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Sito Letterario & Laboratorio di Scrittura Creativa di Monia Di Biagio.

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Vincenzo Cardarelli: Vita&Opere
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MessaggioInviato: Mer Ott 11, 2006 4:18 pm    Oggetto:  Vincenzo Cardarelli: Vita&Opere
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Vincenzo Cardarelli: Vita&Opere

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« Così la fanciullezza/ fa ruzzolare il mondo/ e il saggio non è che un fanciullo che si duole di essere cresciuto.»

(da Adolescente nelle Poesie)


Vincenzo Cardarelli Nazzareno (Corneto Tarquinia, 1 maggio 1887 – Roma, 18 giugno 1959) è stato un poeta e scrittore italiano. Visse nella povertà e nella solitudine e morì a settantadue anni ancora più povero e più solo.

MIO COMPAESANO:

"Io nacqui forestiero in Maremma, di padre marchigiano, e crebbi come un esiliato, assaporando con commozione tristezze e indefinibili nostalgie. Non mi ricordo la mia famiglia, né la casa dove son nato, esposta a mare, nel punto più alto del paese, buttata giù in una notte come dall'urto di un ciclone, quando io avevo due anni appena.

Sono venuto a conoscere mio padre un giorno che, nientedimeno, aveva sposato, e io soffiavo nel fornello a tutto andare, con una ventola nuova nuova. Ci fu un tempo ch'io vissi sotto la protezione d'un angelo custode e non ne ho altro ricordo se non che ero un ragazzo come tutti gli altri, curato, ben vestito e corretto con severità ed amore. Il destino, dopo avermi tolto la madre mi aveva regalato in compenso una matrigna, tutta d'oro, dal cuore alle mani. Me la aveva portata da lontano, parlava un dialetto settentrionale.

Tutta questa felicità durò poco, tre anni appena. Un dopo pranzo, che tornavo dalla scuola, passando davanti alla camera dove la mia cara madre giaceva malata e mentre son lì per entrare (ma già mi aveva sorpreso il lenzuolo che le avevano tirato fin sopra il capo) due braccia mi sollevarono e mi deposero nella camera accanto, dove una sorella della morta stava, in quel momento, levandosi di letto, dopo aver trascorso la notte vicino a lei. Erano quelle di mio padre.

Da allora la mia esistenza si complicò. I confini della mia famiglia si confusero e si dispersero. Non potendo badare a me, mio padre si vide costretto a collocarmi ora qui ora là, a dozzina. Conobbi altre case, dove fui accolto e trattato quasi in qualità di parente, attesa la mia facilità a familiarizzare. Il mondo mi allevò. [...]

Per farla corta, mio padre pretendeva che io diventassi nient'altro che un buon commerciante, alla sua maniera. Ecco la ragione vera per cui non volle che studiassi e fece, senz'accorgersene, la mia rovina. [...]
A sedici anni, cioè un anno avanti che mio padre morisse, ero già lontano da lui e dal mio paese. [...]

Per vivere, nei primi anni, dovetti fare i mestieri più vari: addetto a vigilare l'andamento delle sveglie in un deposito d'orologi; ammanuense nello studio d'un bisbetico avvocato piemontese e socialista; impiegato nella segreteria della Federazione metallurgica; contabile; infine giornalista."


****************

Indice [in questa pagina]:

1 Biografia
2 Opere principali
3 Ripresa della letteratura

**********

Biografia

Vincenzo Cardarelli nacque a Corneto Tarquinia, un piccolo paese di provincia, dove suo padre, marchigiano d'origine, gestiva il buffet della stazione ferroviaria e qui trascorse la sua infanzia e la sua adolescenza. Compì studi irregolari e si formò la propria cultura da autodidatta. All'età di 17 anni fuggì di casa e approdò a Roma dove, per vivere, fece i più svariati mestieri, fra i quali il correttore di bozze presso il quotidiano l'Avanti! . Sul foglio dell'Avanti!, del quale divenne redattore, ebbe inizio, nel 1906, la sua carriera giornalistica. Collaborò a Il Marzocco, "La Voce, Lirica,Il Resto del Carlino e dopo gli anni della guerra che aveva trascorso tra la Toscana, il Veneto e la Lombardia, rientrò a Roma e insieme ad un gruppo di intellettuali fondò la rivista La Ronda attraverso la quale espresse il suo programma di restaurazione classica.

La sua fama resta legata alle numerose poesie e prose autobiografiche di costume e di viaggio, raccolte in Prologhi (1916), Viaggi nel tempo (1920), Favole e memorie (1925), Il sole a picco (1929), Il cielo sulle città (1939), Lettere non spedite (1946), Villa Tarantola (1948).

Fu un conversatore brillante ed un letterato polemico e severo, avendo vissuto una vita vagabonda, solitaria e di austera e scontrosa dignità. Suoi maestri sono stati Baudelaire, Nietzsche, Leopardi, Pascal, i quali lo hanno portato ad esprimere le proprie passioni con un senso razionale, senza troppe esaltazioni spirituali. La sua è una poesia descrittiva lineare, legata a ricordi passati di qualunque tipo, siano paesaggi animali persone e stati d'animo, che vengono espressi con un uso di un linguaggio discorsivo e nello stesso tempo impetuoso e profondo.

Opere principali

-Narrativa e Poesia-

-Prologhi, Milano, 1916;
-Viaggi nel tempo, Firenze, 1920;
-Terra genitrice, Roma,1935;
-Favole e memorie, Milano, 1925;
-II sole a picco, Bologna, 1928; Premio Bagutta 1929
-Prologhi viaggi, favole, Lanciano, 1929;
-Giorni in piena, Roma, 1934;
-Poesie,Roma, 1936 ristampa accresciuta, Roma, 1942;
-Rimorsi,Roma, 1944;
-Lettere non spedite,Roma, 1946;
-Poesie nuove, Venezia, 1946;
-Solitario in Arcadia, Milano, 1947;
-Villa Tarantola, Milano, 1948;Premio Strega
Poesie, Milano, 1949;
-Invettiva ed altre poesie disperse, , Milano, 1964;
-Autunno, sei vecchio, rassegnati, a cura di C. Martìgnoni, Lecce, 1988;
-Opere complete, a cura di G. Raimondi, Milano, 1962;
-Opere, a cura di C. Martignoni, Milano, 1981.

****************

Prologhi: La lezione dei classici.

Dopo le inquietudini primo-novecentesche che in poesia si erano concretate soprattutto nelle esperienze in vario modo eversive dei crepuscolari, dell'avanguardia futurista, dei "vociani" oscillanti tra espressionismo e disadorno prosasticismo, alla fine della guerra si assiste a un generale "ritorno all'ordine", di cui la rivista «La Ronda» si fa l'interprete letteraria. E il ritorno alla lezione di decoro formale, di composto dominio delle passioni dei classici, che Vincenzo Cardarelli, teorico e direttore della rivista, auspica e realizza nella sua poesia.

