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Sito Letterario & Laboratorio di Scrittura Creativa di Monia Di Biagio.

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Capitolo 18 "Il tempo delle anime, la frequenza di Dio&
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franco123






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franco123 is offline 

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MessaggioInviato: Sab Giu 25, 2016 7:11 pm    Oggetto:  Capitolo 18 "Il tempo delle anime, la frequenza di Dio&
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18)- La collina.

“Ok, ci vado e… arrivederci e grazie”, disse e nell’impazienza di andarsene dimenticò le buone maniere.
Ma non voleva essere scortese così, voltandosi salutò con la mano il gruppetto che intanto era rimasto, immobile, ad osservarlo… .
Arrivò in cima alla collina dove si fermò per guardare attorno.
Trasalì spaventato.
Da quell’altezza, la prima cosa che colpiva, era la vastità della valle.
Era così vasta da parere infinita.
Non se ne vedeva la fine tanto da lasciare percepire persino la curvatura dell’orizzonte.
Quello che colpiva di più l’immaginazione però, era la miriade di puntini scuri che la costellavano.
A guardare bene, quei puntini, non stavano mai fermi.
Non erano statici come ad una prima occhiata poteva sembrare, ma si muovevano continuamente.
Simili a branchi di pesci, formiche, nuvole di locuste, scarafaggi, si agitavano formando gruppetti che prima si scioglievano e poi si radunavano di nuovo un po’ più in là, senza sosta.
Incessantemente.
“Ma che puntini e puntini”, si disse Franco meravigliato, “quelle sono persone!” e rimase a bocca aperta.
Persone che a guardare bene, e ciò era valido soprattutto per le più vicine, erano tutte diverse l’una dall’altra.
I colori della pelle sfumavano dal nero, al grigio, al beige al giallo o rossastro, ma anche tendente all’ocra.
I volti, per lo più, erano ricoperti di barbe fluenti e baffi, ma moltissimi erano gli sbarbati e salvo i più gabli, non tutti naturalmente, ma solo alcuni, erano anche tatuati.
Si distinguevano anche differenti fogge di vestiario.
Alcuni erano ricoperti di uniformi cachi o grigioverde, altri in borghese, ma delle fogge più strane.
Alcuni in modo stranamente antiquato, altri un po’ più alla moda, alla moda moderna, attuale, intendo, mentre altri ancora, invece, vestivano in strane fogge orientali: barracano e fez, per intenderci e mantello.
Alcuni poi, erano addirittura in chimono, in perizoma ed altri ma percentualmente un numero esiguo, con toga romana, gonnellino greco o persino nudi.
Mentre quelli vestiti in toga e gonnellino mostravano un cipiglio decisamente più severo della media dei presenti e un’aria assai più civile, questi ultimi, almeno dall’aspetto, sembravano primitivi!
Si muovevano, lo abbiamo già detto, ma non basta perché allo stesso tempo non è che se ne stessero in silenzio a meditare, tutt’altro!
La valle era permeata o meglio saturata da un continuo brusio che Franco ci mise un bel po’ di tempo a decifrare.
Quella gente, evidentemente, non si chetava mai un momento!
Parlavano tutti insieme e quasi fossero riuniti a convegno, assemblea, comizio, adunata, proprio come fanno oggi nei talk show televisivi, si parlavano addosso, si coprivano la voce l’un l’altro.
Suddivisi a gruppi, gruppetti, frotte, sciami, generavano quel sottofondo di rumori, armonici se presi uno alla volta, cacofonici se mescolati insieme, da ingenerare un trambusto.
Risuonavano i contrafforti della valle dal continuo cicaleccio il cui significato però, ammesso che ne avesse uno, e Franco cercò invano di trovarlo, al momento gli era precluso.
Incredibile a dirsi, da quel sottofondo, che a ben sentire non solo era fatto di parole ma anche da una cacofonia di ruggiti, barriti, miagolii e cinguettii come avviene in uno zoo di animali sia da cortile che feroci, ogni tanto, quando il vento spirava dalla parte opposta, Franco riusciva a percepire qualche cosa.
La distanza, che non consentiva di distinguere le parole, lasciava indovinare almeno una cosa, ossia il piacere con il quale quegli strani personaggi discutevano.
Il modo di gesticolare e muovere le mani, ossia la mimica, faceva pensare agli stretti legami che solitamente esistono fra colleghi, commilitoni o quant’altro!
Passata la sorpresa, Franco iniziò a discendere la china.
Da prima a balzelloni, poi sempre più adagio dirigendosi verso un drappello che se ne stava radunato sulla destra.
La scelta non fu dettata da altro che dalla vicinanza al punto dove si era trovato ma anche dal fatto che sembrava isolato e stranamente in silenzio.
Da come l’osservavano, incuriositi forse dal suo modo di scendere dalla collina, si capiva che lo stavano aspettando!
Franco, che li aveva notati e riconosciuti già da tempo, effettuò una deviazione dalla traiettoria originale, quella che lo avrebbe condotto direttamente al fondo valle e si diresse deciso verso la loro posizione.
