidaggini lei mi ha impedito di fare, che io rimpiango di non aver commesso! Quanti debiti pagati mio malgrado! Mi privava di tutti i benefici che avrei potuto ricavare dalla mia follia personale. Con una fredda e inderogabile regola, sbarrava la strada a tutti i miei capricci. Per colmo d'orrore, una volta passato il pericolo non esigeva nessuna riconoscenza. Quante volte mi sono trattenuto dal saltarle alla gola gridando: "Sii dunque imperfetta, miserabile! perché io possa amarti senza disagio e senza collera!". Per parecchi anni l'ho ammirata, con il cuore pieno di odio. Ma alla fine, non sono io a esserne morto!

- Ah, fecero gli altri, è morta, dunque!

- Sì! Non poteva continuare così. L'amore era diventato per me un incubo orribile. Come si dice in politica, vincere o morire: era questa l'alternativa che mi imponeva il destino! Una sera, in un bosco... sulla sponda di un fosso... dopo una malinconica passeggiata, mentre nei suoi occhi si rifletteva la dolcezza del cielo e io mi sentivo il cuore strozzato come un inferno...

- Che cosa?

- Come?

- Che volete dire?

- Era inevitabile. Ho un troppo forte senso dell'equità per poter picchiare, oltraggiare o licenziare un servitore irreprensibile come lei. Dovevo però conciliare questo sentimento con l'orrore che quell'essere mi ispirava: sbarazzarmi di questo essere senza mancargli di rispetto. Cosa volete che facessi di lei, dal momento che era perfetta?».

Gli altri tre compagni lo guardarono con uno sguardo incerto e vagamente ebete, come fingendo di non capire e come confessando implicitamente che loro non si sarebbero sentiti capaci, per quanto li riguardava, di un'azione così rigorosa, anche se, d'altronde, sufficientemente motivata.

Fecero poi portare altre bottiglie, per ammazzare il Tempo, che è così duro a morire, e per accelerare la Vita, che è così lenta a passare.

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• IL TIRATORE GALANTE

Mentre la carrozza attraversava il bosco, egli la fece fermare nei pressi di un tiro a segno, dicendo che gli sarebbe piaciuto sparare qualche colpo per ammazzare il Tempo. Ammazzare quel mostro non è forse l'occupazione più ordinaria e più legittima di ognuno? - Offrì galantemente la mano alla sua cara, deliziosa ed esecrabile donna, a quella misteriosa donna alla quale deve tanti piaceri, tanti dolori e forse anche gran parte del suo genio.

Parecchi proiettili colpirono lontano dal bersaglio prescelto; uno di essi andò a conficcarsi addirittura nella tettoia; e dato che l'affascinante creatura se la rideva pazzamente prendendo in giro l'imperizia del suo sposo, questi si girò bruscamente verso di lei e le disse: «Guarda quella bambola, laggiù a destra, col naso in aria e la faccia così arrogante. Ebbene, angelo mio, faccio come se quella fossi tu!». Chiuse gli occhi e premette il grilletto. La bambola fu decapitata di netto.

Allora, inchinandosi verso la sua cara, la sua deliziosa, la sua esecrabile moglie, la sua inevitabile e inesorabile Musa, e baciandole rispettosamente la mano, soggiunse: «Ah, angelo mio, come ti ringrazio della mia bravura!».

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• LA ZUPPA E LE NUVOLE

La mia piccola, pazza adorata mi stava dando il pranzo, e dalla finestra aperta io contemplavo le mobili architetture che Dio crea con i vapori, con le meravigliose costruzioni dell'impalpabile. E in quella contemplazione mi dicevo: « - Tutte queste fantasmagorie sono belle quasi quanto gli occhi della mia bella amata, del mio piccolo folle mostro dagli occhi verdi».

E all'improvviso ricevetti un violento pugno sulla schiena, e udii una voce incantevolmente roca, una voce isterica e come affiochita dall'acquavite, la voce della mia cara, piccola amata che diceva: «Sbrigati a mangiare la tua zuppa, maledetto mercante di nuvole che non sei altro!».