II programma cardarelliano e rondesco è del resto quello di riportare la poesia e la prosa ai modi e ai livelli espressivi di alcuni "classici moderni" (Leopardi primo di tutti), di autori cioè che seppero essere moderni senza ripudiare del tutto la lezione di equilibrio, armonia, decoro formale dei classici antichi. L'aspirazione a una modernità che sappia usare strumenti espressivi perenni e toccare temi perenni è precisamente quanto si può evincere dalla lettura dei testi cardarelliani.

Ha scritto Sanguineti che «la poetica di Cardarelli è strettamente vincolata a un'idea, in parte leopardiana, di eloquenza ragionativa e discorsiva», e Cardarelli stesso lo dice a chiare lettere: «Che la mia poesia "discorra" non c'è dubbio. Anzi corre precipitosamente allo scopo, con un ritmo che non ammette divagazioni non concede indugi, quantunque non sempre in modo graduale e pacifico. Più spesso procede per giustapposizione di idee o di immagini, per rifrazione di un medesimo concetto che, accennato fin dalle prime sillabe, si svolge, se mi è permesso dirlo, come un tema musicale. È la mia maniera di esprimerlo. lo stesso intitolai le mie prime poesie I miei discorsi... Non per nulla in Dante, in Petrarca, in Leopardi, "ragionare" è sinonimo di poetare».

Non dunque la provocatoria babele linguistica del futurismo, non le tensioni espressionistiche, né le astrazioni o rarefazioni simbolistiche, non l'ostentazione commossa o disperata dell'io, né tanto meno l'ironia sul poeta e sulla poesia, né tutte le altre manifestazioni di integrale "modernità"; e neppure la scarnificazione della parola poetica ungarettiana, né il suo simbolismo "ermetico". Ma un discorso pacato, moraleggiante, riflessivo; un discorso rivelatore dell'io, certo, ma sobriamente, senza grida o eccessi di tensione; un discorso in cui l'esistenza e i sentimenti sono posti al vaglio della ragione; e descrizioni paesistiche precise, immagini nitide, da cui leopardianamente far scaturire la riflessione personale e morale (esemplare Settembre a Venezia). E, ancora, un linguaggio che ricerca, oltre al nitore e al giro di frase classicamente atteggiato, «l'esattezza definitoria» e che «esattamente all'opposto che in tanta lirica moderna, [...] non lascia margini sfocati di non detto» (Mengaldo).

Già il Contini, sulla medesima linea, aveva parlato per Cardarelli di «un'ispirazione che non consente ineffabilità», che mira cioè a dir tutto, ad esaurire le possibilità espressive del concetto o dell'immagine che costituisce il nucleo originario dell'ispirazione (di un'ispirazione che al critico in questione e ad altri è parsa spesso esile). In altri termini, dato un concetto o un'immagine, Cardarelli costruisce il componimento come un'ordinata ed eloquente variazione o espansione di questo, finché egli senta esaurita le possibilità espressive dell'idea che lo ha mosso. Si prenda ad esempio Estiva, uno dei componimenti più antichi (che qualcosa risente del D'Annunzio alcionico): un solo periodo, espansione del vocativo iniziale (Distesa estate), tramite quattro riprese adeguatamente variate dell'apposizione «stagione»; nel primo caso seguono quattro specificazioni (dei... dei... dei... dei...), nel secondo un attributo e un'ulteriore apposizione (la meno dolente... felicità), nel terzo due relative coordinate per asindeto (che cadi..., dai oro), nel quarto due relative coordinate per polisindeto (che porti... e sembri); le quattro occorrenze di stagione si dispongono simmetricamente (2 + 2) ad incorniciare la principale (nessuna... trabocca), che divide armonicamente il periodo e il componimento in due nuclei di nove versi ciascuno. E si noti ancora la scelta oculata e doviziosa degli aggettivi.

A proposito di questo componimento ha scritto il Pozzi: «Si tratta di una descrizione evocativa della stagione, di tono alto, fino ad una leggera fantasia allegorica, che ricorda molto la Nuda Aestas dannunziana. Solo che qui, in Cardarelli, il tono alcionico è come congelato, ghiacciato sotto lo spessore e la distanza di una memoria lontana, studiosamente meditata, letteraria. Della sensuosità dannunziana non vi è più nessuna traccia: irriconoscibili le agitazioni e i bramiti dello scomposto faunismo; la materia alcionica (quell'aria di felice, solare mito mediterraneo) è sì riconoscibile, ma depurata da una distanza aristocraticamente letteraria, raffreddata come in una vitrea trasparenza da acquario ("ci si risveglia come in un acquario"). È questo il risultato dell'aggettivazione cardarelliana, studiata, misurata e dosata».

***************

( Biografia tratta da Wikipedia, l'enciclopedia libera:
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Ultima modifica di Monia Di Biagio il Gio Set 06, 2007 7:53 pm, modificato 5 volte in totale
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MessaggioInviato: Mer Ott 11, 2006 4:18 pm    Oggetto: Adv






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MessaggioInviato: Mer Ott 11, 2006 4:30 pm    Oggetto:  Vincenzo Cardarelli: Opere
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Vincenzo Cardarelli: Opere

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"La speranza è nell'opera. Io sono un cinico a cui rimane per la sua fede questo al di là. Io sono un cinico che ha fede in quel che fa."

***************

(Tratte da Poesie, 1936-1942)

Attesa

Oggi che t'aspettavo
non sei venuta
e la tua assenza so quel che mi dice
la tua assenza che tumultuava
nel vuoto che hai lasciato
come una stella
dice che non vuoi amarmi
quale un estivo temporale s'annuncia
e poi s'allontana
così ti sei negata alla mia sete
l'amore sul nascere
ha di questi improvvisi pentimenti
silenziosamente ci siamo intesi
amore, amore
come sempre
vorrei coprirti di fiori
e d'insulti.

*************

Maternità

Vincenzo Cardarelli
Misera donna dal turgido seno,
tu non sei ricca d’altro
che del tuo latte.
E quanto ne hai prodigato,
nei giorni dell’estate ormai defunta,
al tuo florido bimbo.
Con inesausta vena lo nutrivi,
lieta di rifiorire
nel suo fiorire.
A ogni lieve frignare il petto usciva
libero e nudo con casto impudore.
Tu che non bella sei ti sentivi
sana e piacente nel gaio mistero:
il bimbo si formava,
madre e figliolo crescevate insieme.
Così è passata per te un ‘estate.
Ora il vento d’autunno ti mortifica.
Dolente è il tuo aspetto,
madre indifesa,
generatrice indigente,
finora così smemorata.
Che passa nel tuo pensiero?
E’ la malinconia dell’opera compiuta
o il nero corteo
di miserie e di mali
che s’avvicina, a far mesto il tuo viso?