Altro motivo della scelta di iniziare il dialogo con quel drappello era l’attrazione esercitata da quel camisaccio bianco, pantaloni a campana, solino e fazzoletto nero, nonché classico berretto da marinaio, che vestivano.
Erano marinai e come tali godevano, per lui, di precedenza.
Provò a leggere il nome della nave sul cappello ma solo quando fu vicino riuscì a riconoscere il nome.
“Regia Nave Roma”.
“Chi siete, chi siete?”, chiese affannosamente al più vicino del gruppetto.
“Siamo marinai della Roma, la corazzata che il 9 settembre del 1943, venne colpita e affondata nelle acque della Maddalena”, rispose uno di loro con un marcato accento meridionale.
“Ah si e dove, come?” chiese Franco concitato.
Era emozionato e gli si leggeva in volto.
Ad incontrare quei marinai, che sapeva morti, in realtà rivedeva se stesso negli anni 55, gli anni della leva di mare del 37.
Mentre parlava, sebbene dall’emozione gli tremasse la voce, cercò ugualmente di rimanere serio e di riuscire ad indagare su quale fosse stato il vero svolgimento di quell’increscioso avvenimento.
“Cosa Le devo dire”, s’intromise un altro che sembrava toscano, “sa com’è stato? E’ successo tutto in un lampo, quelli (i Tedeschi) ci passavano sopra, sa, con l’aereo e noi lì sotto zitti, zitti a guardare”.
“A guardare”, sbigottì Franco, “come a guardare, dovevate reagire, non guardare soltanto!”.
“Toh, beato lei che ce lo dice ora cosa c’era da fare, ma allora, che dell’armistizio non ne sapevamo niente cosa potevamo fare?”.
“Ci credo”, mormorò Franco, al quale intanto era venuto un nodo alla gola, di quelli che ti impediscono di parlare ed infatti rimase zitto.
Aveva notato, infatti, che l’età media di quei marinai era sicuramente inferiore ai sedici, diciassette anni.
“Quanti anni hai?”, chiese ad uno di loro, “sedici e mezzo”, rispose prontamente l’atro “e lei?”.
“Impertinente!”, rispose Franco e rise, “lo sai quanti anni ho io?”, “no, non lo so davvero”, “ebbene, te lo dico, ne ho sessanta!”.
Era la solita storia.
Franco ci teneva a sentirsi dire che li portava bene, che era ben conservato e anche questa volta volle tentare la sorte e gli andò bene.
“Veramente?”, rispose l’altro e si sentiva che era sincero, “non sembra proprio, al massimo gliene davo cinquanta!” e rise perché gi sembrava di aver detto una bella battuta.
“Va bene, va bene”, rispose Franco facendo finta di non aver sentito, “ma come avvenne o meglio cosa successe esattamente quel giorno?”.
A rispondere, invece di quel ragazzino impertinente, si avvicinò un maresciallo e che lo fosse, lo si arguiva chiaramente dal fregio che portava sia sul berretto che sulle spalline della giacca.
Erano, infatti, tre strisce d’oro attribuibili ad un “Capo” di prima o Maresciallo Maggiore e l’esperienza gli si leggeva in faccia.
Volto abbronzato, indurito dalla pioggia, dal sole, dal tempo e dalla consapevolezza dei tanti sacrifici fatti e richiesti per obbedire al comando e…. far andare avanti una nave in una vita tutta dedicata alla Marina Militare, alle sue navi, agli equipaggi e al mare.
Sintomatici i due affusti incrociati di cannone che spiccavano sulla manica dell’uniforme ad indicare la sua categoria: era capo cannoniere, ma in quel momento, accanto a lui ne venne un altro e dai due lampi incrociati sulla manica della giacca, capì che era capo elettricista e poi un’altro ancora, R.T. (radio telegrafista) e poi sottocapi, specializzati, diplomati, comuni e Marò, accomunati tutti da quell’aria svagata che si assume quando non si ha nulla da fare e che i militari spesso hanno (beati loro) e tutti insieme gli si misero attorno, a semicerchio, ad ascoltare.
Sui quei volti tesi, magri, scavati dalla naia, ma simpatici, si leggeva l’impazienza di poter parlare, chiedere spiegazioni e far domande.
“Ebbene, ditemi cosa posso fare per voi”, chiese Franco parlando forte e col tono di chi ha da dare molte risposte.
“Va bene”, prese a dire il capo cannoniere, il primo che si era avvicinato.
Sembrava molto sicuro di se e da quel vero nerbo della Marina Militare che era stato o almeno così a quei tempi si diceva, iniziò a dire, “ La ringrazio di essere venuto qua e di essersi interessato a noi; qui stiamo bene ma vede, una preghiera ce l’avrei” e fece una pausa, si guardò attorno e…. “che ci rammentino in Patria, ci ricordino a casa, che leggano i nostri nomi qualche volta, così, tanto per non dimenticare, in fondo è anche per loro che siamo morti!”.