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• IL TIRO A SEGNO E IL CIMITERO

- Bellavista sul cimitero, osteria. - «Strana insegna», pensò il nostro vagabondo, «ma fatta apposta per far venire sete! C'è da scommettere che il padrone di questo locale è uno che apprezza Orazio e i poeti seguaci di Epicuro. Forse conosce anche la profonda raffinatezza degli antichi Egizi, per i quali non c'era banchetto che si rispettasse senza la presenza di uno scheletro o senza qualche emblema della brevità della vita».

Entrò, bevve un bicchiere di birra davanti alle tombe, e fumò lentamente un sigaro. Poi gli venne voglia di scendere nel cimitero, dove l'erba era così alta e invitante e dove regnava un sole così pieno.

Infatti, luce e calore imperversavano, e sembrava che il sole ubriaco si fosse sdraiato su un tappeto di magnifici fiori concimati dalla distruzione. Un immenso brusio di vita riempiva l'aria -, la vita dell'infinitamente piccolo -, interrotto a intervalli regolari dal crepitìo degli spari di un vicino tiro a segno, che scoppiavano come tappi di champagne sul sottofondo di una sinfonia in sordina.

Allora, sotto quel sole che gli scaldava il cervello e nell'atmosfera degli ardenti profumi della Morte, sentì una voce mormorare sotto la tomba su cui si era seduto. E questa voce diceva: «Maledetti i vostri bersagli e le vostre carabine, rumorosi viventi che vi preoccupate così poco dei defunti e del loro divino riposo! Maledette le vostre ambizioni, maledetti i vostri calcoli, impazienti mortali che venite a studiare l'arte di uccidere nei pressi del santuario della Morte! Se sapeste come è facile vin cere il premio, come è facile colpire il bersaglio, e come tutto è niente, tranne la Morte, non vi affannereste tanto, o laboriosi viventi, e turbereste meno spesso il sonno di coloro che da tempo hanno fatto Centro, il solo vero centro della detestabile vita!».

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• L'AUREOLA PERDUTA

«Come! voi qui, mio caro? Voi in questo brutto posto? Voi, il bevitore di quintessenze! Voi, il mangiatore di ambrosia! C'è invero di che restare sorpresi.

- Mio caro, sapete bene quanto mi terrorizzino le carrozze e i cavalli. Poco fa, mentre attraversavo il viale in tutta fretta saltellando in mezzo al fango, in quel caos in movimento dove la morte arriva al galoppo da tutte le parti nello stesso tempo, per un gesto brusco l'aureola mi è scivolata dalla testa nel fango del lastrico. Non ho avuto il coraggio di raccattarla. Giudicai meno sgradevole perdere le mie insegne che farmi rompere le ossa. E poi, mi dissi, la disgrazia serve sempre a qualcosa. Ora posso andarmene in giro in incognito, compiere azioni basse, darmi ai bagordi come i comuni mortali. Ed eccomi in tutto simile a voi, come vedete!

- Dovreste almeno pubblicare un annuncio della perdita dell'aureola, o fare denuncia al commissariato.

- Proprio no! Mi trovo bene, qui. Solo voi mi avete riconosciuto. D'altronde la dignità mi disturba. E poi penso che qualche cattivo poeta la raccatterà e se la metterà in testa spudoratamente. Che piacere far felice qualcuno! Soprattutto qualcuno la cui felicità mi farà ridere! Pensate a X, o a Z! Ah, sarà davvero divertente!».

***************

• LA SIGNORINA BISTURI

Appena arrivai ai limiti del sobborgo, sotto il chiarore della luce a gas, sentii un braccio che si insinuava dolcemente sotto il mio, e udii una voce che mi diceva all'orecchio: «Siete medico, signore?».

Guardai; era una ragazza alta, robusta, con gli occhi spalancati, leggermente truccata, i capelli ondeggianti al vento con i nastri del cappellino.

« - No, non sono medico. Lasciatemi passare. - Oh, sì! Voi siete medico. Lo vedo bene. Venite da me. Resterete molto contento di me, andiamo!

- Certo, verrò a trovarvi, ma più tardi, dopo il medico, che diavolo...!

- Ah! ah! - fece lei, sempre aggrappata al mio braccio, e scoppiando a ridere, - siete un medico scherzoso, ne ho conosciuti molti così. Su andiamo».