*********************

FUGA

Brevi sono le forme
che il caos inquieto produce.

La vita è fiamma vinta.

Ogni cosa è costretta
in uno spazio imperioso.

Ascese immani s’appuntano
al vertice di un’ora
per ricadere dolorosamente
in una perduta impotenza.

Se poi ci si rialzerà,
non è certo.

A volte il destino divaga.

Attese di anni non bastano
a dar tempo di giungere a un momento.

E noi stringiamo la grazia
come una mano che si ritira.

**************

Ottobre

Un tempo, era d'estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori,
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all'autunno
dal colore che inebria,
amo la stanca stagione
che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
nulla più mi consola,
di quest'aria che odora
di mosto e di vino,
di questo vecchio sole ottobrino
che splende sulla vigne saccheggiate.

Sole d'autunno inatteso,
che splendi come in un di là,
con tenera perdizione
e vagabonda felicità,
tu ci trovi fiaccati,
vòlti al peggio e la morte nell'anima.
Ecco perché ci piaci,
vago sole superstite
che non sai dirci addio,
tornando ogni mattina
come un nuovo miracolo,
tanto più bello quanto più t'inoltri
e sei lì per spirare.
E di queste incredibili giornate
vai componendo la tua stagione
ch'è tutta una dolcissima agonia.

****************

Gabbiani

Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro,
in perpetuo volo.
La vita la sfioro com'essi l'acqua

ad acciuffare il cibo.
E come forse anch'essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.

(I gabbiani di Eugenio Montale:
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*************

Sopra una tomba

Tutto un inverno ho sofferto
pensando alla fradicia zolla
dove tu riposavi
in provvisoria fossa
ch’era il tuo purgatorio.
Piovose notti insonni
conobbero il mio rimorso.
E a te volavo, o madre,
cui non piacque la terra
per l’ultima dimora,
la terra faticosa,
la terra che patisti oltre la morte.
Ora esaudita, emersa
dal confuso elemento,
tu sei come redenta.
Non più l’informe grembo
travaglierà le tue spoglie.
Tu che vivente avesti incerto asilo,
sicuro loco avrai or che sei morta,
fin che l’umana pietà lo conceda.

************

Estiva

Estiva distesa estate
stagione dei densi climi
dei grandi mattini
dell'albe senza rumore
ci si risveglia come in un acquario
dei giorni identici,astrali
stagione la meno dolente
d'oscuramenti e di crisi
felicità degli spazi
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca
stagione estrema,che cadi
prostrata in riposi enormi
dai oro ai più vasti sogni
stagione che porti la luce
a distendere il tempo
di là dai confini del giorno
e sembri mettere a volte
nell'ordine che procede
qualche cadenza dell'indugio eterno.

***********

Adolescente

Adolescente: su te, vergine adolescente,
sta come un'ombra sacra.
nulla è più misterioso
e adorabile e proprio
della tua carne spogliata.
ma ti recludi nell'attenta veste
e abiti lontano
con la tua grazia
dove non sai chi ti raggiungerà.
certo non io. se ti veggo passare
a tanta regale distanza,
con la chioma sciolta
e tutta la persona astata,
la vertigine mi si porta via.
sei l'imporosa e liscia creatura
cui preme nel suo respiro
l'oscuro gaudio della carne che appena
sopporta la sua pienezza.
nel sangue, che ha diffusioni
di fiamma sulla tua faccia,
il cosmo fa le sue risa
come nell'occhio nero della rondine.
la tua pupilla è bruciata
dal sole che dentro vi sta.
la tua bocca è serrata.
non sanno le mani tue bianche
il sudore umiliante dei contatti.
e penso come il tuo corpo
difficoltoso e vago
fa disperare l'amore
nel cuor dell'uomo!
pure qualcuno ti disfiorerà,
bocca di sorgiva.
qualcuno che non lo saprà,
un pescatore di spugne,
avrà questa perla rara.

Gli sarà grazia e fortuna
il non averti cercata
e non sapere chi sei
e non poterti godere
con la sottile coscienza
che offende il geloso iddio.
oh sì, l'animale sarà
abbastanza ignaro
per non morire prima di toccarti.
e tutto è così.
tu anche non sai chi sei.
e prendere ti lascerai,
ma per vedere come il gioco è fatto,
per ridere un poco insieme.
come fiamma si perde nella luce,
al tocco della realtà
i misteri che tu prometti
si disciolgono in nulla.
inconsumata passerà
tanta gioia!
tu ti darai, tu ti perderai,
per il capriccio che non indovina
mai, col primo che ti piacerà.
ama il tempo lo scherzo
che lo seconda,
non il cauto volere che indugia.
così la fanciullezza
fa ruzzolare il mondo
e il saggio non è che un fanciullo
che si duole di essere cresciuto.

*************

Ballata

Ecco la casa ov’io vidi la luce
e la chiesa lì accanto,
dove fui battezzato.
Consolanti evidenze!
Qui antiche donne vivono,

mai sazie di ricordare.
E narrano una storia
ch’io so a memoria e non vorrei sapere.
Narrano la mia storia famigliare.
Dicono che una notte,
col cuore fasciato
di crudeltà e d’ira fredda,
un uomo fece guasto
senza pietà nei suoi affetti più sacri,
disperse una famiglia appena in fiore.
E la casa natale era al mattino
tranquilla e disertata
come se visitata
l’avessero le streghe.
Il tempo come un ciclone
spazzò da questi luoghi
le care immagini.
Di ciò che fu non rimane
che un tacito agitarsi
di memorie e di ombre.
Ma quelle voci ch’io dico
sono implacabili e vive.
Lamentose quale un funebre canto,
alla pietà l’invettiva alternando,
mi rammentano come, ancora in fasce,
m’abbia poco la sorte vezzeggiato.

**************

Passato

I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
e tu non sei più che un ricordo.
sei trapassata nella mia memoria.
ora sì, posso dire che
che m'appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
tutto finì, così rapito!
precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
dovevamo saperlo che l'amore
brucia la vita e fa volare il tempo.