Pianse franco, pianse davvero e calde lacrime di dolore gli sgorgavano dagli occhi mentre balbettava, “Non è giusto che a nessuno venga a mente, salvo pochi, del vostro immane sacrificio; altro che gioventù spensierata, altro che amore, a voi è toccata la mala sorte e me ne duole il cuore!”.
Suonavano come una nenia, una cantilena, quelle frasi sconnesse, o forse gli uscivano così, in modo naturale per effetto dell’emozione, di quell’emozione profonda che provava alla vista di quei ragazzi trattenuti lassù, senza saperne nulla!
Proprio nel momento in cui si apprestava a dare qualche spiegazione, avvertì il suono di un fischietto, un trillo modulato e allora gli tornarono a mente le adunate, in caserma, al CAR a Maridepo Taranto, nel 55, si volse e vide un drappello in avvicinamento.
“Chi sono?”, chiese al marinaio più vicino, che intanto si era messo sull’attenti.
“E’ l’Ammiraglio”, mormorò quello fra i denti e se si può, si fece ancor più serio.
Lo riconobbe Franco!
E non perché lo avesse frequentato, l’età e la classe non glielo avrebbero consentito, ma dalle foto dei libri di marina, nonché del Corriere della Sera, (vedi C. d. S. del 3 agosto 2000, pag.23) che teneva di conto, l’aveva riconosciuto!
Era Bergamini, l’Ammiraglio, riconoscibilissimo da quella sua aria sorniona, ma benevola, intelligente che solitamente ostentava quando veniva a presiedere un appello.
Pronunciò poche parole, più che altro di elogio per la disciplina ed il comando (il comandante della nave, naturalmente era un altro), poi si dilungò su un problema che ai più e a lui stesso, Franco, suonò assai profetico, ma poco, pochissimo chiaro, in sostanza disse: “Ufficiali, Sottufficiali e Comuni di questa regia nave Roma; noi portiamo il nome della nostra capitale e perciò dobbiamo tener fede al giuramento che ci legò per sempre alla madre patria e alla marina; lungi da noi l’eroismo che non vi è richiesto ma anche la resa, quella poi, che mai e poi mai l’avrei anche in condizioni normali, accettata, figuriamoci ora che i giochi sono fatti” e tacque.
Si guardarono l’un l’altro, sia quelli di fronte a Lui che alle sue spalle.
Il vicino di squadra, di plotone era serio, molto serio e a tutti si leggeva in viso la speranza, quella che sempre arride al cuore del soldato, di tornarsene a casa!
“A casa, a casa!”, si sentì mormorare mentre l’Ammiraglio girava lo sguardo a destra e a sinistra e poi avanti e indietro, a tutti rivolgendo un sorriso e una parola di conforto.
“Si, si, va bene, vi ci porto io a casa, statene certi, ma non con disonore”.
A queste parole tutti rimasero ai loro posti, muti, rigidi e rigorosamente sull’attenti e fu in quel momento che s’intese un boato, un sussulto e la nave sbandò, si spezzò in due tronconi che prima si drizzarono, poi precipitarono sul fondo facendo un fracasso da incidente ferroviario.
Una montagna d’acqua l’invase e poi, dopo un certo periodo di silenzio, urla, scompiglio e tanti, tanti corpi moribondi, in dissoluzione e morti.
Franco, che a quell’insolito spavento e rumore aveva fatto un balzo indietro ed aveva scartato anche di lato, rimase a guardare, allibito e gridò: “Che succede?”, poi gli si strozzò la voce in gola.
Non più ragazzi ora, né marinai, ma solo una superficie immobile, un mare calmo e frusciante.
Come se l’evento si fosse ripetuto solo per lui che vi assisteva per la prima volta e poi esauritasi la scena e chiuso il sipario fossero tutti andati via, quei marinai erano spariti, dissolti, scomparsi e Franco era rimasto solo.
Per un po’, rimase a contemplare il vuoto che gli si era fatto attorno poi sospirò, si mosse e lentamente si avviò verso un altro drappello di persone che da lontano erano rimaste anch’esse a guardare attonite.
Erano soldati anch’essi, ma di fanteria e con la piuma sul cappello!
Bersaglieri, indubbiamente, in tuta mimetica, alcuni armati di fucile d’assalto Beretta, altri col 91 corto e baionetta inastata o addirittura col moschetto, quello dei carabinieri con la baionetta a chiodo, imperniata.
Faceva caldo e l’immagine sia delle dune che del deserto era tremolante.
Il cielo era sereno, limpido e in lontananza si vedeva avanzare una colonna di polvere.
“Gli Inglesi, gli inglesi”, si misero a bisbigliare l’un l’altro.
Erano voci alterate, ma non di paura, ma di eccitamento!
“Chi siete?”, chiese Franco ad uno che gli stava vicino, “siamo bersaglieri della Folgore, del primo reggimento di stanza ad El Alamein” rispose quello con cipiglio, “e siamo qui per difendere la postazione da un attacco di carri”.