Amo appassionatamente il mistero, perché ho sempre la speranza di svelarlo. Mi lasciai perciò trascinare da questa compagna, o meglio da questo enigma insperato.

Tralascio la descrizione del tugurio: la si può trovare in numerosi vecchi poeti francesi ben noti. Soltanto, dettaglio trascurato da Régnier, c'erano due o tre ritratti di celebri dottori appesi alle pareti.

Come fui coccolato! Un bel focolare, vino caldo, sigari; e offrendomi queste buone cose, e accendendomi lei stessa un sigaro, questa buffa creatura mi diceva: «Fate come se foste a casa vostra, amico mio, mettetevi a vostro agio. Così vi ricorderete dell'ospedale e dei bei tempi della giovinezza. Ma guarda! Dove vi siete presi questi capelli bianchi? Non eravate così appena qualche tempo fa, quando eravate l'aiuto di L... Ricordo che lo assistevate nelle operazioni più gravi. Era proprio un uomo a cui piace tagliare, mozzare, rifilare! E voi che gli passavate gli strumenti, i fili e le spugne. - E appena finita l'operazione, diceva tutto fiero, guardando l'orologio: "Cinque minuti, signori!". - Oh, io vado dappertutto. Conosco bene questi Signori».

Qualche istante più tardi, dandomi del tu, ricominciava con la stessa solfa, e mi diceva: «Sei medico, non è vero, gattino mio?».

Questo incomprensibile ritornello mi fece saltare in piedi. «No! urlai furibondo.

- Chirurgo allora?

- No! No! A meno che non lo diventi per spaccarti la testa! Maledetto il santo ciborio della madre badessa!

- Aspetta, disse, e vedrai».

E tirò fuori dall'armadio un fascio di carte, che altro non era se non la collezione dei ritratti dei medici famosi di allora, litografie di Maurin che si sono viste esposte per parecchi anni sul quai Voltaire.

«Guarda! Lo riconosci questo?

- Sì! È X. C'è scritto sotto, anche; ma lo conosco personalmente.

- Eh, lo sapevo! Tieni, ecco Z., quello che nel suo corso, parlando di X, diceva: "Quel mostro che porta sulla faccia il nerume della sua anima!". E questo solo perché l'altro non la pensava come lui su una certa questione! Quanto se ne rideva a scuola, in quei tempi! Ti ricordi? - Guarda, ecco K., quello che denunciava al governo gli insorti che curava nel suo ospedale. Era l'epoca delle sommosse. Come è possibile che un così bell'uomo abbia così poco cuore? - E ora guarda W., famoso medico inglese; l'ho acchiappato quando venne a Parigi. Sembra una signorina, non è vero?».

E dato che avevo toccato un pacchetto legato, che pure si trovava sul tavolinetto: «Aspetta un momento, disse; - questi sono i medici interni, e quel pacchetto sono gli esterni».

E aprì come un ventaglio tutto un mucchio di fotografie, con delle facce molto più giovani.

«Quando ci rivedremo, mi darai il tuo ritratto, è vero, caro?

- Ma, le dissi a mia volta, seguendo anch'io la mia idea fissa, - perché credi che io sia un medico?

- È perché sei così gentile e così buono con le donne!

- Strana logica, dissi fra me.

- Ah, io non mi sbaglio quasi mai; ne ho conosciuti tanti. Amo a tal punto questi signori che a volte vado da loro tanto per vederli, anche se non sono malata. Ce ne sono alcuni che mi dicono con freddezza: "Ma voi non siete affatto malata!". Ce ne sono però altri che mi capiscono, perché gli faccio un po' di moine.

- E quando non ti capiscono...?

- Be', dal momento che li ho disturbati inutilmente, lascio dieci franchi sul caminetto. - È gente così buona e dolce, quella! - Ho scoperto alla Pietà un "interno", piccolo di statura, bello come un angelo, e gentilissimo! E come lavora, povero ragazzo! I suoi compagni mi hanno detto che non ha un soldo, perché i suoi genitori sono poveri e non gli possono mandare niente. Questo mi ha incoraggiato. Dopotutto, sono piuttosto bella, anche se non giovanissima. Gli ho detto: "Vieni a trovarmi, vieni a trovarmi spesso. E con me non preoccuparti; non ho bisogno di denaro". Ma capirai che gliel'ho fatto intendere con le dovute maniere; non gliel'ho detto così, brutalmente; avevo paura di umiliarlo, povero ragazzo! - Ma lo sai? ho una voglia così pazza che non oso dirglielo. Vorrei che venisse a trovarmi con la borsa dei ferri e il camice bianco, magari un po' macchiato di sangue!».