************

Autunno

Già lo sentimmo venire
nel vento d'agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
ora passa e declina,
in quest'autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

**************

Ajace

Sempre obliasti, Ajace Telamonio,
ogni prudenza in guerra, ogni preghiera.
Mai non pensasti ad invocar l'aiuto
d'una benigna Dea
che ingigantir potesse le tue forse
o sottrati sollecita al nemico.
Non avevi una madre
da impietosir l'Olimpo al tuo destino,
discretissimo eroe.
E a te non fu dato
compiere imprese stupende e gratuite,
atterrar Marte od Ettore,
o d'Afrodite il mignolo ferire,
bensì il combattimento orrido, immane,
fra soverchianti avversari,
in giorni che non s'ama ricordare.
Ogni volte che Giove era crucciato
contro gli Achei,
a te scendere in campo,
degna prole di Sisifo,
rampollo di Titani.
Quando Marte furioso conduceva
le falangi troiane
ad incendiar le navi,
tu le salvasti e Teucro.
Eri la gran riserva
nel pericolo estremo,
la resistenza, il muro, la fortezza.
Ti accoglieva ogni sera
la disadorna tenda
senza profumi
nè amorose schiave.
Là, presso il mare,
dormivi un sonno animalmente duro.
Primo fra i tuoi,
fra quanti eroi convennero sotto Ilio
non secondo a nessuno.
Ma veramente solo
ed unico tu fosti
nella sventura.
Nessun Dio ti protesse,
niuna gloria t'arrise incontrastata,
ti fu solo di scorta il tuo valore,
o fante antico.
E i Greci ti negarono quel premio
a cui tu ambivi:
l'armi d'Achille. Un maestro d'inganni
te le strappò. Ma in mare
costui le perse. E il flutto pietoso,
il mutevole flutto, più sagace
dell'umano giudizio, più costante
della fortuna,
sul tuo tumulo alfine le depose.
Pace all'anima tua
infera, Ajace.

************

Incontro in circolare

Alta, bruna, fiancuta,
sotto un soprabito disadorno,
la bella ragazza confusa
nella misera folla
d’una vettura circolare interna,
pareva sorda a ogni affanno.
Ferma sul corridoio, un po’ appartata,
le sue gambe di statua
sostenevano gli urti
come solido ponte un fiume in piena.
Non gloria in lei spirava,
non frenesia di vita o giovinezza,
ma una decisa e forte indifferenza
luceva nei suoi occhi assorti e aguzzi.
Era di quelle
romane bellezze
che son rare anche a Roma,
dove mai non s’incontrano
senza un muto stupore.
Era un grande segreto
della vita di Roma
che m’appariva in luogo men propizio,
nella forma più degna.
Donde veniva, ove andava
la bella romana chiomata
di lucidi e ricci capelli?
Quale mestiere o cura attribuirle?
Spostandosi verso l’uscio
trovò qualcuno con cui discorrere
famigliarmente.
E mi volgeva le spalle
alte com’ali tese.
Al Colosseo discese leggermente,
scomparendo ai miei occhi, oimé, per sempre.

*****************

Passaggio notturno

Giace lassù la mia infanzia.
Lassù in quella collina
ch’io riveggo di notte,
passando in ferrovia,
segnata di vive luci.
Odor di stoppie bruciate
m’investe alla stazione.
Antico e sparso odore
simile a molte voci che mi chiamino.
Ma il treno fugge. Io vo non so dove.
M’è compagno un amico
che non si desta neppure.
Nessuno pensa o immagina
che cosa sia per me
questa materna terra ch’io sorvolo
come un ignoto, come un traditore.

*****************

Abbandono

Volata sei, fuggita
come una colomba
e ti sei persa là, verso oriente.
Ma son rimasti i luoghi che ti videro
e l’ore dei nostri incontri.
Ore deserte,
luoghi per me divenuti un sepolcro
a cui faccio la guardia.

*************

Nostalgia

Alto su rupe,
battuto dai venti,
un cimitero frondeggia:
cristiana oasi nel tartaro etrusco.
Là sotto è la fanciulla
bellissima dei Velcha,
che vive ancora nella tomba dell’Orco.
E’ il giaciglio gentile
della Pulzella
poco discosto.
Legioni di morti calarono
in quell’antica terra ove sperai
dormire un giorno e rimetter radici.
Oh poter seppellire
nella città silente
insiem con me la favola
di mia vita!
non esser più che una pietra corrosa,
un nome cancellato,
e riposar senza memoria in grembo
alla terra natia come se mai
me ne fossi scostato.
Ma nel sospiro estremo
sarò forse deluso.
Io morrò dove e quando
il fato vorrà.
Meglio forse al randagio
che lasciò il patrio asilo
cader per via conviene, esser disperso.
E resti all’ossa inappagate il fremito,
il desio del ritorno.

*************

Sopra una tomba

Tutto un inverno ho sofferto
pensando alla fradicia zolla
dove tu riposavi
in provvisoria fossa
ch'era il tuo purgatorio.
Piovose notti insonni
conobbero il mio rimorso.
E a te volavo, o madre,
cui non piacque la terra
per ultima dimora,
la terra faticosa,
la terra che patisti oltre la morte.
Ora esaudita, emersa
dal confuso elemento,
tu sei come redenta.
Non più l'informe grembo
travaglierà le tue spoglie.
Tu che vivente avesti incerto asilo,
sicuro loco avrai or che sei morta,
fin che l'umana pietà lo conceda.

***************

Alla morte

Morire sì,
non essere aggrediti dalla morte.
Morire persuasi
che un siffatto viaggio sia il migliore.
E in quell'ultimo istante essere allegri
come quando si contano i minuti
dell'orologio della stazione
e ognuno vale un secolo.
Poi che la morte è la sposa fedele
che subentra all'amante traditrice,
non vogliamo riceverla da intrusa,
né fuggire con lei.
Troppo volte partimmo
senza commiato!
Sul punto di varcare
in un attimo il tempo,
quando pur la memoria
di noi s'involerà,
lasciaci, o Morte, dire al mondo addio,
concedici ancora un indugio.
L'immane passo non sia
precipitoso.
Al pensier della morte repentina
il sangue mi si gela.
Morte non mi ghermire
ma da lontano annùnciati
e da amica mi prendi
come l'estrema delle mie abitudini.

************

Sera di Gavinana

Ecco la sera e spiove
sul toscano Appennino.

Con lo scender che fa le nubi a valle,
prese a lembi qua e là
come ragne fra gli alberi intricate,
si colorano i monti di viola.
Dolce vagare allora
per chi s'affanna il giorno
ed in se stesso, incredulo, si torce.
Viene dai borghi, qui sotto, in faccende,
un vociar lieto e folto in cui si sente
il giorno che declina
e il riposo imminente.
Vi si mischia il pulsare, il batter secco
ed alto del camion sullo stradone
bianco che varca i monti.
E tutto quanto a sera,
grilli, campane, fonti,
fa concerto e preghiera,
trema nell'aria sgombra.
Ma come più rifulge,
nell'ora che non ha un'altra luce,
il manto dei tuoi fianchi ampi, Appennino.
Sui tuoi prati che salgono a gironi,
questo liquido verde, che rispunta
fra gl'inganni del sole ad ogni acquata,
al vento trascolora, e mi rapisce,
per l'inquieto cammino,
sì che teneramente fa star muta
l'anima vagabonda.