Detto questo, quasi a sottolineare la serietà dell’impegno, fece un passo indietro, indicando nel contempo, a braccio teso, quelle scure scatolette che la distanza gli impediva di riconoscere.
“Vede quella colonna?”, “si la vedo”, rispose prontamente Franco, “sono gli Inglesi con i Matilda, i tank del loro esercito e noi li aspettiamo con le bombe a mano!” e mentre parlava, col dito indicava il grappolo di bombe appese alla tracolla.
Chi aveva parlato era un giovane che non doveva avere più di 18 – 20 anni!
A quelle parole, pronunciate con un cipiglio da fare paura, Franco era rimasto sorpreso, ma anche ammirato.
“Ma con queste qui che ci vuoi fare?”, gli chiese, provocatoriamente.
“Gliele voglio buttare nella torretta non appena si avvicinano a tiro!”, rispose prontamente l’altro.
“Ma sei matto!”, esplose Franco che non riusciva a credere a quel che sentiva, “e se ti uccidono?”.
“Poco importa”, rispose prontamente l’altro, ma dal modo precipitoso di esprimersi, un po’ diciamo isterico, sembrava essere guidato da uno stereotipo, un cliché, un qualche cosa di preconfezionato e allora Franco volle andare a fondo della cosa e chiese, “ma chi te lo ha ordinato?”.
Lo guardò il bersagliere, come si guarda un nemico, un traditore, un vigliacco ossia con odio misto a commiserazione e disse. “Senti un po’ tu, imboscato, cacasotto, io ci vado perché è il mio dovere e tu poi fai come ti pare che sembri tutt’altra cosa che un soldato!”.
“Hai ragione”, gli rispose Franco che aveva capito, “tu sei l’eroe, non io né alcuno ai tempi miei lo avrebbe fatto, quello di buttar la sua giovinezza per l’onore” e ammirato tacque.
Poi gli venne in mente una persona, un amico che era sfuggito alla gran carneficina di quella famosissima battaglia e, “conosci un certo Giuseppe Tiberio?”.
“Tiberio Giuseppe?”, rispose l’altro invertendo burocraticamente i termini del nome e aggiunse, “sono io, per servirla”.
Tacque Franco sia per la sorpresa che per la costernazione, “ma come”, pensò, “ma Giuseppe Tiberio, il pittore, in arte Madelein, tutt’ora vivente e abitante a Milano è già morto?”.
Sebbene Franco lo avesse solo pensato, sembrò comprendere e disse, “vai a controllare perché forse è morto!”.
“Non ci credo”, rispose Franco mentre la fronte gli s’imperlava di sudore, “ma se siamo andati in Antartide insieme nel 78 ”, “Ah si, nel 78, lo so anch’io, ma poi? L’hai più rivisto dopo quella strana avventura?”, “si l’ho rivisto ma solo fino a che ho vissuto a Milano, ma poi, da quando ne sono venuto via, non l’ho più visto”.
“Bene, bene”, mormorò l’altro un po’ soprapensiero, “se è così che stanno le cose allora io secondo te chi sarei?”.
“Se non sei lui, chi sei?”, chiese Franco al quale la cosa cominciava a sembrare pazzesca.
Chiese: “Due son le cose o sei morto e allora va bene star qui come tutti gli altri e a buon diritto, altrimenti che ci stai a fare qua e da dove vieni?”.
“Vengo dal nulla e dal pensiero; dal pensiero di chi ha tanto sofferto che addirittura ne rimane traccia in cielo e anche se non è ancora morto se ne sente così tanto la mancanza che è come se fosse vivo”, ragionava come se parlasse fra se e se, il morto, “ma tu invece, chi sei?”.
“Sono un amico tuo da vivo”, rispose Franco, “ma anche da morto perché quello che facesti per la patria tua è fuori discussione, è fuori di qualunque tempo, esiste e da sempre vien chiamato eroismo!”.
L’altro lo guardò.
Lo sguardo era freddo, inespressivo, privo di alcun segno di emozione e Franco capì che non aveva compreso.
Dopo un momento di silenzio, rotto solo dal clangore dei cingoli dei carri armati in avvicinamento, senza alcuna emozione, senza sforzo, l’uomo rispose, “mi piace quello che dici, anche se non lo capisco a pieno, ma ti prego, rammentami nelle tue preghiere perché anche se non sono ancora morto il corpo mio è gia qui in attesa dell’evento” e detto questo tacque.
Intanto i carri, che nel frattempo si erano fatti più vicini, si fermarono di botto.
Si avvertì chiaramente il ronzio del ruotar delle torrette, l’alzo delle bocche da fuoco assieme al clangore di qualche piccolo spostamento, infine il grido, “Fire!” e fu l’inferno.
Colpi su colpi prendevano in pieno sia la postazione che i nostri soldati che saltando per aria gridavano di dolore e pur piangendo, tenevano duro.
Nessuno si muoveva dal suo posto e mentre i sottufficiali e gli ufficiali gridavano a più non posso, “Sparate, sparate!”, gli Inglesi si fecero sotto.