Disse questo con l'espressione più candida, come un uomo sensibile direbbe a un'attrice che ama: «Vorrei vederti con indosso il costume che portavi quando interpretasti quella famosa parte!».

Io, ostinato, ricominciai: «Riesci a ricordarti del periodo e della circostanza in cui è nata in te questa passione così speciale?».

Fu difficile farmi capire; alla fine ci riuscii. Ma lei mi rispose con un'aria molto triste e, per quel che posso ricordare, perfino distogliendo lo sguardo: «Non lo so... Non me lo ricordo».

Quali bizzarrie non si trovano in una grande città, se si sa andare in giro e guardare! La vita brulica di mostri innocenti. - Signore, mio Dio! Voi Creatore, voi Padrone; voi da cui viene la Legge e la Libertà; voi, sovrano che lascia fare, voi, giudice che perdona; voi che siete pieno di motivi e di cause, e che forse avete messo nella mia mente il gusto dell'orrore per convertire il mio cuore, come la guarigione sulla punta di una lama; Signore, abbiate pietà dei pazzi e dei folli! O creatore! Possono forse esistere dei mostri agli occhi di Colui che è il solo a sapere perché esistono, come si sono fatti e come avrebbero potuto non farsi?

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• ANYWHERE OUT OF THE WORLD. DOVE CHE SIA FUORI DEL MONDO

La vita è un ospedale dove ogni malato è in preda al desiderio di cambiare letto. Questo qui vorrebbe soffrire davanti alla stufa, e quello là crede che guarirebbe accanto alla finestra.

A me sembra sempre che starei bene là dove non sono, e questa questione del traslocare è una di quelle che sto continuamente a dibattere con la mia anima.

«Dimmi, anima mia, povera anima infreddolita, che ne diresti di abitare a Lisbona? Lì deve fare caldo, e così potresti riprendere forza come una lucertola al sole. È una città in riva al mare; dicono che è tutta fatta di marmo, e che la gente ha un tale odio per la vegetazione che strappa via tutti gli alberi. È un paesaggio di tuo gusto; un paesaggio fatto di luce e di minerale, e dell'elemento liquido che li riflette!».

La mia anima non risponde.

«Se è vero che ami tanto il riposo unito allo spettacolo del movimento, perché non andare ad abitare in Olanda, in quella terra beatificante? È probabile che ti divertiresti in quella contrada di cui spesso hai ammirato l'immagine nei musei. Che ne diresti di Rotterdam, tu che ami le foreste di alberature, e le navi ormeggiate ai piedi delle case?».

La mia anima resta muta.

«Batavia forse ti sorriderebbe di più? È lì che troveremmo lo spirito dell'Europa sposato alla bellezza tropicale».

Non una parola. - Che sia morta, la mia anima?

«Sei dunque arrivata a un tale punto di torpore che ti compiaci solo del tuo male? Se è così, fuggiamo verso quei paesi che sono analogie della morte. - Ho capito quello che ci vuole, povera anima! Faremo i bagagli per Torneo. Andiamo ancora più lontano, all'estremo limite del Baltico; ancora più lontano dalla vita, se possibile; stabiliamoci al polo. Là il sole sfiora la terra solo obliquamente, e il lento alternarsi della luce e della notte sopprime la varietà e aumenta la monotonia, questa metà del nulla. Là potremo prendere dei lunghi bagni di tenebre, mentre, per divertirci, le aurore boreali ci manderanno di tanto in tanto i loro cesti di rose, come riflessi di un fuoco d'artificio dell'Inferno!».

Finalmente la mia anima esplode, e saggiamente mi grida: «Non importa dove! Non importa dove! Purché sia fuori di questo mondo!».

***************

• AMMAZZIAMO I POVERI!