**************

Autunno veneziano

L'alito freddo e umido m'assale
di Venezia autunnale,
Adesso che l'estate,
sudaticcia e sciroccosa,
d'incanto se n'è andata,
una rigida luna settembrina
risplende, piena di funesti presagi,
sulla città d'acque e di pietre
che rivela il suo volto di medusa
contagiosa e malefica.
Morto è il silenzio dei canali fetidi,
sotto la luna acquosa,
in ciascuno dei quali
par che dorma il cadavere d'Ofelia:
tombe sparse di fiori
marci e d'altre immondizie vegetali,
dove passa sciacquando
il fantasma del gondoliere.
O notti veneziane,
senza canto di galli,
senza voci di fontane,
tetre notti lagunari
cui nessun tenero bisbiglio anima,
case torve, gelose,
a picco sui canali,
dormenti senza respiro,
io v'ho sul cuore adesso più che mai.
Qui non i venti impetuosi e funebri
del settembre montanino,
non odor di vendemmia, non lavacri
di piogge lacrimose,
non fragore di foglie che cadono.
Un ciuffo d'erba che ingiallisce e muore
su un davanzale
è tutto l'autunno veneziano.

Così a Venezia le stagioni delirano.

Pei suoi campi di marmo e i suoi canali
non son che luci smarrite,
luci che sognano la buona terra
odorosa e fruttifera.
Solo il naufragio invernale conviene
a questa città che non vive,
che non fiorisce,
se non quale una nave in fondo al mare.

(Ed. Mondadori, Milano, 1949)

****************

Da Parliamo dell'Italia

-La cultura italiana e "La Ronda"-

...La pericolosa originalità di questa nuova Italia consiste nell'aver rotto i ponti coi tempi che immediatamente ci precedono. Si andrà ancora avanti e si vedrà ch'essa è nata per ristabilire il corso della sua storia reale, della sua storia antica, interrotto circa un secolo fa da quelle che si chiamavano fino a ieri con tutta pompa le tradizioni liberali del Risorgimento.

Quanto a noi, letterati e classicisti, allorché diciamo senso della tradizione e ritorno all'antico non vogliamo già intendere accademismo e filologia, nel qual caso non si capirebbe perché avremmo dovuto tanto scalmanarci, dal momento che in Italia non s'è fatto mai altro. La filologia è una scienza che tutti possono imparare, ma che non può dare il gusto a chi non ne ha, giacché, tutti possono imparare, ma che non può dare il gusto a chi non ne ha, giacché, osserva Cervantes nel Dialogo dei cani, se bastasse il latino per non essere idiota, non ci dovevano essere idioti tra i latini; nel qual senso invece è naturale ed è creativo e pochi sono in grado di capirlo, non ché di possederlo.

Ma neppure ci lasciamo illudere da quel presunto rinnovamento filosofico che è l'ultimo ritrovato di una cultura la quale ha perso il ricordo della propria originalità storica, quando non addirittura un fenomeno d'impudente ciarlataneria, e crede poter supplire con delle astrazioni a un profondo difetto di costume. Questo è quel che è. Esiste o non esiste. La filosofia non può abbatterlo, se non quando è già morto. Non lo può creare, se non a patto di obliarsi come filosofia e convertirsi in attività pratica e positiva, la qual cosa implica discrezione, sentimento e conoscenza dei limiti che una determinata storia formalmente propone. Onde noi stimiamo di esser buoni filosofi concludendo che l'Italia di oggi non ha bisogno di filosofi, non ha bisogno di predicatori, e neppure di critici, ma di scrittori e di artisti. (...)

Dovevamo venire noi de "La Ronda", a rinfrescar la memoria agl'italiani, collo Zibaldone alla mano. Non l'avessimo mai fatto! Il chiasso esageratissimo sorto intorno ad un avvenimento che andava accolto solo con un po' di intelligenza e discrezione, riconoscendo che su Leopardi si potevano ancora dire cose nuove, che nell'opera sua c'era ancora qualche lato ignoto o mal noto da scoprire, senza tornare per questo a far del leopardismo scolastico o filosofico (ciò che purtroppo è avvenuto) dimostra forse come Leopardi, attraverso i nostri indegni suggerimenti, abbia còlto la giovane letteratura italiana al tutto sprovvista di ogni capacità di comprensione o di reazione seria (...)

Capire Leopardi significa capire la tradizione e la modernità ad un tempo.
Ma noi siamo egualmente lontani dall'una e dall'altra... Aver contribuito a diffondere la conoscenza dello Zibaldone, è motivo, per noi de "La Ronda", di non piccolo orgoglio. Poiché ho idea che nell'opera critica e storica di Leopardi sia definita per sempre la grande Italia spirituale che tanto si vagheggia e nella quale io credo al punto che, senza di essa, non riesco ad immaginare nessun'altra forma d'impero.

(ed. Vallecchi, Firenze, 1931- Vincenzo Cardarelli)

**************

Distacco

Io ti sento tacere da lontano.
Odo nel mio silenzio il tuo silenzio.
Di giorno in giorno assisto
all'opera che il tempo,
complice mio solerte, va compiendo.
E già quello che ieri era presente
divien passato e quello che ci pareva
incredibile accade.
Io e te ci separiamo.
Tu che fosti per più che una sposa!
Tu che volevi entrare
nella mia vita, impavida,
come in inferno un angelo
e ne fosti scacciata.
Ora che t'ho lasciata,
in vita mi rimane
quale un'indegna, un'inutile soma,
di non poterne avere più alcun bene.

****************

Homo sum

Io pago tutto.
Non c'è peccato
ch'io non abbia finora
debitamente scontato.
Ho un organismo vitale
che vuole, contrariamente
al Diavolo di Goethe,
vuole il Bene e fa il Male.
Pensate quale puntualità
e che liste di conti da saldare.
Ai messi del Signore
l'uscio della mia casa è sempre aperto.
E spesso delle loro intimazioni,
prevenendole,
io stesso senz'attenderli
mi faccio esecutore.
Sì che quand'essi giungono
ritto sull'uscio li fermo
e li rimando dicendo:
Amici, sono anch'io
cursore e complice di Dio.
Che dunque venite a fare
se il debito è già pagato?
Forse è perciò che una donna cattiva
suole dire celiando
ch'io sono un santo e innanzi di morire
farò miracoli.
talvolta infatti io mi vedo come uno
di quei poveri santi
che sulle tele delle sacrestie
stanno in adorazione della Vergine,
inutilmente aspettando
un suo sguardo.
Ma vi dico, in verità,
che volentieri darei, se pur l'avessi,
una tanto gloriosa vocazione
per un poco d'allegra umanità.

******************

Settembre a Venezia

Già di settembre imbrunano
a Venezia i crepuscoli precoci
e di gramaglie vestono le pietre.
Dardeggia il sole l'ultimo suo raggio
sugli ori dei mosaici ed accende
fuochi di paglia, effimera bellezza.
E cheta, dietro le Procuratìe,
sorge intanto la luna.
Luci festive ed argentate ridono,
van discorrendo trepide e lontane
nell'aria fredda e bruna.
Io le guardo ammaliato.
Forse più tardi mi ricorderò
di queste grandi sere
che son leste a venire,
e più belle, più vive le lor luci,
che ora un po' mi disperano
(sempre da me così fuori e distanti!)
torneranno a brillare
nella mia fantasia.
E sarà vera e calma
felicità la mia.