Non ne poté più Franco di quello spettacolo mortale, di quella impari carneficina e venne via, il volto nero dalla polvere da sparo rigato dalle lacrime che gli colavano dagli occhi.
Per non sentire né vedere si allontanò e abbandonò il luogo della battaglia.
In cuor suo sperava che quel bersagliere se la fosse cavata perché gli era amico e un giorno sarebbe stato un suo compagno d’avventura.
Si mise a correre e si fermò solo quando non sentì più niente.
Di nuovo quel silenzio che permeava tutto.
Non più spari, urla disumane, ma solo pace e silenzio.
Rattristato, si rimise in cammino e si fermò solo quando si trovò ad avere i piedi così stanchi da non poter più andare avanti, ma intanto, aveva raggiunto i limiti dell’altopiano.
Si affacciava ora, su una seconda depressione o pianura, in parte deserta, ma così larga da non lasciar vedere la fine.
Dovunque l’occhio si spingesse, non vedeva che sabbia e rocce o meglio, sassi!
Sabbia e deserto rotti dalle dune, uadi, cumuli di sassi, sterpaglie, ma che cos’era, in lontananza, quella sottile riga nera?
Si accosciò sui tacchi e portata la mano alla fronte per parare il riverbero solare, cercò di capire di cosa si trattasse.
Si trattava di una carovana di gente che piano, piano si stava avvicinando.
“Una carovana?”, gli venne spontaneo pensare.
Attese finché furono a breve distanza (forse un centinaio di metri verso sinistra), ma siccome ancora non lo avevano notato, si mosse dapprima cautamente, poi giù a rotta di collo, incontro a tutta quella gente.
Si avvicinò al primo della fila, un uomo alto, evidentemente maturo, il volto rugoso, labbra sottili, il naso adunco e gli occhi che parevano di fuoco, al quale chiese: “ Chi siete?”.
Da vicino e con un po’ più di attenzione, si rese conto dal loro abbigliamento, vagamente somigliante a quello visto all’Arena di Verona (durante la presentazione dell’Aida!) che potevano essere ebrei.
Quel tizio, infatti, era sommariamente vestito con: un barracano lungo fino ai piedi, ai piedi, calzari di foggia antiquata, tipo sandali orientali, in testa una sorta di turbante di stoffa arrotolata che un tempo doveva essere stata bianca e alla cintura teneva appesa una borsa di pelle a mo’ di borraccia e un pugnale.
“Chi siete”, ripeté Franco.
“Siamo Ebrei, figli di Mosé, ma prima di Lui di Abramo Isacco e Giacobbe e veniamo dalla terra d’Egitto e tu chi sei?”.
Franco, rimase stravolto nell’udire queste parole, per di più pronunciate con uno strano accento laziale e balbettando rispose, “Come dall’Egitto ma allora tu sei Mosé?”.
“L’hai detto, figliolo, sono proprio colui che hai nominato, ma perché ti spaventi?”.
“No, no”, si affrettò a rispondere Franco, “niente affatto, anzi ne sono lusingato e direi anche felice ma sai com’è, vista la quantità di tempo trascorsa dai giorni vostri ai miei, sono rimasto un po’ sorpreso!” e rise della sua stessa battuta.
L’altro però, che non sembrava aver capito e sicuramente non aveva percepita la sottile ironia della battuta e non ne comprendeva il motivo dell’ilarità, forse un po’ contrariato chiese, “perché ridi?” e il suo volto era diventato severo e anche un po’ triste.
“Non rido di te, non sia mai detto”, rispose Franco che solo in quel momento si era rammentato di quanto fossero seri gli Ebrei e della proverbiale loro mancanza d’umorismo, “anzi sono emozionato dalla vostra presenza, però il fatto di incontrarvi qui a Sharm el Sheikh mi sorprende assai”, disse usando un linguaggio il più semplice possibile.
Si avvide che l’altro non lo seguiva affatto, così riprese a parlare compatibilmente con il senso del discorso, in modo ancor più semplice e informale, “lo sapete che qui, dove siamo ora, esiste un centro alberghiero di prim’ordine, che può ospitare migliaia di stranieri?”.
“Stranieri, centro alberghiero, Sharm el Sheikh, ma dove siamo, di che cosa stai parlando?” e la sua voce era leggermente turbata.
“Siamo nel Sinai, nel deserto che mena al monte Sinai dove vedrai il Signore e riceverai le tavole della legge o ancora non lo sai?”.
Silenzio.
Poi l’altro, con un fil di voce, “Che tavole, che legge, che Signore?”.
All’udire quelle parole, fece un sobbalzo Franco e non potendo credere ai suoi orecchi, “Ma come che legge, che Signore ma allora tu chi sei, non sei Mosè?”, chiese.
“Sono Mosé ma forse non quello che tu dici, quello era un altro che partì anche lui dall’Egitto ma si perse o almeno così sembra e nessuno l’ha mai più rivisto”.
“Mamma mia”, pensò Franco, “che notizia, pensa ritornare nel mio tempo con una notizia del genere, che casino!”.