Per quindici giorni mi ero segregato nella mia camera, e mi ero circondato di libri di moda in quel periodo (sedici o diciassette anni fa); voglio dire libri che trattano l'arte di rendere felici, saggi e ricchi i popoli in ventiquattr'ore. Avevo dunque digerito - ingoiato, voglio dire - tutte le elucubrazioni di tutti quegli impresari della felicità pubblica, di coloro che consigliano a tutti i poveri di farsi schiavi, e di coloro che li convincono di essere tutti dei re spodestati. Non sorprenderà il fatto che io mi trovassi allora in uno stato d'animo prossimo alla vertigine o alla stupidità.

Mi era soltanto sembrato di sentire, relegato nel fondo del mio intelletto, l'oscuro germe di un'idea superiore a tutte le formule da brava donna di cui avevo da poco sfogliato il repertorio. Ma non era che l'idea di un'idea, qualcosa di infinitamente vago.

Uscii con una gran sete. Appassionarsi troppo alle cattive letture fa nascere un bisogno altrettanto forte di aria aperta e di bevande fresche.

Stavo entrando in un locale, quando un mendicante mi tese il cappello con uno di quegli sguardi indimenticabili che farebbero cadere i re dai loro troni, se lo spirito potesse muovere la materia, e se l'occhio di un ipnotizzatore facesse maturare l'uva.

In quello stesso momento, sentii una voce che mi sussurrava all'orecchio, una voce che riconobbi immediatamente; era quella di un buon Angelo, o di un buon Demone, che mi accompagna dovunque. Se Socrate aveva il suo buon Demone, perché io non dovrei avere il mio buon Angelo? Perché non dovrei avere, come Socrate, l'onore di ottenere una patente di follia con la firma dell'acuto Lélut e dell'accorto Baillarger?

È questa la differenza fra il Demone di Socrate e il mio: che quello di Socrate gli si manifestava soltanto per proibire, avvertire, impedire; mentre il mio si degna di dare consigli, di suggerire e di persuadere. Il povero Socrate aveva solo un Demone proibitore; il mio è un grande affermatore, il mio è un Demone d'azione, o Demone di lotta.

Dunque la sua voce mi sussurrava questo: «È uguale a un altro soltanto colui che ne dà prova, ed è degno di libertà solo colui che sa conquistarla».

Immediatamente saltai addosso al mendicante. Con un solo pugno gli tappai un occhio, che in un momento gli diventò grosso come una palla. Mi spezzai un'unghia per rompergli due denti, e dato che non mi sentivo forte abbastanza, essendo nato delicato ed essendomi esercitato poco nella boxe, per accoppare rapidamente il vecchio lo agguantai con una mano per il bavero, e con l'altra lo afferrai alla gola e mi misi a sbattergli energicamente la testa contro un muro. Devo confessare che avevo preliminarmente ispezionato i dintorni dando un'occhiata, e mi ero accertato che in quella periferia deserta mi sarei trovato abbastanza a lungo fuori della portata dei poliziotti.

Avendo poi steso a terra l'infiacchito sessantenne con un calcio nella schiena tanto forte da rompergli le scapole, afferrai un grosso ramo che era lì per terra e lo picchiai con l'ostinata energia con cui i cuochi ammorbidiscono una bistecca.

Ad un tratto - ecco il miracolo! e la gioia del filosofo che verifica l'eccellenza della sua teoria! -, vidi quella vecchia carcassa girarsi, rialzarsi con un'energia che non avrei mai sospettato in una macchina così singolarmente sconquassata e, con uno sguardo di odio che mi parve di buon augurio, quel decrepito brigante si gettò su di me, mi pestò tutti e due gli occhi, mi ruppe quattro denti e, con lo stesso ramo, mi riempì di botte. - Con la mia energica cura gli avevo dunque restituito l'orgoglio e la vita.

Allora mi sforzai di fargli capire che consideravo chiusa la discussione, e rialzandomi con la soddisfazione di un sofista del Portico, gli dissi: «Signore, siete mio eguale! fatemi l'onore di dividere con me il mio portafoglio; e ricordatevi, se siete un vero filantropo, che bisogna applicare a tutti i vostri colleghi, quando vi chiederanno l'elemosina, la teoria che ho avuto il dolore di sperimentare sulle vostre spalle».