****************

Genitori

Io devo al grembo che m'ha partorito
il temerario amore per la vita
che m'ha tanto tradito.
Poi che nacqui da un sangue
ben fervido e gioviale.
Io nacqui da una donna che cantava
nel rimettere in ordine la casa
e, madre più trionfante che amorosa,
soleva in braccio portarmi con gloria.
Ora, ebbi un padre severo
come un santo orgoglioso.
E furon questi i due forti avversari
che m'hanno generato.

**************

Idillio

Per una stradetta ombreggiata
fra due muri di pietre rugginose
da cui spuntavano pampini
soleggiati,
vidi un giorno, in Liguria,
(oh incontro inatteso!)
una giovane contadina
ritta sul limite del suo vigneto.
Era la via romita,
l'ora estuosa.
Mi guardò, mi sorrise,
la villanella.
Ed io le dissi, accostandomi,
parole che udivo salire
dal sangue,
da tutto il mio essere, in lode
di sua bellezza.
Sotto il rossore del volto imperlato
dall'interrotta fatica
la bocca sua rideva luminosa.
Era scalza. Una scaglia
d'argilla dorata
rivestiva i suoi piedi usi ai diurni
lavacri della fonte.
Gli occhi, infocati e lustri,
di gioventù brillavano,
solare e profonda.
E dietro a lei, così terrosa e splendida,
l'ombre cognite e fide
della domestica vite
parevan vigilarla.
Tutto era pace intorno
e silenzio agreste.

***************

Santi del mio paese

Ce ne sono di chiese e di chiesuole,
al mio paese, quante se ne vuole!
E santi che dai loro tabernacoli
son sempre fuori a compiere miracoli.
Santi alla buona, santi famigliari,
non stanno inoperosi sugli altari.
E chi ha cara la subbia, chi la pialla,
chi guarda il focolare e chi la stalla,
chi col maltempo, di prima mattina,
comanda ai venti, alla pioggia, alla brina,
chi, fra cotanti e così vari stati,
ha cura dei mariti disgraziati.
Io non so se di me qualcuno ha cura,
che nacqui all'ombra delle antiche mura.
Vien San Martino che piove e c'è il sole,
vedi le vecchie che fanno all'amore.
Rustico è San Martin, prospero, antico,
e dell'invidia natural nemico.
Caccia di dosso il malocchio al bambino,
dà salute e abbondanza San Martino.
Sol che si nomini porta fortuna
e fa che abbiamo sempre buona luna.
Invocalo, se vuoi vita beata,
in ogni ora della tua giornata.
Vien Sant'Antonio, ammazzano il maiale.
Col solicello è entrato carnevale.
L'uomo è nel sacco, il sorcio al pignattino,
corron gli asini il palio e brilla il vino.
Viene, dopo il gran porcaro,
San Giuseppe frittellaro,
San Pancrazio suppliziato,
San Giovanni Decollato.
E San Marco a venire non si sforza,
che fece nascer le ciliege a forza.
E San Francesco, giullare di Dio,
è pure un santo del paese mio.
Ce ne sono di santi al mio paese
per cui si fanno feste, onori e spese!
Hanno tutti un lumino e ognuno ha un giorno
di gloria, con il popolino intorno.

****************

Febbraio

Febbraio è sbarazzino.
Non ha i riposi del grande inverno,
ha le punzecchiature,
i dispetti
di primavera che nasce.
Dalla bora di febbraio
requie non aspettare.
Questo mese è un ragazzo
fastidioso, irritante
che mette a soqquadro la casa,
rimuove il sangue, annuncia il folle marzo
periglioso e mutante.

*****************

Liguria

E' la Liguria una terra leggiadra.
Il sasso ardente, l'argilla pulita,
s'avvivano di pampini al sole.
E' gigante l'ulivo. A primavera
appar dovunque la mimosa effimera.
Ombra e sole s'alternano
per quelle fondi valli
che si celano al mare,
per le vie lastricate
che vanno in su, fra i campi di rose,
pozzi e terre spaccate,
costeggiando poderi e vigne chiuse.
In quell'arida terra il sole striscia
sulle pietre come un serpe.
Il mare in certi giorni
è un giardino fiorito.
reca messaggi il vento.
Venere torna a nascere
ai soffi del maestrale.
O chiese di Liguria, come navi
disposte a esser varate!
O aperti ai venti e all'onde
liguri cimiteri!
Una rosea tristezza vi colora
quando di sera, simile ad un fiore
che marcisce, la grande luce
si va sfacendo e muore.

***************

Sardegna

Sul languido cielo s'incidono,
Sardegna, i tuoi monti di ferro.
Cielo velato
come da un polline
malsano, che a guardarlo ci si strugge.
Malinconica Circe,
è con questo richiamo
che trattieni il partente,
presso il Limbara nostalgico.
Ed è così che il sardo
mai tradirà la sua terra fedele.

Quando il cisto più odora
e per le vie marine,
messaggio della vita misteriosa
che in te si cela,
s'avvicina fidente la pernice,
io percorsi, o Sardegna, le tue strade
saline di Gallura,
la terra d'Orosei, bianca, africana,
la Barbagia granitica e selvosa,
l'Ogliastra rossa,
ed oltre il campidano, le cui donne
hanno seni di pietra,
mi spinsi a Teulada
ove il daino saltellava
sui gradini della casa ospitale.
Sostai fra gli ombrosi
aranceti di Milis. Risalii
l'altipiano ventoso, verso Mandas,
in compagnia d'un canto di soldato,
unica medicina
a tanta malinconia.
E sul corso d'un fiume assiduo e lieto
mi ritrovai fra la tua fiera gente
barbaricina,
che giù dal Gennargentu,
dove fra il bianco granito frondeggiano
le querce e l'elce nera,
calava un tempo
alla pianura fertile e fangosa.
Così dal monte al piano
m'avventurai, per folti paradisi
di selvaggina
e terre così sole che a percorrerle
qualunque cavalcante è paladino.
Ti conobbi dovunque,
isola ardente e varia,
coi tuoi costumi, i tuoi canti ieratici.
E già l'estate lungo gli arsi greti
sbiancava l'oleandro,
persistendo sui monti
un colore indicibile
di primavera isolana.
E sul tuo suolo vergine affioravano
qua e là, sollecite,
le prime, rudi reliquie dell'uomo
che ti fan grave e cupa in tanta luce.
Favoloso viaggio
ch'io rifeci in un attimo,
allontanandomi nella sera,
mentre ormai più non eri
che un cielo sognante
all'orlo d'una montagna.
Terra di vini forti,
patria di antichi pastori
e di donne calde,
fior del Mediterraneo,
fiorito al tempo che tutto era chiuso
nel nostro mare,
tu porti in te il profumo
d'un secolo cortese e venturoso.
Lo sentii nella grazia
del tuo linguaggio,
nei venti che respiri.
E vidi Pisa,
là dove a un tratto sull'alpestre cima
due vecchie mura castellane, orrende,
rammentano il conte Ugolino.
Ma dimmi tu qual nome, se non Roma,
fa lampeggiare l'occhio
del tuo pastore.