Ragionava fra se e se Franco, ma intanto osservava quella gente che, sedutasi per terra e tirate fuori delle provviste le mangiava, sgranocchiando e dialogando fra loro in modo incomprensibile.
“Sarà ebraico antico”, pensò Franco, ascoltando quei suoni gutturali, “o aramaico” ma non disse nulla.
Poi si riprese e approfittando del momento in cui l’altro si era messo a mangiare, gli chiese. “Insomma chi siete, da dove venite e dove andate?”.
l’Ebreo ristette per un po’ in silenzio, ma poi rispose: “Siamo ebrei fuggiti dall’Egitto, esattamente dalla città di Pitom, sai quella dove il grande faraone Ramses 2°, volendo costruire un grande deposito, c’impiegava come diceva lui, sfruttandoci come dicevamo invece noi, a fabbricare mattoni!” e detto questo tacque.
“Ma come”, rispose Franco allarmato, “fare mattoni, capisco, non sarà stato il massimo, ma non era meglio restare in Egitto? Non ci stavate bene? Perché ve ne siete andati via, per venire qui nel deserto?”
“Semmai ci hanno mandato”, rispose cupamente l’altro, saltando a piè pari tutta la prima parte del discorso, “e se conosci la nostra storia, saprai che ci siamo dispersi; dieci su dodici tribù si sono affermate, la nostra come l’altra, quella di Beniamino, non trovava un posto e così si è dovuta spostare e non ha fatto più ritorno”.
“Va bene, va bene”, tagliò corto Franco che in queste cose non era ancora molto ferrato, “ma allora”, chiese, “che intendete fare?”.
“Non lo so ancora”, rispose l’altro, “intanto ce ne staremo qui poi si vedrà” e tacque.
“Ditemi”, aggiunse Franco che era incuriosito, “ma nel fuggire dall’Egitto, da dove siete passati esattamente?”.
L’altro lo guardò come si guarda a un deficiente, “Come da dove”, disse, “dal mare di canne, s’intende!” e il tono della sua voce sembrava togliere ogni dubbio.
“Si, si, ho capito ma da dove esattamente?”, insistette Franco.
“Dal mare di canne, no?”, instette l’Ebreo con fare saputo, “e da dove sennò?” e rise o meglio ridacchiò, compiaciuto della sua stessa risposta.
“Toh”, pensò Franco, “ha riso, questa si che è bella”.
“Va bene”, chiese di nuovo pazientemente Franco: “Si ma raccontami un po’ come avete fatto”.
“Va bene, te lo racconto”, rispose l’altro e cominciò: “Ci eravamo radunati al suono delle buccine (sorta di conchiglie sonore) e la gente stava sia in piedi che assisa sui carri quando io stesso detti il via alla carovana e ci muovemmo”.
“Avremmo percorse si e no 40 leghe quando venne di corsa un ragazzo dalla retrovia dicendo che gli Egizi ci stavano inseguendo”.
“Dallo spavento molta gente si mise a piangere e a gridare: “vogliamo tornare indietro, ci ammazzeranno tutti”, dicevano.
“Ma io li zittii dicendo che ormai in ogni caso ci avrebbero ammazzati lo stesso, quindi era meglio proseguire”.
“Scese la sera e prevedendo il peggio ossia, dispersioni, fughe e guai, feci accendere un falò sul carro di testa in modo che gli altri, vedendolo, lo potessero seguire.
Intanto avevo saputo che gli Egizi, forti del nerbo della cavalleria e tranquillizzati dal fatto incontrovertibile che ci stavamo dirigendo vero il mare, si erano accampati su di una collinetta e ci stavano a guardare.
“Quella luce attira decisamente il loro sguardo”, pensai, “bisogna che la usi per facilitarmi il gioco”.
Calò la notte e come previsto era profonda e senza Luna, così decisi di spostare il carro illuminato nella retrovia della colonna e nel contempo allargai le braccia e feci capire agli altri che il guado era pronto.
“Come era pronto”, chiese Franco, “in che senso?”.
“Nel senso che il fenomeno per cui il guado diventava agibile stava compiendosi”.
“E cioè, che fenomeno?”, chiese ansiosamente Franco.
“Il fenomeno previsto, quello per intenderci, che doveva avvenire e che avvenne proprio nell’ora stabilita, con le condizioni atmosferiche precise, ossia lo spirare per giorni e giorni di un forte vento da Tramontana (Nord), alta pressione, bassa marea sizigia (Sole, Luna e Terra in allineamento) così che, la concomitanza di queste tre cose, fece si che il guado fosse transitabile altrimenti nulla!”, rispose.
“Ho capito”, insistette Franco che di queste cose se n’intendeva, “ma come funziona questo guado, intendo dire, come facevi a saperlo?” e attese.
“Funziona in un modo che solo io e pochissimi altri lo sanno”.
“Va bene, ma come?”, insistette Franco che non ne poteva più di quelle lungaggini verbali.