Mi ha giurato di aver capito molto bene la mia teoria, e che avrebbe messo in pratica i miei consigli.

******************

• I BUONI CANI

A Joseph Stevens

Neppure davanti ai giovani scrittori del mio secolo sono mai arrossito della mia ammirazione per Buffon; ma oggi non è lo spirito di questo pittore della natura pomposa che chiamerò in aiuto. No.

Molto più volentieri potrei rivolgermi a Sterne, dicendogli: «Scendi dal cielo o sali a me dai Campi Elisi, e ispirami, in favore dei buoni cani, dei poveri cani, un canto degno di te, sentimentale burlone, burlone incomparabile! Ritorna in groppa a quel famoso asino che sempre ti accompagna nella memoria dei posteri; e soprattutto fa' che questo asino non dimentichi di portare, delicatamente tenuto fra le labbra, il suo immortale amaretto!»

Vade retro, musa accademica! Non so che farmene di questa vecchia bigotta. Invoco la musa familiare, cittadina, vivente, perché mi aiuti a cantare i buoni cani, i poveri cani, i cani infangati, quelli che tutti scacciano come appestati e pidocchiosi, salvo il povero, a cui sono associati, e il poeta, che li guarda con occhio fraterno.

Il cane elegante e signorile non lo sopporto, questo fatuo quadrupede, come il danese, lo spaniel, il King-charles o il pechinese, così infatuato di sé da buttarsi senza discrezione fra le gambe o sulle ginocchia del visitatore, sicuro di piacere, turbolento come un bambino, sciocco e civettuolo, a volte ringhioso e insolente come un servo! Soprattutto non sopporto quei serpenti a quattro zampe, sfaccendati e svenevoli, che portano il nome di «levrierette» e che sul loro muso aguzzo non hanno neppure abbastanza fiuto per seguire la pista di un amico, né abbastanza intelligenza nella loro testa piatta per giocare a domino.

A cuccia, tutti questi noiosi parassiti!

Che se ne tornino alla loro cuccia di seta imbottita! Io canto il cane infangato, il cane senza domicilio, il cane flâneur, il cane saltimbanco, il cane il cui istinto, come quello del povero, dello zingaro e dell'istrione è reso meravigliosamente acuto dalla necessità, da questa brava madre, da questa vera protettrice dell'intelligenza!

Canto i cani sventurati; sia quelli che vagano solitari nei greti serpeggianti delle sconfinate città, sia quelli che all'uomo abbandonato da tutti, con profondi sguardi d'intesa, hanno detto: «Prendimi con te, e delle nostre due miserie faremo una specie di felicità!».

«Dove vanno i cani?» si chiedeva una volta Nestor Roqueplan in un immortale feuilleton di cui ha certo perso memoria, e di cui solo io, e forse Sainte-Beuve, ci ricordiamo ancora.

Dove vanno i cani?, vi chiederete voi, uomini poco attenti. Vanno per i fatti loro.

Appuntamenti d'affari, appuntamenti d'amore. Attraverso la nebbia, attraverso la neve e il fango, sotto il morso della canicola, sotto la pioggia scrosciante, vanno, vengono, trotterellano, passano sotto le carrozze, stimolati dalle pulci, dalla passione, dal bisogno o dal dovere. Come noi, si sono alzati di buon mattino, e si procurano da vivere o corrono ai loro piaceri.

Ce ne sono che vanno a dormire sotto qualche maceria della banlieue e che vengono, ogni giorno, a una certa ora, a reclamare l'elemosina alla porta di una cucina del Palais-Royal; altri accorrono a frotte, da più di cinque leghe, per dividere il pasto che ha preparato loro la carità di certe signorine sessantenni, il cui cuore disoccupato si è dato alle bestie, dal momento che quegli imbecilli degli uomini non ne vogliono più sapere.

Altri che, come schiavi in fuga, impazziti d'amore, lasciano, in certi giorni particolari, le loro province per venire in città a sgambettare per un'ora intorno a una bella cagna, un po' negligée nella sua toilette, ma fiera e riconoscente.