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Ultima modifica di Monia Di Biagio il Gio Set 06, 2007 8:00 pm, modificato 5 volte in totale
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MessaggioInviato: Gio Set 06, 2007 6:56 pm    Oggetto:  Vincenzo Cardarelli: lo stile come necessità assoluta.
Descrizione:
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Vincenzo Cardarelli: lo stile come necessità assoluta.

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1920: da sinistra Vincenzo Cardarelli, Massimo Bontempelli, Alberto Savinio.

Ritratto

Esiste una bocca scolpita,
un volto d'angiolo chiaro e ambiguo,
un'opulenta creatura pallida
dai denti di perla,
dal passo spedito,
esiste il suo sorriso,
aereo, dubbio, lampante,
come un indicibile evento di luce.


Vincenzo Cardarelli

****************

Lo stile come necessità assoluta

Vincenzo Cardarelli è l'autore di una sola opera: il suo stile.

Infatti nell'opera di Cardarelli non è possibile isolare uno scritto conferendogli un valore rappresentativo e non è neppure possibile definirlo un poeta o un prosatore senza frantumare l'unità interna che cementa tutta la sua produzione letteraria.

Tale unità è il suo stile. D'altra parte è anche vero che non vi può essere creazione letteraria senza uno stile e che lo stile non deve essere confuso con il concetto retorico dello «scrivere bene» e della «bella forma». Si potrebbe dire la stessa cosa per ogni scrittore autentico e ancor più per Cardarelli perché il suo stile diventa la sostanza stessa della sua opera.

Tutto ciò appare ancor più evidente per il fatto che non lo possiamo catalogare in nessuna delle categorie letterarie tradizionali: poeta, prosatore, narratore, moralista, e via dicendo.

Cardarelli riesce a sottrarsi ad ogni definizione proprio perché ha cercato volutamente di non essere né l'uno né gli altri, per non rinunciare a fare dello «stile una necessità assoluta». Lo stile, per Vincenzo Cardarelli, è «qualche cosa di obbligatorio, si presenta come un'imposizione» e lo scrittore non può far altro che affidarsi allo stile perché «è un fatto naturale ed ereditario come il carattere. Non è possibile modificarlo e neppure sfuggirgli. Esso ci dà la misura di quello che siamo, delle nostre qualità, dei nostri limiti e dei nostri difetti. Lo stile è una dote rarissima e che ha valore per se stessa. Giacché lo stile è sinonimo di personalità, non di altro».

In Cardarelli lo stile diventa uno strumento per realizzare la conoscenza e la conquista del mondo reale ed è come una presa di possesso di se stesso e della sua personalità: non un vago esercizio ma un punto di partenza e, nello stesso tempo, d'arrivo.

Come autodidatta vaga per tutti i campi della cultura, cercando di apprendere il maggior numero possibile di cose, di colmare i vuoti interiori, di allargare all'infinito l'orizzonte intellettuale.

Si sente simile ad un gabbiano, sballottato da un luogo all'altro, preso nel vortice di un perpetuo volo e questa sensazione di eterna mobilità, questo continuo vagabondare è sentito profondamente dal poeta che non riesce a capire dove poter trovare pace in un mondo che non gli prospetta mai nulla di certo.

Questo suo errabondare, senza mèta e senza fine, a volte regala un senso di ebbrezza ma in fondo fa invidiare coloro che trovano, in un determinato luogo, la pace, la quiete. Alla fine di questo tumultuoso viaggio, Cardarelli riscopre Tarquinia, ritrova se stesso, il suo equilibrio come uomo e come scrittore. Dopo le turbolenze dei distacchi e delle rotture, si rasserena e si ripiega su se stesso, rivive la memoria del passato, i ricordi e le sensazioni dell'infanzia: i ricordi sono «fantasmi agitati da un vento funebre» e trasformano la vita in un «cimitero di memorie». Il poeta con il suo ritorno a Tarquinia sceglie la strada più ardua e più dolorosa ma il suo traguardo è la conquista di uno stile tutto suo, personale, autentico.

Una scelta moralmente doverosa e stilisticamente necessaria. Ecco allora che la sua pena di uomo si placherà nel momento in cui riuscirà ad essere più personale ed autentico come scrittore.

A tale riguardo è ovvio che lo stile assoluto è un sogno, una chimera e nessuno scrittore riesce a sottrarsi completamente alle influenze di un movimento letterario o di altri autori. Anche Cardarelli non sfugge a tale destino anche se cercherà con tutte le sue forze di avvicinarsi il più possibile a tale mèta.

Non è un caso che alla sua morte segue un periodo di dimenticanza durato alcuni anni ma possiamo affermare con sicurezza che Cardarelli, pur con tutti i suoi limiti, ha segnato la letteratura italiana nella prima metà del secolo costituendo un punto d'incontro tra la tradizione e l'ordine letterario, lo spirito di novità e di ricerca. Con la sua opera ha conservato le radici del fertile terreno della cultura nazionale pur dimostrandosi moderno e nuovo, riuscendo a raggiungere un punto d'equilibrio per ricercare il quale ha subordinato ogni altra ambizione ed ogni ricerca di un successo facile quanto effimero.

*******************

La Critica

Giuseppe De Robertis ricorda il suo incontro con Cardarelli ed «il modo come diceva le parole, scandendole, e col dito levato, quasi ad avvertire che a dirle così c'entrava un po' la gloria d'averle scoperte, oltre il piacere di pronunciarle brillanti di un'aria nuova, e tutte viventi. Una novità dunque accompagnata ogni volta da una dimostrazione perentoria».
Un altro ritratto di Cardarelli lo fornisce Alfredo Gargiulo: «Nessuno riuscì a intravvedere nel parlatore, sotto l'abbondante eloquio versato nei più diversi argomenti, la facoltà dominante di concentrazione e rigori espressivi, che poi venne a rivelarsi nello scrittore.

E l'apparente satanico orgoglio, il gesto che mandava indietro la capigliatura, la bocca amareggiata nel dire, il riso mai franco, mai cordiale e a fondo perduto, a qualcuno riuscivano fastidiosi, a qualche altro addirittura insopportabili». Ma il primo critico che ha riconosciuto la forte personalità di Cardarelli ed ha tentato una definizione della sua poesia e della sua prosa è stato Emilio Cecchi, sottolineando l'umanità complessa e profonda del poeta che nasce fuori dell'arte con ritorni interni e ricapitolazioni.