“Tassativo per poter fare buon uso di quella bassissima marea, è il rispetto di una ben precisa situazione che si verifica si e no una volta all’anno e precisamente ad una certa data di una certa notte, naturalmente di luna nuova, ossia invisibile e non un’altra e a quell’ora stabilita dovevamo trovarci pronti, altrimenti niente”.
“Quindi se non aveste conosciuta e la data e l’ora esatta del fenomeno, tutto sarebbe stato vano oppure sarebbe potuto avvenire senza di voi?”, insistette Franco.
L’altro però, non rispose direttamente ma com’era uso in qualsiasi paese orientale, cambiò la domanda e disse: “Visto che t’interessa tanto”, ed era laconico, “sappi che se solo fossero improvvisamente cambiate le regole del gioco oppure avessimo ritardato di un po’, tutto sarebbe precipitato ed io e noi, non staremmo qui a parlarne!”.
Titubante ad accettare l’idea, ma rispettoso di quell’uomo che, forte solo della sua immensa fede, aveva osato sfidare la sorte e che sorte, Franco rimase in silenzio!
“Va bene”, aggiunse, “continua”.
“All’inizio, i miei titubavano e da quei fifoni che sono e sono sempre stati non volevano partire, ma poi intrapresero un viaggio che, credo, non abbia avuto uguali in tutta la nostra storia (e di quella dell’umanità!)”.
“Lo credo”, esclamò Franco, ma l’altro imperturbabile ignorò l’interruzione e continuò: “gli Egizi, forti del loro numero e bene armati, ci stavano tranquillamente ad aspettare!” e col sorrisetto compiaciuto e stampato sulla bocca, faceva intendere in quanto poco conto li tenesse.
“Sicuri di se stessi e della loro super potenza, non potevano immaginare in che razza di trappola li stavamo per attirare”.
“Dal loro punto di vista, quella fiamma immobile del carro, era indice di una qualche sacra, notturna nonché strana ai loro occhi, cerimonia in un mare che intanto stavamo felicemente attraversando”.
“Tenevano d’occhio la luce e solo quando si avvidero che si stava muovendo, capirono e si mossero, gridando”.
“Come capirono, che cosa capirono?”, chiese ansioso Franco.
“Capirono che qualche cosa di strano stava avvenendo, quando videro che la luce del carro si stava da prima avvicinando e poi inoltrando nel mare!”.
“E allora?”, chiese Franco.
“Allora non persero tempo e si precipitarono giù dalla collina con carri, cavalli, armi e cavalieri, pronti a fare una carneficina!”.
“ E allora?” insistette ancora Franco.
“E allora, successe che una volta giunti sulla riva non trovarono più nessuno ma intanto la luce del carro, che una volta arrivato dall’altra parte del guado, era stata naturalmente spenta, era sparita e non sapevano cosa fare”.
“Ma come fecero ad accorgersi del guado se era notte fonda e senza Luna e la luce del carro era spenta?”, chiese Franco sospettoso.
“Si avvidero della presenza dell’insolito guado dal luccichio che faceva l’acqua circostante (non a caso si chiama Mar Rosso!)”.
“Come sarebbe a dire?”, chiese ancora una volta Franco e l’altro pazientemente spiegò: “Il colore rosso acceso dell’acqua ne marcava distintamente il guado percorribile anche a cavallo e quelli, senza farselo dire due volte, ci si precipitarono dentro”.
“E voi intanto che facevate?”.
“Noi, intanto, giunti sull’altra riva ci fermammo a guardare ed eravamo spaventati, per non dire terrorizzati”.
“S’indovinava la corsa degli armati dagli schizzi prodotti dagli zoccoli dei cavalli, ma anche dalle urla dei cavalieri che, correndo all’impazzata, emettevano per farsi coraggio e al tempo stesso terrorizzarci.
Persino il riflesso delle armature e degli elmi si notava, ma soprattutto il luccicare fiammeggiante delle spade di rame”.
Un profondo silenzio accolse questa realistica descrizione, ma poi il condottiero riprese: “direttamente, non li potevamo vedere, ma s’immaginava che ci venissero incontro velocissimi, i carri falcati bardati a guerra, brandendo lance e spade ed emettendo grida disumane di gioia, felici di farci a pezzi”.
Ora il tono del racconto stava diventando drammatico: “E noi lì ad aspettare come agnelli pronti al sacrificio perché consapevoli che nulla ormai avremmo più potuto fare”.
Poi la voce del narratore si calmò, si allentò la tensione.
“e avvenne finalmente, il miracolo; le urla si acquietarono e quando si azzittirono del tutto e si fece silenzio, capimmo che erano tutti morti.
“Il silenzio di tomba che ne seguì, indicava che erano tutti morti affogati”, ripeteva come un ritornello e Franco comprese perché era rimasto tanto scioccato.
“Tutti morti?”, chiese Franco col cuore in gola.
“Tutti morti”, insistette l’altro e aggiunse, “affogati, presumo, sicuramente spariti, inghiottiti dal mare che nel frattempo era rimontato e come in un sogno, il pericolo era scomparso, non esisteva più, era stato debellato da una forza superiore e allora, superato un primo momento di meraviglia, esplodemmo in urla disumane, gridi di gioia, gioia infinita”.