E sono puntualissimi, senza bisogno di agende, appunti e portafogli.

Forse conoscete anche voi il pigro Belgio, e avete ammirato come me tutti quei cani vigorosi che tirano la carretta del macellaio, della lattaia o del fornaio, e che testimoniano con il loro trionfale abbaiare dell'orgoglioso piacere che provano nel rivaleggiare con i cavalli.

Eccone due che appartengono a una categoria ancora più civilizzata! Permettetemi di introdurvi nella camera del saltimbanco assente. Un letto di legno dipinto, senza cortine, con le coperte che penzolano sul pavimento, infestate di cimici, due sedie impagliate, una stufa di ghisa, uno o due strumenti musicali sconquassati. Che triste mobilia! Ma guardate, vi prego, questi due personaggi intelligenti, vestiti di abiti logori e sontuosi, acconciati come trovatori o come militari, che sorvegliano con un'attenzione da stregoni l'opera senza nome che cuoce a fuoco lento sulla stufa accesa, e al centro della quale si drizza un lungo cucchiaio piantato lì come una di quelle pertiche alzate in aria che annunciano il compimento dei lavori edilizi.

Non è forse giusto che degli attori così pieni di zelo si mettano in cammino dopo aver ristorato il loro stomaco con una buona zuppa sostanziosa? E non perdonerete un po' di sensualità a questi poveri diavoli che devono affrontare tutti i giorni l'indifferenza del pubblico e le angherie di un direttore che si mette in tasca quasi tutto e che si mangia, lui da solo, più minestra di quattro attori?

Quante volte ho contemplato, sorridente e intenerito, tutti questi filosofi a quattro zampe, questi schiavi sottomessi, compiacenti e devoti, che il dizionario repubblicano potrebbe ben qualificare ufficiosi, se la repubblica, troppo preoccupata della felicità degli uomini, avesse il tempo di occuparsi dell'onore dei cani!

E quante volte ho pensato che forse c'era da qualche parte (è possibile, in fondo) una ricompensa a tanto coraggio, a tanta pazienza e fatica, uno speciale paradiso per i buoni cani, per i poveri cani, i cani sudici e desolati. Dopotutto Swedenborg afferma che ne esiste uno per i Turchi e uno per gli Olandesi!

I pastori di Virgilio e di Teocrito si aspettavano, come premio per i loro canti alternati, un bel formaggio, un flauto fatto dal miglior artigiano o una capra con le mammelle gonfie. Il poeta che ha cantato i poveri cani ha ricevuto in ricompensa un bel gilè dal colore ricco e sbiadito, che fa pensare al sole d'autunno, alla bellezza delle donne mature e alle estati di San Martino.

Nessuno di coloro che erano presenti nella taverna di via Villa Hermosa dimenticherà con quale esuberante insistenza il pittore si è spogliato del suo gilè in favore del poeta, tanto bene aveva compreso la bontà e l'onestà di cantare i poveri cani.

Così, un magnifico tiranno italiano del buon tempo andato, offriva al divino Aretino sia una daga con l'elsa tempestata di pietre preziose, sia un mantello da cortigiano, in cambio di un elegante sonetto o di uno stravagante poema satirico.

E ogni volta che il poeta indossa il gilè del pittore, è costretto a pensare ai buoni cani, ai cani filosofi, alle estati di San Martino e alla bellezza delle donne molto mature.

****************

EPILOGO

Con il cuore contento, sul colle son salito.
Di lì nella sua ampiezza contemplo la città:
Purgatorio, ospedale, galera, lupanare,
Dove fiorisce il fiore di ogni enormità.
Satana, tu lo sai, patrono del dolore,
Che là non me ne andavo a piangere per niente.
Come un vecchio vizioso con la sua vecchia amante,
Volevo ubriacarmi dell'enorme puttana
Che è infernale e seduce e ridà giovinezza.
Sia che tu dorma ancora, infame capitale,
Incimurrita e greve nel buio del mattino,
O che ti pavoneggi nei tuoi veli serali
Trapunti d'oro fino - io ti amo ugualmente!
Cortigiane e banditi, voi li offrite sovente
piaceri come questi, che il volgo non comprende.

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( Testo tratto da:
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