Differente è il giudizio di Gianfranco Contini per il quale la poesia di Cardarelli è «un repertorio, una storiografia d'idee fisse. La sua ispirazione ha carattere metodico... Si disegna in negativo la figura dell'uomo di lettere. Uno spirito inattivo e meditativo dinnanzi allo spettacolo d'una bellezza vergine».

Come si può ben osservare è indubbio che vi sono numerosi e diversi giudizi critici: a volte tesi a sminuire il valore della poesia cardarelliana, altre volte sarcastici e spesso contrastanti. Una parte della critica ha considerato Cardarelli solo un prosatore, «non saprebbe che scrivere in prosa» ha affermato Giuseppe De Robertis, «proprio per quel senso e quel gusto della prosa profondamente e dolorosamente realista».

Di tutt'altro avviso Mario Luzi, il quale ha analizzato la struttura del linguaggio di Cardarelli: «Rapito più dalla propria voce che dall'immagine, semplifica la sintassi a quegli elementi che bastano a distendere il suono mitico, il grande respiro della sua voce». Ecco allora che la poesia di Cardarelli si identifica con la personalità, il carattere del poeta: «Con le sue opere Cardarelli produce l'esempio così raro di un poeta in cui i limiti ed i pregi sono tutti direttamente riferibili alla storia precisa, inerente dell'uomo».

In una rievocazione apparsa su Il Corriere della sera del 15 giugno 1959, Eugenio Montale insiste acutamente sull'isolamento di Cardarelli. Ricorda l'infanzia difficile del poeta, la vita solitaria in camere d'affitto, la scarsa partecipazione all'ambiente letterario che non lo vede quasi mai intervenire direttamente ed apertamente sulle varie riviste con l'unica eccezione della Ronda, e per finire ricorda il misantropismo di Cardarelli sempre più accentuato con gli anni, il suo tono sferzante a volte persino feroce.

Vincenzo Cardarelli è rappresentato come un "giudice dal dito alzato":

«scrittore impeccabile che nulla aveva concesso alle ragioni del Romanticismo, custode rigido della tradizione, scopritore e rivendicatore del vero Leopardi dello Zibaldone. Un geniale autodidattta rinchiuso in una intransigenza che non offriva vie d'uscita ai discepoli o ai lettori della rivista "Ronda" e che dopo lo scioglimento della stessa rivista aveva continuato una battaglia da isolato. Come poeta lirico i «Prologhi» e alcune parti dei «Viaggi nel tempo» esauriscono il Cardarelli che resterà. Il moralista precedette sempre il poeta che si mantenne sempre sulle posizioni del suo intransigente classicismo integrale. Di lui si può dissentire forse su tutto ma non si può disconoscergli il culto di una immagine alta e quasi inaccessibile dell'Italia, privilegiata e sacra»

(Eugenio Montale)

*****************

Considerazioni finali

Cardarelli in poesia e soprattutto nella prosa aspirò ad una forma poetica che eliminasse ogni compiacimento e riscattasse la vicenda personale ed il dato paesistico elevandoli dal piano contingente a quello di una assorta meditazione. La vicenda delle stagioni, il fascino della bellezza adolescenziale sono innalzati a paradigmi del destino dell'uomo.

Da questa visione deriva il tono meditativo della sua poesia che si svolge con mirabile esattezza e rigorosità e tende a sciogliersi entro moduli di chiarezza meditativa e riflessiva. Tutto è sostenuto sempre da una ambizione di tono alto e da una ricerca di compostezza formale: entrambe mirano a superare la precarietà e l'angustia del dato giornaliero, l'abbandono a moduli impressionistici.

Ecco allora delinearsi a chiare lettere il profilo di un uomo inquieto che in un perenne dialogo con la memoria acquista sempre più una dolente coscienza del vivere.

Essere moderni ed essere nuovi, senza estirpare le radici che fissano l'arte e la letteratura alla cultura nazionale: è in questi termini che possiamo riassumere la posizione di Cardarelli. Con la sua opera dimostra che tale equilibrio può essere raggiunto. Ecco perchè appare ancora attuale.

Nei Prologhi, nei Viaggi nel tempo, in Favole e memorie,
che molti ritengono a ragione le sue cose migliori, Vincenzo Cardarelli realizza un esempio mirabile di prosa d'arte per il costante impegno stilistico mirante a mantenerle sempre su un tono di essenziale sobrietà; per certi toni nella rievocazione di memorie d'infanzia o di luoghi trasfigurati dalla memoria o resi suggestivi da dati culturali e letterari; e per ultimo il fascino del canto che spesso le anima.

Quando Cardarelli scopre la sua vocazione letteraria, tutto il suo tempo e le sue preoccupazioni vengono assorbite dalle ricerche stilistiche e poetiche. Nasce il suo universo poetico costituito dalle sensazioni, dalle memorie, dai simboli, dalle evocazioni; le persone, i paesaggi, gli oggetti non hanno una vita propria ma esistono soltanto in virtù della forza evocatrice del linguaggio, dell'ordine e del movimento delle immagini e delle parole. Si muove tra la ricerca del massimo effetto, la proiezione della realtà in un mondo favoloso e la trasposizione simbolica. Cardarelli trova finalmente la sua esatta misura nelle prose di memoria e nelle elegie evocative. Negli ultimi anni inquieti della sua esistenza, densa di angoscia e di paura, il poeta si volge indietro a considerare la sua vita e la sua opera che si identificano con una Tarquinia da «favola» e non certo con quella vera. È tutto il suo mondo, e in un certo senso tutta la sua opera, che crollano al contatto con la realtà. «I dolci inganni della memoria» non salvano il poeta dal naufragio. Mentre si avvia lentamente, ma fatalmente, verso la fine, concluso il ciclo della creazione artistica, la sua nave cola a picco proprio in vista delle mura di Tarquinia, nel grembo della terra genitrice. Un favola che termina in un dramma ed è solo la pietà che ferma la mia mano. Unica e dolorosa testimonianza che intendo riportare è ciò che Vincenzo Cardarelli scrive in una lettera datata 5 febbraio 1945: «Non ci sono parole per descrivere la mia posizione, che sarebbe meglio chiamare tragedia. Sono in casa d'altri, mangio il pane che sa di sale. Il cimitero è qui a due passi... Attendo il compimento della mia sorte che sarà certamente tremenda».
Questo mio scritto vuole essere solo una introduzione a Vincenzo Cardarelli.

Al lettore più esigente per placare la sete consiglio di andare direttamente alla fonte e cioè di leggere l'opera del Cardarelli con un nuovo spirito di ricerca.

Bibliografia

Vincenzo Cardarelli, Bruno Romani, La Nuova Italia, 1968, Firenze.
Storia della letteratura italiana - Il Novecento -, Garzanti, 1969, Milano.
Opere complete, G. Raimondi, Mondadori, 1962.

**************

( Articolo Letteraro di Massimo Barile , tratto da:
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