Il racconto era terminato il che voleva dire che l’ora delle parole era finita e bisognava riprendere il cammino.
“Ci credo!”, mormorò Franco e chiese: “Ma il guado, il famoso guado come facesti a trovarlo?”.
“Lo trovai a causa del Signore ossia con la fede, perché ci credevo, solo per fede, rammenta, immensa fede, puoi fare cose ritenute impossibili!” e mentre si allontanava continua ancora a parlare.
“Ma allora non è stata una magia, una gesto plateale, che so, allargando le braccia si è aperto il mare”, gridò Franco, correndogli dietro e alludendo probabilmente all’iconografia corrente.
“Niente affatto, nessuna magia, ripeto, ma solo Fede, quella con la F maiuscola, quella che sposta i monti, che distrugge gli eserciti nemici e li fa scappargli eserciti più agguerriti. La stessa che fa guarire gli storpi, gli ammalati”.
“Fede?”, ripeté perplesso Franco, “e come hai fatto ad esserne sicuro, a non tremare mentre quegli scatenati vi correvano incontro?”.
“E’ sempre e solo con la fede che siamo andati avanti ed ora che siamo qui parlami un po’ del tuo tempo e di questa Sharm el Sheikh che mi ha tanto sorpreso”.
“Il mio tempooo”, prese a dire Franco cercando di guadagnarne un pò “il mio tempo, di notevole, ha la tecnologia, il benessere e la democrazia, tutte conquiste che ci hanno messo tanto ad arrivare, sebbene siano venute al seguito di guerre sempre più cruente, con poco rispetto per i civili, il razzismo ed il mancato raggiungimento dell’eguaglianza sociale”.
“Ma che dici mai?”, chiese meravigliato quello, “che significa eguaglianza sociale?”
“Significa, detto in poche parole, che nonostante gli sforzi compiuti per risanare il mondo, nonostante la vostra Bibbia ed il Vangelo, non abbiamo ancora raggiunta l’uguaglianza e sulla Terra c’è ancora tanta gente che soffre fame e miseria”.
“Me ne dispiace assai”, rispose quello, “non pensavo che il mondo della vostra epoca fosse arretrato ancora fino a questo punto; per noi si sa, c’è poco da fare, è l’ignoranza che comanda, ma nel vostro!” e si chetò in attesa di conferma.
“Ignoranza, ignoranza!”, proruppe Franco al quale quel tema stava particolarmente a cuore, “l’ignoranza, purtroppo, esiste sempre ed è proprio quella che sconvolge il mondo, che ne invalida le buone intenzioni e rimette tutto in discussione, non fa progredire l’uomo nel suo cammino, facendogli fare due passi indietro ed uno avanti!”.
“Ma tornando a bomba, ossia a noi!”, chiese Franco, “non mi hai ancora detto a che gruppo appartenete”.
“Siamo del gruppo che prese la via costiera, non quella a Nord, detta via dei Filistei, che ci avrebbe esposti agli attacchi del nemico, ma quella a Sud, ossia quella che passa dalle città di Mara, Elim e Cazerot”.
“Si, va bene”, rispose Franco che quell’esodo lo aveva un po’ studiato, “ma Gebel Musa, il monte di “Mosè, non lo avete trovato?”.
“No, che io sappia nessun monte di Mosè, ossia col mio nome, si è mai presentato sulla nostra strada, semmai il Gebel Serbal, quello si che lo abbiamo visto”.
“Gebel Serbal?”, chiese meravigliato Franco, “ma come quello si, e il Gebel Musa no?”.
“No, no, te l’ho già detto, comunque, se vuoi, lo andremo a cercare, tanto“ e ammiccò con fare furbesco, “miglio più o miglio meno, cosa cambia?”.
Detto questo si alzò, si girò verso la sua gente che guardandolo con sincera devozione sembrava attendere l’ordine di partire e con aria leggermente stanca, “Andiamo!”, disse.
Passando di bocca in bocca, ci volle del tempo prima che l’ordine di marcia giungesse fino all’ultimo della colonna ma poi, prima lentamente, poi sempre più velocemente, tutti si alzarono in piedi e si misero in marcia.
La lunghissima colonna riprese il cammino e questa volta, forse, verso il monte assegnato dalla storia!
Così pensava Franco mentre con tono sincero, gridava, “Auguri!”, “auguri vivissimi” poi ad alta voce disse: “chissà che fine faranno?”.
Ma quelli camminavano e non sentivano niente e guardandoli, si capiva che erano contenti, felici di andare alla conquista della Terra Promessa e non pensavano ad altro se non del fatto incontestabile che da loro sarebbe dipesa l’umanità intera!

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Nel disperato bisogno di espandere la sua poersonalità, Franco Masini scrive per condividere i suoi ricordi, i sogni, le speranze con altri che non siano solo banali ripetitori di luighi comuni....!
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MessaggioInviato: Sab Giu 25, 2016 7:11 pm    Oggetto: Adv






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